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Appunti n.129
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Alcuni interrogativi sul terzo sistema
Giovanni Nervo - Fondazione Zancan

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Il terzo settore ha un grande valore perché mette in evidenza le risorse che ha la società civile e il valore delle sue libere iniziative. E’ però anche un fenomeno molto complesso, in continua e rapida evoluzione e presenta anche aspetti problematici
Il tema del terzo settore era affiorato la prima volta nel seminario di Malosco su "L'area del volontariato organizzato oggi" (1987) ed era stato approfondito sotto la guida del prof. Borzaga nel seminario di Bassano del Grappa (1990). Allora si parlava, forse meglio, di "terzo sistema". Il terzo settore ha un grande valore perché mette in evidenza le risorse che ha la società civile e il valore delle sue libere iniziative. E' però anche un fenomeno molto complesso, in continua e rapida evoluzione e presenta anche aspetti problematici. Ne elenco brevemente sette.

1) La poca chiarezza nell'identificazione delle sue diverse componenti e dei rapporti fra di esse. Si usa il termine terzo settore, come si trattasse di una identità omogenea, mentre è un arcipelago di realtà diverse, che hanno in comune alcuni elementi come la spontaneità, l'obiettivo non di lucro, la solidarietà come ispirazione, ma poi hanno caratteristiche proprie molto differenziate.
La nebbia aumenta ancora di più quando, invece del termine terzo settore, si usa quello di volontariato, comprendendo con esso tutte le espressioni del terzo settore: questo tipo di confusione si riscontra più spesso in pubblici amministratori e uomini politici.
La necessità di definire con chiarezza l'identità specifica di ciascuna componente del terzo settore si rende evidente perché hanno origini e processi di evoluzione diversi, fanno riferimento a normative diverse, hanno capacità di lavoro diverse; soltanto se si chiariscono bene le specifiche identità è possibile creare sinergie.

2) Un secondo punto problematico, collegato con la chiara definizione dell'identità, è la confusione fra cooperative sociali e cooperative di lavoro sociale.
La legge 381/91, che regola le cooperative sociali, considera due tipologie di cooperative sociali: quelle che hanno come scopo la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi; quelle che hanno come scopo lo svolgimento di attività diverse, agricole, industriali, commerciali o di servizi, finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Le une e le altre hanno lo scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini: per questo si chiamano cooperative sociali, e non soltanto cooperative di lavoro sociale.
Ma, per capire completamente questa realtà sociale, è utile risalire alla sua storia. Fino a 20 anni fa esistevano soltanto le cooperative di lavoro, regolate dalla normativa generale della cooperazione, come quelle che costruiscono strade, ponti ecc. Alcune cominciarono a lavorare nel sociale. Lo scopo sociale era il lavoro dei soci. Di solito facevano capo alla lega delle cooperative.
Nel 1980 la Fondazione Zancan tenne a Molosco (Trento) un seminario internazionale (Francia, Germania, Italia) sul tema "Inserimento lavorativo e sociale dei giovani handicappati: ruolo della cooperazione e del volontariato": fu il battesimo delle cooperative di solidarietà sociale. Lo scopo sociale era appunto il reinserimento di persone svantaggiate.
Le prime erano imprese autogestite che davano lavoro ai soci e vivevano del loro lavoro. Le seconde davano lavoro a persone che per definizione rendevano poco (handicappati, tossicodipendenti, ex carcerati ecc.) e il lavoro era soltanto un mezzo, perché il fine era il reinserimento lavorativo e sociale; si basavano sul lavoro di pochi soci lavoratori pagati e di molti soci volontari e facevano capo alla Confcooperative. Per continuare avevano evidentemente bisogno di particolare sostegno dagli enti pubblici e perciò di una legge. Ma la legge non veniva: l'ostacolo forse principale proveniva dal rapporto dialettico e talvolta conflittuale fra le due tipologie di cooperative.
La legge 381/del 1991 "Disciplina delle cooperative sociali" nasce da un compromesso: riconosce alle cooperative di solidarietà sociale particolari facilitazioni; riconosce eguali facilitazioni alle cooperative di lavoro sociale - gestione di servizi socio-sanitari ed educativi - purché ambedue assumano la medesima finalità: "perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini". Cioè occorre che le cooperative non siano soltanto di lavoro sociale, ma siano esse stesse sociali. E' una espressione molto vaga, che è facilmente verificabile nel secondo tipo di cooperative, quelle "finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate", ma molto più difficilmente verificabile nelle cooperative di primo tipo, quelle che hanno come scopo "la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi".
La conseguenza è che molte cooperative che si definiscono sociali non sono cooperative sociali, secondo la legge 381, ma soltanto cooperative di lavoro sociale, perché non hanno come scopo la promozione umana e l'integrazione sociale dei cittadini, ma soltanto lo scopo, pur valido e socialmente significativo, di dare lavoro ai soci. Perciò usufruiscono impropriamente dei benefici della legge 381; essendo spesso di grandi dimensioni, fanno concorrenza alle cooperative sociali autentiche, vincendo gli appalti al costo più basso. Per definirsi legittimamente cooperative sociali dovrebbero impartire ai soci una specifica formazione sociale, essere inserite continuativamente sul territorio in cui operano e perciò essere di limitate dimensioni. Questo problema può avere un'influenza negativa molto grave sullo sviluppo delle autentiche cooperative sociali.

3) Un terzo problema è il pericolo di sovrastimare il terzo settore e le sue varie espressioni con un non ragionevole deprezzamento della funzione delle pubbliche istituzioni. Il problema è di individuare, riconoscere ed esercitare con chiarezza i propri ruoli.
Il terzo settore nelle sue varie espressioni non ha né la possibilità né la funzione di garantire i diritti fondamentali dei cittadini; mentre l'istituzione pubblica, cioè la società organizzata nelle sue istituzioni, ha questa funzione, ne ha le risorse e la responsabilità. Certo in una società democratica e partecipata le istituzioni pubbliche hanno il dovere e l'utilità di coinvolgere il terzo settore in tutte le fasi dell'esercizio della funzione, cioè nella programmazione, nel coordinamento delle risorse, nel controllo, nella verifica e nella valutazione. Ma la funzione non è delegabile. Nel clima di esaltazione di una cultura neo-liberalista questo è un punto delicato da tenere sotto controllo con giusto equilibrio, ma anche con chiarezza perché possono essere compromessi i diritti dei cittadini più deboli sotto la parvenza di una diffusa solidarietà.

4) La rivista "Lo straniero" ha pubblicato un articolo dal titolo: Il profit del non profit.
Anche questo sarebbe un punto da chiarire bene. Se c'è chiarezza e trasparenza non ci dovrebbero essere problemi. Ci sono invece se si volesse far passare l'impresa sociale sotto l'aureola della gratuità come ho sentito fare da un illustre accademico in una settimana del volontariato a Torino.
Come pure ci sono dei problemi quando sotto l'alone del volontariato si fanno passare forme di lavoro nero o di sfruttamento degli operatori. In questi anni si è inserito nel volontariato un virus che può compromettente l'identità: alcune grandi organizzazioni, che si autodefiniscono di volontariato, ma la cui identità è piuttosto dubbia, hanno introdotto la prassi del rimborso spese (previsto dalla legge 266/91) non sulla base delle spese realmente sostenute e documentate, ma a forfait per questa scorciatoia possono entrare anche compensi che in italiano si chiamano lavoro nero, compromettendo ancora una volta l'elemento fondamentale del volontariato, la gratuità.

5) Un altro nodo problematico, ben comprensibile in questa fase di assestamento, è la fragilità gestionale, soprattutto quando si caricano servizi molto impegnativi sulle spalle di organizzazioni molto deboli, senza garantire la professionalità necessaria e un equo trattamento economico. La conseguenza è il decadimento della qualità dei servizi e lo sfruttamento degli operatori.

6) Ancora una volta il nodo problematico più cruciale è la formazione a tutti i livelli: ciò in concreto richiede che quando vengono commissionati i servizi al terzo settore vengano richieste precise garanzie di professionalità e riconosciute risorse adeguate vincolate alla formazione.

7) Pongo in forma di quesito un ultimo problema. Il terzo settore sarà costretto ad operare sempre con risorse dell'ente pubblico? Non c'è il pericolo che diventi un gestore privato di denaro pubblico e in definitiva un parassita dello Stato?
Non c'è possibilità che il terzo settore attinga risorse direttamente dalla società civile, sensibilizzandola ai problemi che affronta e rendendo conto con trasparenza del suo operato?
Quanti sono i minori in istituto?
Stefano Ricci - Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, Firenze
La diffusa consapevolezza degli effetti negativi sullo sviluppo della personalità dei minori delle lunghe permanenze nelle istituzioni assistenziali impone un comune impegno al sostegno del processo di deistituzionalizzazione.
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È ormai diffusa e condivisa la consapevolezza, sul piano scientifico ma anche nell'esperienza comune, dei vistosi effetti negativi sullo sviluppo della personalità dei minori delle lunghe permanenze nelle istituzioni assistenziali, con il consistente pericolo dello sviluppo di rilevante aggressività o di assoluta passività e dipendenza.
Da ciò deriva la necessità di continuare a mantenere tra le priorità dell'impegno comune - a livello amministrativo come a livello legislativo, a livello delle istituzioni come a livello della comunità civile, a livello nazionale come a livello locale - il sostegno al processo di deistituzionalizzazione.

Minori in Istituto e Istituti per minori
C'è stata una riduzione del numero dei minori ricoverati in istituti assistenziali-educativi in questi ultimi decenni: i circa 200.000 minori ricoverati negli anni '70 sono divenuti i 14.945 della rilevazione al 30 giugno 1998, realizzata dal Centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza di Firenze. Questa tendenza conforta ma non può tranquillizzare; si pone con sempre più urgenza la questione della qualità dell'accoglienza nel difficile e complesso periodo della costruzione dell'identità mantenendo un adeguato clima familiare e contraendo il più possibile i tempi di permanenza.
Ma per sviluppare questa azione, ed identificare adeguate strategie di intervento, è indispensabile sapere non solo quanti ma anche chi sono i bambini ricoverati, quali i tempi di ricovero, quante le possibilità di rientro in famiglia, quali le motivazioni che hanno portato al ricovero.
L'indagine del Centro nazionale, promossa dal Dipartimento Affari Sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, non campionaria ma censuaria, è stata centrata sui minori affidati a strutture di accoglienza residenziali a carattere assistenziale - educativo e sulle caratteristiche di queste strutture e fa riferimento al periodo 1 gennaio - 30 giugno 1998.
La percentuale di istituzionalizzazione nel nostro paese non raggiunge l'1,5 per mille; il 36,7% di questa percentuale si riferisce a bambini tra lo 0 e i 10 anni e che la stragrande maggioranza di accolti è preadolescente o adolescente ed il ricovero è spesso dovuto a decisioni del Tribunale per Minorenni. Rilevante è anche il dato delle dimissioni di minori verificatesi nei sei mesi (ben 4.308), un segnale sì dell' 'uscita' possibile ma, forse, anche di un preoccupante turn-over.
I minori stranieri sono il 12% sul numero complessivo degli accolti: 1.800 ragazzi non italiani su circa 15.000 sono un campanello di allarme sulle capacità di reale accoglienza e integrazione degli stranieri nella nostra comunità.
Confortante è il dato della estrema limitatezza della emigrazione assistenziale da una regione a un'altra; meno confortante è invece il dato che emerge dalla ricerca secondo cui i motivi del ricovero sono costituiti in maniera prevalente da situazioni di povertà materiale, seguiti da situazioni di insufficienza relazionale familiare.
Risulta relativamente alta la frequenza dei rientri dei minori in famiglia, anche se preoccupa molto il dato secondo cui una quota tra il 25 e il 35% dei minori ha di fatto interrotto le relazioni con la propria famiglia di origine. Inquietante è il dato secondo cui più del 20% dei ricoverati vive in istituto o in comunità di accoglienza da almeno tre anni (e di questi poco meno della metà ci vivono da più di cinque anni).
Anche dall'analisi delle strutture di accoglienza emergono alcuni dati significativi.
La contrazione dei minori ricoverati trova solo una parziale correlazione nella riduzione delle strutture di accoglienza (dalle più di tremila strutture del 1958 si è scesi alle 1.802 unità censite): in realtà la sostanziale differenza tra la situazione di allora e quella di oggi è che mentre nel 1958 solo la metà delle strutture educative assistenziali aveva meno di 50 posti letto, oggi il 96% delle strutture ha questa dimensione (e nel 1958 ben 607 istituti avevano oltre 100 ospiti e 33 istituti oltre 300 bambini e adolescenti). Altri elementi: la maggioranza delle strutture ha non più di 10 letti (e ben il 15% del totale non più di 5 posti); in larga maggioranza le strutture sono state create solo dopo il 1980 (59,9%) e che solo il 15% circa è antecedente al 1950.
Qualche perplessità deriva: dal dato che il 30% delle strutture accoglie bambini e bambine senza alcuna distinzione di età; dal dato che quasi il 20% delle strutture hanno la scuola interna; dal dato che ben 108 strutture (pari al 6% dell'insieme) ha solo camere con 5 o più letti; dal dato che il rapporto tra operatori e minori è, specie nelle strutture più grandi, al di sotto dell'indice uno (solo nelle strutture che raccolgono fino a tre minori il rapporto è di 2,4).
Sul 'piano dei risultati' l'indagine ha permesso di ottenere:
- dati reali e attendibili, che vanno si aggiornati e approfonditi a livello regionale, ma che rappresentano un 'punto di partenza' certo;
- il chiarimento di equivoci e lo smascheramento di alibi rispetto al processo di deistituzionalizzazione in atto nel nostro paese; una presenza media di circa 15.000 minori nelle strutture residenziali educativo-assistenziali segnala certamente un dato ancora preoccupante ma indica chiaramente che una riduzione dei ricoveri c'è stata ed è possibile migliorare ancora la situazione;
- una maggiore definizione delle 'luci' e delle 'ombre' presenti nel variegato mondo dell'accoglienza residenziale dei minori; indicazioni positive provengono da molte realtà di accoglienza residenziale ma permangono 'esperienze limite' e si sono evidenziate criticità pericolose.

Tre impegni
Le risultanze più chiare ed univoche del lavoro di indagine individuano almeno tre direttrici di impegno per limitare l'allontanamento del minore dalla famiglia di origine alle situazioni in cui è veramente necessario e per qualificare sempre più l'accoglienza residenziale dei minori.
La priorità è, ancora e sempre, l'intervento sulla famiglia d'origine, per tutelare il diritto del minore ad essere educato al suo interno. Vanno impegnati i Servizi competenti ad utilizzare le risorse affinché siano mantenute le condizioni educative minime necessarie e affinché, queste condizioni, possano essere ripristinate, nel caso di allontanamento del minore, entro un tempo definito; in questa prospettiva vanno attuati il riconoscimento, la promozione e il sostegno di organici progetti di recupero e servizi specifici.
La seconda direttrice da sviluppare è l'effettivo e diffuso sviluppo dell'affidamento familiare, come strumento di supporto al minore in difficoltà e alla sua famiglia di origine.
Per ultimo ma non ultimo è lo sforzo di adeguare sempre più le strutture residenziali educativo-assistenziali alle necessità dei minori accolti. Uno 'slogan' è l'impegno delle 'Tre T': tempo - territorio - tutela.
- il 'Tempo' dei minori è prezioso, perché è tempo di crescita e di maturazione, deve essere oggetto di attenzione specifica e riempito di stimoli efficaci e di relazioni significative; va ridotta al minimo possibile la permanenza dei minori nelle strutture residenziali con la realizzazione di progetti individuali di reinserimento familiare e sociale;
- il 'Territorio' è il luogo naturale dello sviluppo delle strutture residenziali per i minori che devono essere sempre meno 'spazio' chiuso e autoreferenziale e sempre più servizio 'tra' e 'con' i servizi del territorio per i minori;
- la 'Tutela' dei diritti dei minori, anche all'interno delle strutture residenziali, rappresenta la 'quotidianità' da raggiungere e tenere 'sotto controllo' con continuità e con impegno costanti da parte di tutti i soggetti coinvolti (strutture di accoglienza, operatori, istituzioni pubbliche, forse sociali, volontariato...).