Sito Gruppo Solidarietà

Appunti n.134
(indice Appunti)
  • Dopo la riforma. La Programmazione locale nel sistema dei servizi - Mauro Perino
  • Comunità per disabili: modelli di riferimento - Giancarlo Sanavio
  • Handicap: dalla scuola al lavoro - Luisa Violato
  • La situazione della salute mentale in Italia dalla prospettiva delle associazioni dei familiari - Ernesto Muggia
  • Quale consapevolezza etico politica per i volontari? - Augusto Cavadi



    Dopo la riforma. La Programmazione locale nel sistema dei servizi
    Mauro Perino - Direttore Consorzio Intercomunale Servizi alla Persona (CISAP), Collegno e Grugliasco (TO)

    (indice)
    Diritti, risorse e “livelli essenziali”. Il ruolo dei diversi soggetti, gli strumenti di programmazione e la “messa in rete” di interventi e servizi alla luce della legge 328/2000
    Il welfare delle persone e delle famiglie

    "Nella società di oggi, a differenza che nel passato, non si può più dividere la popolazione tra una maggioranza di persone 'normali' ed una minoranza di persone che versano in situazioni di difficoltà e che possono essere identificabili in precise categorie. Oggi la vita delle persone è meno lineare e prevedibile. Tutti i cittadini possono incontrare nel corso della vita alcune difficoltà, che possono anche ripetersi, e che richiedono assistenza, orientamento, sostegno".
    Così il Ministro per la Solidarietà sociale On.le Livia Turco sintetizza, sulla rivista "Prospettive Sociali e Sanitarie (n. 20/22, dicembre 2000), la lettura dei bisogni sociali nella società del 2000 che la legge quadro n. 328/2000 riprende integralmente dal decreto legislativo n.112/1998, con il quale vengono conferite funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali.
    Credo si possa dire tranquillamente che è proprio con l'approvazione del decreto che si è realizzata, nei fatti, gran parte della tanto attesa "riforma dell'assistenza".
    Il Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n.112, al capo III, art. 128, definisce i "servizi sociali" come il complesso delle attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia.
    I compiti di erogazione dei servizi, delle prestazioni sociali, nonché i compiti di progettazione e di realizzazione della rete dei servizi sociali, sono attribuiti, nell'ambito delle funzioni conferite, ai comuni ai sensi dell'art.131, comma 2, del citato decreto legislativo.
    E' evidente la portata del cambiamento che viene a delinearsi a livello della normativa generale:
    - Ai "servizi sociali" - individuati come "sotto insieme" dei "servizi alla persona e alla comunità" - viene affidata una diversa missione. Devono operare per rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà della persona umana in generale;
    - Coerentemente con quanto affermato nel punto precedente si chiede ai "servizi sociali" di predisporre ed erogare servizi, gratuiti ed a pagamento, e prestazioni economiche attraverso servizi di rete progettati e realizzati dai comuni.
    - Ai comuni e agli altri enti locali - non più individuati come gestori esclusivi - vengono attribuite le funzioni ed i compiti amministrativi concernenti i servizi sociali relativi ai minori (inclusi quelli a rischio di attività criminose); ai giovani (tutti); agli anziani (tutti); alla famiglia (in generale); ai portatori di handicap, ai non vedenti e gli audiolesi; ai tossicodipendenti e alcooldipendenti; agli invalidi civili. Sono inoltre trasferite alle regioni, che provvedono al successivo conferimento agli enti locali, le funzioni ed i compiti relativi alla promozione ed al coordinamento operativo dei soggetti e delle strutture che agiscono nell'ambito dei servizi sociali con particolare riguardo a cooperazione sociale, IPAB, volontariato.
    La legge n.328/2000 di riforma dell'assistenza sociale: "Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali" non poteva che collocarsi organicamente nel disegno tracciato, due anni prima, dal D.Lgs. 112/98 .
    L'articolo 1, primo comma, della legge afferma che "La Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali (così come definiti dal D. Lgs.112/98); promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2,3 e 38 della Costituzione".
    Al terzo comma dell'articolo si afferma che la programmazione e l'organizzazione del sistema compete agli enti locali, alle regioni ed allo Stato secondo principi di sussidiarietà, cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità, copertura finanziaria e patrimoniale, responsabilità ed unicità dell'amministrazione, autonomia organizzativa e regolamentare degli enti locali.
    Al quarto comma si prevede che gli enti locali riconoscano ed agevolino il ruolo del "terzo settore" nella programmazione, nella organizzazione e nella gestione del sistema integrato. Il concetto viene ulteriormente rafforzato nel comma successivo ove si afferma che tali soggetti provvedono alla gestione ed all'offerta dei servizi unitamente ai soggetti pubblici e si precisa che il sistema integrato ha, tra gli scopi, anche la promozione della solidarietà sociale, con la valorizzazione delle iniziative delle persone, dei nuclei familiari, delle forme di auto-aiuto e di reciprocità della solidarietà organizzata.
    Infine il tema dei diritti sul quale - dopo l'approvazione del decreto legislativo n.112/1998 - si era focalizzata l'attenzione di chi auspicava che la legge di riforma definisse in modo puntuale il rapporto tra diritti esigibili dai più deboli ed opportuntà offerte alla cittadinanza in generale.

    Diritti proclamati e diritti esigibili
    Secondo l'articolo 2, primo comma, della legge quadro hanno diritto di usufruire delle prestazioni e dei servizi del sistema integrato i cittadini italiani e, nel rispetto degli accordi internazionali e delle leggi regionali, i cittadini dell'Unione europea e loro familiari nonché gli stranieri individuati ai sensi della legge 286/98. Ai profughi, agli stranieri ed agli apolidi sono garantite le misure di prima assistenza.
    Il secondo comma dell'articolo rimarca il carattere di universalità del sistema integrato che gli enti locali, le regioni e lo Stato sono tenuti a realizzare garantendo i livelli essenziali di prestazioni e consentendo l'esercizio del diritto soggettivo a beneficiare delle prestazioni economiche di cui all'articolo 24 della legge; delle pensioni sociali di cui all'articolo 26 della legge 153/69; degli assegni erogati ai sensi dell'articolo 3, comma 6, della legge 335/95.
    Appare evidente il superamento di ogni "categoria di aventi diritto" ove si afferma (al comma 3) che "I soggetti in condizioni di povertà o con limitato reddito o con incapacità totale o parziale di provvedere alle proprie esigenze per inabilità di ordine fisico e psichico, con difficoltà di inserimento nella vita sociale attiva e nel mercato del lavoro, nonché i soggetti sottoposti a provvedimenti dell'autorità giudiziaria che rendono necessari interventi assistenziali, accedono prioritariamente ai servizi e alle prestazioni erogati dal sistema integrato di interventi e servizi sociali".
    "Insomma
    ,- ci dice il Ministro della Solidarietà sociale - tutti i cittadini possono aver bisogno di aiuto in certi momenti della vita. E quindi se l'obiettivo è la promozione del benessere e della coesione sociale, le politiche sociali devono essere politiche di aiuto alla normalità della vita delle persone e non solo politiche che aiutano le situazioni di crisi e di disagio" (L. Turco, Prospettive Sociali e Sanitarie, n.20/22, dicembre 2000).
    L'accesso al sistema è dunque assicurato a tutti con priorità "per i soggetti tutelati dall'art. 38 della Costituzione" (L.Turco, Prospettive Sociali e Sanitarie, n.20/22, dicembre 2000).
    L'avvocato Franco Dalla Mura ha affermato - in occasione di un seminario sulla nuova legge che si è svolto presso la "Bottega del possibile" a Torre Pellice (To) - che la riforma introduce il diritto soggettivo al "sistema integrato di interventi e servizi sociali". Ha poi aggiunto, se non ricordo male, che chi nega questa importante novità si limita a far filosofia.
    Avendo malauguratamente conseguito, a suo tempo, una laurea in filosofia faccio prudentemente mio il principio di quel filosofo che affermava che "saggio è colui che sa di non sapere". Mi limito pertanto a riportare una osservazione sul tema in oggetto di Emanuele Ranci Ortigosa (Prospettive Sociali e sanitarie n. 20/22, dicembre 2000) che afferma: "La dizione 'diritto soggettivo' compare solo con riferimento a prestazioni economiche, per di più già previste da leggi specifiche. Il diritto a beneficiare del sistema integrato di interventi e servizi sociali quale definito nei livelli essenziali delle prestazioni (art. 22, comma 2) è affermato in modo meno stringente e soprattutto è esplicitamente subordinato alle risorse disponibili. Tale legame fra livelli essenziali e risorse disponibili è riaffermato anche nell'art.18, c.3, lettere a) e n), che disciplina il piano sociale".
    Comunque la si pensi, appare evidente che il nodo critico rappresentato dalla difficoltà a coniugare i diritti esigibili con le risorse disponibili non viene sciolto in maniera definitiva dalla legge di riforma dell'assistenza. Dire che tutti hanno diritto alle prestazioni - prioritariamente fornite ai più deboli - sino al limite rappresentato dalle risorse finanziarie e patrimoniali disponibili significa "mettere in conto" che con il ridursi delle risorse si riduce, di fatto, l'esigibilità dei diritti proclamati.

    Le risorse economiche ed il sistema dei finanziamenti
    Ma vediamo come la riforma affronta il problema annoso delle risorse. Nella legge finanziaria per l'anno 1998 (L. 449/97 art. 59) viene introdotto il "Fondo nazionale per le politiche sociali". Nel fondo confluiscono, a decorrere dal 1998, gli stanziamenti previsti per le leggi di settore (476/87; 216/91; 266/91; 104/92; 284/97; 285/97) e dal D.P.R 309/90. Il fondo si caratterizza dunque, in origine, come sommatoria di finanziamenti già previsti. Le risorse per tali interventi di settore ammontano nel 2000 a circa 1.700 miliardi. Le risorse previste in aggiunta sono puttosto ridotte (28 miliardi per il 1998, 115 miliardi per il 1999; 143 miliardi per il 2000).
    Con l'attuazione della legge quadro il "Fondo nazionale per le politiche sociali" assume maggiore rilievo: ad alimentarlo per il triennio 2001-2003 contribuiscono, oltre ai finanziamenti derivanti dalle leggi di settore, anche stanziamenti aggiuntivi disposti dalla legge 388/2000 (finanziaria) e dalla stessa legge quadro. Complessivamente le risorse ammontano a circa 8.700 miliardi nel triennio (2.963 miliardi per il 2001; 3.084 miliardi per il 2002; 2.634 miliardi per il 2003). Negli anni successivi sarà la legge finanziaria a stabilire annualmente lo stanziamento per il fondo sulla base di criteri da definire con un regolamento del governo (previsto dalla legge quadro).
    La legge prevede di finanziare, attraverso il fondo, anche interventi specifici. In particolare al "sostegno domiciliare per le persone anziane non autosufficienti" viene annualmente riservata una quota di risorse vincolata (art.15). Inoltre la legge prevede, all'art. 24, una delega al governo per il riordino - entro 180 giorni dall'entrata in vigore, - delle prestazioni monetarie erogate in caso di invalidità civile, cecità e sordomutismo. Con il riordino anche le risorse previste per tali prestazioni confluiranno nel fondo con specifica finalizzazione. La legge di riforma prevede infine (art. 26) la possibilità di ricorrere a fondi integrativi per le prestazioni sociali che soggetti pubblici e privati possono istituire ed utilizzare per coprire i costi di prestazioni aggiuntive rispetto ai livelli essenziali o quelli derivanti dalla richiesta di contribuzione economica a carico degli utenti.
    In ogni caso la ripartizione degli stanziamenti tra i vari settori va considerata, almeno in fase di prima applicazione, come indicativa: le regioni sono di fatto liberate da vincoli di destinazione fatto salvo l'impegno di prevedere programmi in ogni area e di garantire che le risorse ripartite non si sovrappongano a quelle già destinate dai singoli enti territoriali ("Sole 24 ore", 26.02.2001 n. 56).
    Quello delle risorse è uno degli aspetti più dibattuti della legge. I fautori della legge affermano che gli stanziamenti aggiuntivi rappresentano un incremento tale da rendere possibile, congiuntamente allo sforzo di regioni ed enti locali, l'introduzione di livelli essenziali di prestazioni sociali da garantire nell'intero territorio nazionale.
    I critici (vedi la rivista "Prospettive Assistenziali") giudicano le risorse economiche destinate ai servizi sociali insufficienti a sostenere l'approccio universalista della legge - in base al quale i servizi sociali sono rivolti all'intera popolazione - paventando il rischio che si finisca per destinare le risorse all'assistenza dei benestanti (che hanno più forza contrattuale) a scapito della fascia più debole dei citadini. Infine si fa osservare la mancanza di meccanismi e sanzioni per rendere i livelli essenziali dei diritti effettivamente esigibili.
    Personalmente ritengo condivisibile l'opinione, espressa da C. Gori e B. Da Roit (Prospettive Sociali e sanitarie n. 20/22, dicembre 2000), secondo i quali: "Nel complesso, sembra potersi affermare che le diverse leggi settoriali degli ultimi anni e la recente riforma hanno determinato un notevole incremento delle risorse destinate ai servizi sociali, da giudicare positivamente." Con riferimento agli obiettivi che si intendono raggiungere con tali risorse si rilevano però alcune aree di criticità a partire dall'approccio universalistico dell'art. 2 della legge: "La sua traduzione operativa non è, infatti, specificata con chiarezza e l'ammontare di risorse attualmente destinate ai servizi sociali rende irrealistico il perseguimento di tale obiettivo. Similmente, la legge non prevede gli strumenti per garantire effettivamente l'erogazione dei livelli essenziali di prestazioni sul territorio nazionale. Non esistono, infatti, meccanismi e sanzioni che rendano tali prestazioni effettivamente esigibili da parte dei cittadini."
    In ogni caso è opportuno rimarcare un aspetto - decisamente politico - della questione: gli stanziamenti da parte del governo centrale potranno cambiare a partire dal 2002 con la legge finanziaria. Spetta dunque in primo luogo ai comuni titolari dei servizi sociali "mobilitarsi" per far sì che il settore delle politiche socio-assistenziali esca effettivamente dal ruolo marginale sin qui occupato nel welfare italiano.

    I livelli essenziali ed uniformi
    La legge indica, all'art. 22, comma 2, gli interventi che costituiscono il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili secondo le caratteristiche ed i requisiti fissati dalla pianificazione nazionale, regionale e zonale, nei limiti delle risorse del fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse già destinate dagli enti locali alla spesa sociale.
    I livelli essenziali sono sicuramente il contenuto più delicato della legge e lo saranno ancor di più per il piano che dovrà indicare "caratteristiche e requisiti delle prestazioni sociali" in essi comprese. A tale proposito bisogna notare come la legge affermi che la definizione dei livelli essenziali di cui all'art. 22 è effettuata contestualmente a quella delle risorse da assegnare al Fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle risorse ordinarie destinate alla spesa sociale dalle regioni e dagli enti locali, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite per l'intero sistema di finanza pubblica dal Documento di programmazione economico finanziaria (art. 20, comma 4).
    La ricaduta sulla vita quotidiana del concetto di "livelli essenziali " (connesso alle risorse messe in campo da diversi soggetti istituzionali) non è di poco conto, infatti: "se i principi fissati dallo Stato non sono forti e ben delineati - spiega il costituzionalista Claudio De Fiores - si rischia una disparità di trattamento tra i cittadini, soprattutto nelle politiche sociali".
    Da questo punto di vista è preoccupante che la recente legge sul federalismo modifichi l'articolo 117 della Costituzione stabilendo che, allo Stato, compete la "determinazione dei livelli essenziali concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale".
    La riforma federalista si innesta infatti in una fase di oggettiva debolezza della capacità di indirizzo del parlamento rispetto al potere acquisito dalle regioni (elezione popolare del "governatore" sempre più interlocutore diretto con il governo nazionale; statuti regionali sottoposti al vaglio del solo esecutivo, in cui si è fortemente favorita l'autonomia finanziaria).
    Può dunque accadere - come osserva Cosimo Rossi ("Federalismo senza parlamento", "Il manifesto" 8.03.2001) - che il parlamento venga a trovarsi "in una condizione di assoluta debolezza nella determinazione dei principi e dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. A maggior ragione dal momento in cui viene costituzionalizzata l'idea di una prestazione sociale 'minima' - per quanto questa formula, contenuta in una prima versione della riforma, sia stata modificata - quando invece… anche la costituzione federalista della Germania 'impone l'eguale trattamento dei cittadini, anche sotto il profilo delle prestazioni sociali, in ogni parte del territorio della Repubblica'".
    Per tornare al tema, la legge di riforma ci fornisce, per ora, un elenco di interventi rinviando al piano ed al regolamento del governo per la ripartizione delle risorse finanziarie nel fondo l'effettiva definizione dei livelli essenziali. Alle regioni viene però richiesto di prevedere comunque, con proprie leggi, l'erogazione delle seguenti prestazioni:

    o servizio sociale professionale e segretariato sociale per informazione e consulenza al singolo e ai nuclei familiari;
    o servizio di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e familiari;
    o assistenza domiciliare,
    o strutture residenziali e semi residenziali per soggetti con fragilità sociali
    o centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario.

    Credo si possa convenire con E. Ranci Ortigosa (Prospettive Sociali e sanitarie n.20/22, dicembre 2000) che si deve sostanzialmente puntare, nel medio e lungo periodo, "… sull'effetto traente, politico e sociale, che la definizione di livelli essenziali, con contenuti realistici ma via via più esigenti e qualificati, può esercitare sui diversi attori, offrendo anche riferimenti concreti al confronto politico e all'azione sociale, sia rivendicativa che di advocacy".
    Proprio con riferimento al richiamo ai "contenuti realistici dei livelli essenziali" ed alla necessità di offrire "riferimenti concreti al confronto politico" credo sia opportuno, in questa prima fase di applicazione della legge di riforma, che le regioni e gli enti titolari delle funzioni assumano la "tutela del diritto all'assistenza sociale" quale obiettivo politicamente prioritario (ed irrinunciabile) del sistema locale dei servizi sociali affermando, in tal modo, la centralità dei soggetti più deboli.
    La legge di riforma dell'assistenza e dei servizi sociali prevede, come si è visto, che i "i soggetti tutelati dall'art. 38 della Costituzione" accedano prioritariamente "ai servizi e alle prestazioni erogate dal sistema integrato di interventi e servizi sociali".
    Un primo punto fermo va dunque posto con l'individuazione del target di situazioni alle quali va assicurato l'accesso prioritario al complesso di interventi indicati dall'art. 22 della legge n. 328/2000.

    Al fine di evitare divaricazioni tra diritti proclamati e diritti effettivamente esigibili è dunque necessario procedere - da subito - alla puntuale definizione delle condizioni di difficoltà che richiedono interventi assistenziali garantiti e livelli di servizi atti a tutelare efficacemente le posizioni soggettive ed a rendere esigibili i diritti soggettivi riconosciuti. Tali condizioni possono venir individuate, a mio parere, come segue:
    - I minori in tutto o in parte privi delle indispensabili cure familiari, siano essi nati nel o fuori del matrimonio;
    - I disabili intellettivi totalmente o gravemente privi di autonomia e senza alcun valido sostegno familiare;
    - I soggetti colpiti da altri handicap, anche plurimi, che necessitano di aiuti specifici per poter acquistare la massima autonomia possibile nel rispetto del diritto all'autodeterminazione;
    - Gli anziani che non sono in grado di provvedere alle proprie esigenze di vita;
    - Le gestanti e madri in grave difficoltà personale alle quali va altresì fornita la necessaria consulenza psico sociale per il loro reinserimento e per il responsabile riconoscimento o non riconoscimento dei loro nati;
    - Le persone che vogliono uscire dalla schiavitù della prostituzione;
    - I soggetti senza fissa dimora;
    - Gli altri individui che necessitano di prestazioni specifiche se si vuole evitare la loro emarginazione.

    Le persone rientranti nelle sopra elencate condizioni devono poter accedere prioritariamente ai servizi ed alle prestazioni di cui all'art. 22 della L. 328/2000 e ad esse devono essere assicurate, in ogni caso, le prestazioni di servizio sociale professionale e segretariato sociale; di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza, l'assistenza domiciliare; l'accesso alle strutture residenziali e semi residenziali ed ai centri di accoglienza residenziali o diurni.
    Con riferimento al rapporto tra reale esigibilità - delle prestazioni e dei servizi offerti dal sistema integrato - e risorse è infine indispensabile che si provveda - in sede di programmazione regionale e locale - alla puntuale definizione delle risorse finanziarie, umane e patrimoniali specificamente destinate ai servizi da fornire alle persone che, per condizione di difficoltà, rientrano nell'area dell'"accesso prioritario".

    Il ruolo dei soggetti
    E' da tempo evidente - proprio con riferimento alle situazioni di difficoltà evidenziate - che i servizi socio assistenziali (oggi "sociali") hanno pochissimi strumenti per svolgere azioni dirette ad eliminare le cause che provocano le richieste di intervento. Ne consegue che la prevenzione del bisogno non può, con riferimento a tali situazioni, essere una funzione primaria del settore dei servizi di assistenza sociale, ma che su di esse possono molto più efficacemente intervenire i settori del lavoro, della formazione professionale, delle pensioni, della sanità, dei trasporti ecc.
    I servizi sociali svolgono, tuttavia, l'importantissimo compito di individuare non solo gli effetti dell'esclusione ma anche le cause e possono, conseguentemente, operare in senso promozionale nei confronti degli altri settori coinvolti nelle politiche sociali (specie locali) al fine di introdurre i cambiamenti occorrenti per la riduzione o l'eliminazione dei fattori che generano difficoltà e disagio sociale.
    Per "rimuovere e superare le condizioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita" è assolutamente necessario che le prestazioni assistenziali (o, più modernamente, di servizio sociale) siano fornite in modo da assicurare la massima autonomia dei soggetti e, nello stesso tempo, da promuovere il corretto utilizzo delle risorse rese disponibili dal sistema delle politiche sociali nel suo complesso (casa, scuola, sanità, previdenza ecc.).
    I servizi sociali di cui alla legge 328/2000 si configurano dunque, a mio parere, come uno dei molteplici "servizi alla persona e alla comunità" - indicati al Titolo IV del decreto legislativo 112/1998 - chiamati ad espletare le funzioni che principalmente caratterizzano le politiche sociali attuate a livello locale ("tutela della salute", "istruzione scolastica", "formazione professionale", "beni ed attività culturali, "spettacolo" e "sport").
    In merito ai "servizi alla persona e alle famiglie" la legge quadro 328/2000 mentre all'articolo 3, comma 2, afferma il carattere universalistico del sistema, all'articolo 22, comma 1, precisa che lo stesso "si realizza mediante politiche e prestazioni coordinate nei diversi settori della vita sociale, integrando i servizi alla persona e al nucleo familiare con eventuali misure economiche, e la definizione di percorsi attivi volti ad ottimizzare l'efficacia delle risorse, impedire sovrapposizioni di competenze e settorializzazione delle risposte".
    Il contesto operativo nel quale si situano i servizi sociali è dunque quello definito dalle "politiche e prestazioni coordinate nei diversi settori della vita sociale" che solo i comuni possono promuovere e sviluppare appieno nella comunità locale (che istituzionalmente rappresentano), evitando "sovrapposizioni di competenze" e "settorializzazione delle risposte" grazie ad una corretta pratica della "strategia delle connessioni".
    Nella definizione dell'ambito d'azione degli "Enti gestori delle funzioni socio-assistenziali" (oggi di servizio sociale) è dunque opportuno tener conto delle considerazioni sin qui formulate e, conseguentemente, ritengo che gli assi principali di intervento dei servizi sociali possano essere - alla luce dell'art. 1, comma 1, della legge di riforma - , nell'ordine, così individuati:
    1) Assicurare "alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali" nel rispetto dell'obbligo di consentire l'accesso prioritario ai soggetti rientranti nelle condizioni previste dall'art.2, c.3, della legge quadro.
    2) L'esercizio di tale funzione di tutela del diritto all'assistenza, sancito dall'art. 38 della Costituzione, comporta, in primo luogo, l'assunzione di compiti di promozione degli interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza nell'ambito della comunità locale. E' dunque necessario che si operi per la realizzazione di programmi intersettoriali ed integrati finalizzati a far sì che i servizi fondamentali della sanità, dell'istruzione, dei trasporti, della casa ecc., rivolti all'insieme della cittadinanza, siano organizzati in modo da rispondere al meglio anche alle esigenze delle fasce più deboli della popolazione (spesso escluse dai contesti di normalità e verso i quali vanno accompagnate).
    3) L'attività di promozione ("tecnica" da parte dei servizi e "politica" da parte della amministrazioni locali) - che con la nuova legge assume una dimensione strategica anche a causa della controversa questione dell'effettivo grado di esigibilità di livelli adeguati di prestazioni e servizi - è connessa allo sviluppo della concertazione, in ambito locale, per favorire il riordino ed il potenziamento del sistema integrato di interventi e servizi sociali. La legge di riforma individua infatti nel "Piano di zona" - di norma adottato attraverso accordo di programma tra i comuni, le ASL, le ONLUS, gli organismi locali della cooperazione, delle associazioni, degli enti di promozione sociale ecc. - lo strumento per la realizzazione di programmi cordinati e per la gestione integrata degli interventi sociali e sanitari anche con il concorso delle risorse locali di solidarietà e di auto aiuto.
    4) L'attività di concertazione in sede di programmazione - da sviluppare a livello orizzontale, nell'ambito della comunità locale, ma anche "verticale" nei confronti di provincia e regione - comporta l'adozione di una strategia di connessione, degli interventi realizzati dai soggetti che operano nel sistema delle politiche sociali, per favorire il continuum agio/disagio, combinando la logica di protezione con quella di promozione, ricercando un corretto equilibrio tra interventi di sostegno alle situazioni di disagio ed interventi, più complessivi, di promozione del benessere.
    5) Infine la gestione (diretta o indiretta nelle forme previste dalla normativa) di quel complesso di attività che sino alla approvazione della legge 328/2000 definivamo (senza troppi complessi di inferiorità) socio-assistenziali. A fronte di una legge che si pone l'obiettivo generale di promuovere politiche di aiuto alla normalità della vita delle persone va infatti ribadita - senza temere ingiuste accuse di "conservatorismo compassionevole" o di promuovere "sussidiarietà residuale" - la specificità dei servizi di assistenza sociale che occupano un ben definito campo d'azione nell'ambito del sistema locale dei "servizi alla persona e alla comunità" chiamati ad operare per "rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita".

    Risulta chiaro, dall'impostazione complessiva della legge n. 328/2000, che il concetto di difficoltà assume una valenza più vasta rispetto ai concetti di disagio ed emarginazione normalmente utilizzati per definire lo specifico dell'attività assistenziale. Del resto è ampiamente condivisibile la considerazione che la nostra vita quotidiana è caratterizzata dal fatto che "le emergenze, intese come cambiamenti nel ciclo della vita delle persone, non sono affatto eccezionali, le situazioni a rischio sono diffuse su tutti i cittadini" e che "le crisi vengono superate con una fatica sopportabile quando il soggetto possiede alcuni salvavita: reti familiari in grado di fornire affetto e autostima, una riserva di denaro o persone a cui chiedere un prestito amicale, la casa in proprietà o una persona disposta a dare alloggio temporaneo. Chi può accedere a tutti questi dispositivi difficilmente cade in povertà e spesso basta un solo dispositivo per risalire la china. Le reti familiari sono la riserva di aiuto determinante." (Paola Toniolo Piva, Animazione Sociale, n.12/2000).
    Occorre dunque attivare e potenziare specifici e sistematici interventi di servizio sociale finalizzati a promuovere politiche di ampio spettro (mirate al sostegno delle reti primarie) rivolte a tutti i cittadini, continuando, nel contempo, a concentrare particolare attenzione sulle situazioni più esposte (solitamente non in grado di auto promuoversi) alle quali vanno assicurati i servizi assistenziali necessari.
    Fra gli interventi di sostegno hanno particolare importanza quelli volti ad alleviare il lavoro di cura svolto in modo gratuito da familiari, vicini, volontari. Il sistema famiglia si provvede infatti degli aiuti necessari sia dall'economia informale che dall'economia di mercato. La scelta (sempre più spesso indotta dai sistemi di vita attuali) di sostituire in misura maggiore o minore i servizi autoprodotti con servizi acquistati dipende, in ogni caso, da cosa offre il territorio.
    Da questo punto di vista l'estensione delle esperienze innovative in materia di servizi alla persona secondo le direttrici indicate dalla legge di riforma, consentirebbe di affrontare, in modo più "globale", il tema del lavoro di cura come settore economico che offre reali possibilità di occupazione a condizione che l'ente locale sappia promuovere un "mercato amministrato" dei servizi, garantendo varietà di offerta, standard di qualità accettabili, prezzi amministrati ed agevolazioni a tutti i cittadini in difficoltà e prioritariamente a quelli appartenenti alle fasce socialmente deboli.
    Con riferimento a questo tema, ritengo che i Comuni - supportati dai soggetti gestori dei servizi sociali - possano svolgere un ruolo importante nel "coordinamento del segmento di servizi acquistati con denaro pubblico e del segmento di servizi acquistati direttamente dai cittadini" (Paola Toniolo Piva, Animazione Sociale, n.12/2000).

    Strumenti di programmazione e Piano di zona
    La produzione legislativa degli ultimi anni ha messo in moto una serie di importanti innovazioni: la centralità del comune e della comunità locale; il cittadino al centro del sistema dei servizi; un ruolo crescente per cooperative sociali, volontariato, ONLUS, associazioni di pubblica utilità; un nuovo ruolo per le fondazioni bancarie; l'affermarsi del principio della sussidiarietà verticale dei servizi. Più in generale sono state poste le premesse per un passaggio dal welfare state al welfare community secondo il principio della stretta correlazione tra risorse e servizi.
    Alla necessità di dare puntuale risposta a vecchi e nuovi bisogni si accompagna, infatti, la limitatezza delle risorse disponibili e la conseguente necessità di far sì che la comunità locale sia coinvolta appieno nel community care, che si attrezzi cioè a "prendersi cura" di se stessa.
    Nella fase di transizione al welfare plurale viene richiesto, a tutti i soggetti tenuti a fornire servizi alla comunità locale - e conseguentemente anche ai soggetti gestori dei servizi di assistenza sociale - di operare in coerenza con il principio della stretta correlazione tra risorse e servizi.
    Assume dunque importanza strategica la funzione di programmazione svolta a livello locale e, in particolare, l'art. 19 della nuova legge chiama in causa i comuni associati che a tutela dei diritti della popolazione, d'intesa con aziende unità sanitarie locali, provvedono, nell'ambito delle risorse disponibili, per gli interventi sociali e socio-sanitari, secondo le indicazioni del piano regionale, a definire il "piano di zona".
    Il piano - individuato come strumento strategico dei comuni associati per il governo locale dei servizi - è finalizzato a programmare la rete di interventi e servizi che devono dare risposta alle problematiche espresse dalle comunità locali. Al "piano di zona" si richiede di individuare i bisogni prioritari delle persone; le strategie di prevenzione; le risorse a disposizione; i soggetti (istituzionali e non) coinvolti; i risultati attesi; gli standard operativi e di efficacia; le responsabilità di governo e di gestione, le forme di controllo; le modalità di verifica ed i criteri di valutazione degli interventi.
    Non mi dilungo sul "piano di zona" se non per rimarcare l'elemento di novità introdotto dall'articolo 19 della legge che - modificando implicitamente l'art. 34 del D.Lgs. 267/2000: "Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali" - introduce la possibilità di stipulare "accordi di programma" con soggetti privati.
    Inoltre ritengo assolutamente condivisibile la considerazione formulata da Franco Dalla Mura (Seminario della "Bottega del possibile" su "La nuova legge 328/2000" - Torre Pellice (To) 24.03.2001) secondo il quale il testo dell'accordo sul "Piano di zona" è il documento che sancisce di fatto (ben più della "Carta dei servizi sociali" di cui all'art.13 della L.n.328/2000) il livello di esigibilità dei diritti dei cittadini agli interventi sociali e socio-sanitari erogati in ambito locale.

    Le conseguenze operative più evidenti derivanti da questa lettura dell'art. 19 della legge sono almeno due:
    1) aumenta il numero dei soggetti che hanno titolo ad intervenire al tavolo della programmazione finalizzata alla definizione della rete degli interventi sociali e socio-sanitari. L'intervento pubblico - demandato alle molteplici istituzioni che hanno competenze rispetto alle problematiche espresse a livello zonale - si intreccia infatti con l'operatività dei differenti gruppi "privati" che intervengono sui bisogni e sulla domanda sociale di una determinata comunità locale. "L'accordo di programma in questo contesto diventa il momento di sintesi giuridica delle scelte condivise e le rende operanti sul territorio" (U. De Ambrogio, M. Lo Schiavo in "Prospettive Sociali e sanitarie n.20/22 dicembre 2000);
    2) la centralità che il Piano viene ad assumere - in termini di effettiva possibilità di esercizio del diritto "alle prestazioni ed ai servizi sociali del sistema integrato" da parte dei cittadini a livello locale - costituisce una grossa sfida per le pubbliche amministrazioni chiamate a progettare con un'ottica incrementale, strategica e flessibile di fronte alla complessità. Ai comuni (ed agli enti strumentali che gestiscono le funzioni di servizio sociale) è richiesta non solo una rilevante capacità di indirizzo e di orientamento ma anche di costruzione del consenso nei confronti dei diversi attori che operano nel sistema locale.

    Mettere in rete interventi e servizi
    Come insegnano le recenti esperienze dei "Patti territoriali" per lo sviluppo economico ed occupazionale locale ed i "tavoli" per la realizzazione - mediante definizione di accordi di programma - dei piani di intervento previsti dalla legge 285/1997 non è facile costruire quello strumento fondamentale di programmazione locale che Franco Vernò chiama il "Piano regolatore dei servizi".
    Eppure - se si condivide il concetto che proprio nella comunità locale si esprimono, accanto ad una pluralità di bisogni, anche molteplici risorse umane, progettuali e finanziarie per la predisposizione delle risposte - appare necessaria la creazione di reti che favoriscano l'azione coordinata e regolata di una pluralità di attori, di sistemi in grado di far interagire le risorse locali e regionali di tipo economico, sociale e culturale con le opportunità offerte in sede nazionale ed europea.
    Fare sistema, partnership, rete negli ambiti territoriali non è però, di per sé, garanzia di sviluppo regolato e sostenibile, di coesione sociale e promozione delle opportunità. E' necessario che i comuni operino con intenzionalità politica (ed i servizi sociali con intenzionalità tecnico professionale) attraverso l'adozione di una metodologia di concertazione locale che consenta di negoziare e di attivare un sistema di regole e convenienze per tutti i soggetti in gioco, puntando alla realizzazione di ogni possibile sinergia.
    Il compito richiesto alle Amministrazioni ed ai servizi è di produrre, a livello locale, legami e relazioni che promuovano processi di identificazione e contrastino la dissoluzione delle appartenenze tradizionali. Politiche di comunità, dunque, che attraverso la partecipazione favoriscano il "sentirsi parte di un insieme", di una società civile con regole comuni, da tutti rispettate e condivise, atte a consentire una vita quotidiana più controllabile e gestibile.
    Nelle relazioni di comunità è infatti la fiducia l'elemento cardine per costruire reti di umanità che consentano il passaggio dalle solidarietà corte alle solidarietà lunghe. La fiducia è il bene relazionale che pone il sociale e le sue risposte alla portata delle persone e costituisce un orizzonte di senso per percorsi di vita significativi (Sergio Dugone, "Dallo stato assistenziale alla comunità solidale" in "Politiche sociali" n.6/99).
    Al comune in quanto governo locale spetta il compito di indicare, alla propria comunità, la missione da compiere, promuovendo azioni globali di sviluppo dell'impegno civile ed allargando a nuove forme di partecipazione i tradizionali processi di consultazione, informazione e gestione. Ciò richiede la capacità di produrre progetti di miglioramento della "qualità del vivere quotidiano" sui temi della forma della città, dell'uso del territorio; della difesa dai rischi e dal degrado; dei servizi formativi ed educativi; della sicurezza di vita in generale.
    Ai comuni è richiesto, in sintesi, di trasformare le politiche di settore in politiche di comunità ed ai soggetti gestori, in quanto strutture specializzate, di operare all'interno di tale orizzonte promuovendo e realizzando servizi sociali di comunità, community care, lavoro di rete, progetti contro il disagio e l'esclusione.
    Una operatività, quella della strutture di gestione dei servizi sociali, che deve evitare il rischio derivante dall'aziendalizzazione della risposta sociale - che pone al centro l'organizzazione e non i destinatari; che standardizza le risposte invece di personalizzarle, che fa perdere la cultura dell'accoglienza e dell'ascolto - e fondarsi su alcuni principi fondamentali:
    1) i servizi di assistenza sociale hanno al centro le persone, e fra queste in primo luogo quelle con maggiori difficoltà;
    2) la risposta ai bisogni è "personale";
    3) l'intervento sociale è rispettoso e dialogante, cerca le risorse da mobilitare e non i "mali" da curare;
    4) la funzione pubblica nei servizi alle persone in difficoltà si concretizza nella promozione, nel controllo, nella garanzia della risposta, salva ogni forma di autogestione da parte della società;
    5) il coinvolgimento della comunità locale è garanzia della non estraneità ambientale della risposta;
    6) non si possono affidare al mercato e quindi alla logica "del più forte" le categorie deboli.

    Vorrei concludere tornando al tema iniziale dei diritti. Una funzione fondamentale dello Stato sociale è di agire come regolatore nel rapporto tra diritti sociali e doveri di solidarietà (che l'art. 2 della Costituzione definisce inderogabili). Il nuovo quadro normativo fa coincidere con l'ambito regionale e con quello locale, amministrato dai comuni, un'ampia parte della politica sociale volta alla tutela di tali diritti. Lo Stato, come si è visto, riserva a sé solamente la "determinazione dei livelli essenziali concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale".
    Le leggi più recenti assumono inequivocabilmente la scelta della sussidiarietà. E' dunque il comune che viene direttamente chiamato a promuovere l'adozione, da parte delle regioni, degli "strumenti e procedure di raccordo e di concertazione, anche permanenti, per dare luogo a forme di cooperazione" previsti dall'art.8, comma 2, della legge 328/2000. Ed è sempre il comune che ha il compito di regolamentare, nell'ambito della comunità locale, il rapporto tra diritti e doveri.
    A tal fine è indispensabile che la comunità amministrata trovi una sua identità forte, sia coesa e solidale e tutti i suoi membri concorrano a produrre le risorse necessarie ad assicurare, a livello locale, la necessaria giustizia sociale.
    Lo sviluppo di un'etica della responsabilità è condizione necessaria perché i diritti siano esigibili per tutti ma ognuno fruisca di ciò che è disponibile tenendo conto dei suoi reali bisogni e delle sue personali risorse. In buona sostanza: non si inventano i bisogni né si nascondono le risorse proprie per appropriarsi di quelle pubbliche.
    La legge di riforma delinea un "Welfare di comunità" plurale, con poteri e responsabilità condivise. La comunità ha, in genere, molte risorse che non vengono raccolte e valorizzate, ma a volte addirittura avvilite da interventi che tendono ad accrescere la dipendenza dai servizi.
    Bisogna favorire la crescita della comunità locale aiutandola a riconoscere e selezionare le proprie necessità e bisogni, stimolando la partecipazione e facendo crescere le risorse locali e la "responsabilizzazione dei cittadini nella programmazione e verifica dei servizi". Bisogna rivitalizzare ed incoraggiare la responsabilità delle persone singole o aggregate affinché queste si possano esprimere autonomamente, nella convinzione che quello che accade è responsabilità di tutti.
    L'applicazione della legge di riforma richiede un sistema di governo allargato, nel quale accanto alla promozione ed alla regolazione pubblica convive la co-progettazione che coinvolge soggetti pubblici, privati e del privato sociale con un esercizio di responsabilità comuni. La qualità dei servizi alle persone e alle famiglie non può infatti compiutamente realizzarsi se non si coniugano i saperi professionali con i saperi sociali promuovendo una "cittadinanza attiva e competente".
    Ma attenzione! Il coerente perseguimento della finalità di costruire una "cittadinanza attiva e competente" comporta l'accettazione del rischio di una sfida alle regole consolidate della partecipazione locale; implica, nei fatti, l'avvio di una prassi di democrazia "diffusa", "dal basso", esercitata al di fuori dei "luoghi deputati, "diretta" si sarebbe detto una volta. Il "cittadino competente", il "cittadino attivo" - se fanno davvero il loro nuovo mestiere nell'ambito della comunità locale - possono entrare in conflitto con le amministrazioni ed i servizi locali.
    Non so dire se e quanto gli amministratori locali siano convinti e pronti ad assolvere ai compiti che il nuovo scenario impone. Da operatore posso offrire una riflessione su cosa dovrebbero fare i servizi.
    Alla fine degli anni '70 (ed ancora nei primissimi anni '80) era facile incontrare operatori sociali e sanitari che agivano ispirati dalla convinzione che, nel campo dell'assistenza e della salute, la politica (intesa come dovere di ogni cittadino ad occuparsi della cosa pubblica) e la tecnica (intesa come complesso dei saperi professionali) erano in egual modo importanti. Purtroppo però con la sola tecnica (per quanto buona) risultava impossibile risolvere per davvero i problemi, che venivano solamente controllati e contenuti.
    Di questi operatori oggi si direbbe che facevano politica. In realtà erano semplicemente convinti che l'agire per il cambiamento fosse parte integrante del proprio compito tecnico. Pensavano cioè all'utente in primo luogo come ad una persona con dei diritti (e relativi doveri) e poi come ad un soggetto portatore di bisogni, più o meno complessi, da "decodificare". Ritenevano, in buona sostanza, che non è dato operare efficacemente per impostare percorsi di uscita dalle condizioni personali di disagio ed emarginazione se non si interviene, nel contempo, in senso promozionale sul contesto di vita e di relazione al fine di rimuovere le cause dei problemi adeguando il sistema.
    Credo che, nella fase attuale, si debba opportunamente recuperare la "filosofia della prassi" di quegli anni caratterizzati (non a caso) dall'approvazione di fondamentali leggi di riforma. Non sarà sicuramente facile anche perché, a ben vedere, il contributo che "la base" dei servizi ha dato, in questi anni, alla costruzione del nuovo quadro normativo non è certo paragonabile a quello fornito dagli operatori (e dalle loro organizzazioni sindacali) negli anni precedenti ed immediatamente successivi alla approvazione del DPR 616/1977 e della L. 833/1978.
    Con linguaggio sportivo potremmo dire che si tratta di gareggiare sulle lunghe distanze, ritrovando non solo il fiato ma anche lo spirito del fondista. Oppure, parafrasando Gramsci, che nei prossimi anni dovremo opporre al "pessimismo della ragione, l'ottimismo della volontà".




    Comunità per disabili: modelli di riferimento
    Giancarlo Sanavio - Cooperativa sociale, “L’Iride”, Selvazzano, Padova
    (indice)

    Si ripercorrono alcuni momenti storici degli ultimi cinquant’anni relativi alla cultura residenziale dell’area dell’handicap per dimostrare che la carenza di dibattito ha fermato le problematiche al “Dopo di Noi” mentre i bisogni e le esigenze manifestate dai disabili e dalle loro famiglie si sono evolute e necessitano di risposte nuove e innovative.


    Dall'Istituto alla Comunità
    Il primo modello che vorrei descrivere è quello così detto della deistituzionalizzazione che ha dato avvio ad un processo di presa in carico e di sensibilizzazione dell'opinione pubblica rispetto alla non vita negli istituti dove erano (e in molti casi ancora lo sono) centinaia di persone con problematiche diverse.
    Possiamo far risalire questo periodo storico tra gli anni '70 e '90. Il modello di riferimento è quello dell'istituto che si caratterizza per:
    · l'entrata coatta, la persona non è considerata nella scelta della propria vita, altri decidono al suo posto per il suo bene;
    · la depersonalizzazione, ognuno deve adattarsi ai ritmi di vita dell'istituto, i suoi bisogni sono secondari alle regole, agli orari, alle esigenze organizzative, derivandone l'impotenza acquisita;
    · l'organizzazione dell'istituto è piramidale, la volontà è esterna al gruppo sia di operatori che di ospiti che si adeguano a regole stabilite da altri per il bene della struttura e dell'organizzazione, i giorni sono tutti uguali, non c'è futuro;
    · i costi di struttura sono alti, mentre quelli assistenziali sono bassi, i rapporti operatori utenti possono permettere la custodia, l'assistenza primaria non certo aspetti educativi o di sviluppo della personalità degli ospiti, manca una programmazione individualizzata.

    Il secondo modello è quello che si prefiggono le prime comunità che inizialmente si pongono come alternativa all'istituto, tralasciando tutto l'aspetto ideologico post anni sessanta, queste comunità si caratterizzano:
    · per il piccolo gruppo, solitamente 6 - 8 persone,
    · l'organizzazione basata sul modello della famiglia, con figure di riferimento dove l'organizzazione stessa, accogliente ed attenta ai singoli bisogni, assume un ruolo terapeutico ed educativo,
    · le dinamiche interne del piccolo gruppo sono caratterizzate da forti relazioni interpersonali, da vita di gruppo, da decisioni prese assieme magari dopo lunghe riunioni, la persona è protagonista, elabora un suo futuro,
    · i costi di gestione e di struttura sono bassi, aumentano quelli relativi al personale e conseguentemente i rapporti operatori utenti sono tendenti all'uno a uno (nelle ventiquattro ore) permettendo l'elaborazione di aspetti educativi e la centralità della persona;
    · la comunità si inserisce in una rete di servizi, non è risposta esclusiva, le persone disabili frequentano durante la giornata altri servizi o sviluppano loro interessi;
    · la comunità diventa la casa delle persone che scelgono di abitarvi, diventa piano piano una scelta di vita.


    Analizzando questi due modelli, anche se in modo frettoloso e superficiale, non possiamo evidenziare l'assenza totale della famiglia, nel primo caso perché alternativa all'istituto, nel secondo perché spesso è una risposta al "Dopo di Noi", l'intervento è centrato sul disabile, sui suoi bisogni, spesso la famiglia è estromessa perché ritenuta non capace di gestire il famigliare disabile o peggio, in alcune situazioni addirittura patologica, fonte essa stessa di disaggio.
    Se ci soffermiamo sui dati numerici relativi al secondo modello e li leggiamo in considerazione degli obiettivi dichiarati (alternativa all'istituto) possiamo tranquillamente parlare di fallimento: l'esperienza veneta che conosco meglio parla di 100 posti attivati rispetto ai 2500 potenziali (=0.04%), dato pressoché insignificante. Se i dati li leggiamo dal punto di vista culturale e qualitativo, assumono invece un grande significato: dimostrano la possibilità di una alternativa, pongono e indicano la soluzione del Dopo di Noi.
    La svolta degli anni '90
    Io considero gli inizi degli anni '90 come una svolta storica, almeno concettuale, dei servizi all'handicap dove sono stati espressi bisogni diversi:
    · fino agli anni '60-'70 l'inserimento in istituto era consigliato, quasi obbligato, certo culturalmente approvato;
    · la scelta coraggiosa delle famiglie di gestirsi a casa il figlio disabile, ha portato una serie di conversioni culturali: l'integrazione scolastica, la riabilitazione funzionale territoriale, i centri educativi occupazionali diurni, i centri flessibili e/o prolungati, l'assistenza domiciliare, i progetti di domiciliarità e di vita indipendente, che hanno iniziato a mettere al Centro non il disabile ma la sua famiglia e conseguentemente le comunità residenziali non centrate sul "Dopo di Noi", ma sul "Durante Noi".

    Si è cominciato a capire l'importanza della famiglia, delle sue fatiche, delle sue elaborazioni culturali, del bisogno di essere supportata e qualche volta sollevata. La traduzione di questi aspetti nell'organizzazione dei servizi residenziali porta alla conseguenza non più di una Comunità Alloggio rispondente a quando la famiglia non c'è più o non ce la fa più e quindi sparisce o espelle la persona disabile, spesso contrapponendosi ai servizi nell'ultimo grido di aiuto, ma una Comunità Alloggio per la famiglia che dia delle prospettive e sicurezze per il futuro, che possa essere fruita da subito con l'attivazione dei servizi di pronta Accoglienza o di Comunità Programmata nei quali la famiglia assume un ruolo, è presente, co-progetta, lavora sulla sua resilienza, controlla la qualità del servizio, elabora le sue ansie sul dopo di noi, si fida.
    Questa nuova prospettiva, di conseguenza, porta a pensare ad un'organizzazione del servizio residenziale diversa, completamente differente dal modello istituzionale, non in alternativa alla famiglia, ai centri diurni, ma un nuovo punto e nodo della Rete dei Servizi.

    La fatica e lo sforzo fatto da alcuni servizi che hanno imboccato questa strada sta a dimostrare che è possibile mettere al centro la famiglia che ha al suo interno una persona disabile che richiede un grosso carico assistenziale e che ha la volontà di accudirlo con le sue forze, di non istituzionalizzarlo, di amarlo per quello che è. Una famiglia che deve essere aiutata, sostenuta, avere punti precisi di riferimento; in questa prospettiva assume, a mio avviso, un ruolo importante l'associazionismo familiare, i gruppi di auto mutuo aiuto che devono essere ben distinti dalla gestione dei servizi, devono crescere insieme ma distinguendo i ruoli.
    Credo, nella mia esperienza, che si possano raggiungere buoni risultati quando vengono distinti nettamente: la gestione del patrimonio, la gestione del servizio, l'advocacy delle famiglie e la presenza del volontariato, collegamento con la Comunità Locale, tutto inserito in un Piano di Zona per i servizi all'handicap coordinato da un Ente Locale con ruolo di programmazione.

    L'impressione è che siamo in mezzo al guado.
    E' ancora culturalmente presente e dominante il modello istituzionale (risposta completa) ma viene richiesto sempre di più il modello flessibile, e attualmente questo porta ad una serie di confusioni e di incongruenze:
    · non è la struttura che determina l'organizzazione o le prestazioni, ma è la persona che a seguito della valutazione dell'Unità Operativa Distrettuale determina il carico assistenziale e le possibili risposte;
    · l'organizzazione non può essere piramidale, rigida, basata sulle procedure, ma deve essere orizzontale, elastica, orientata ai risultati, garantire la centralità della persona.

    Queste considerazioni portano ad un modello organizzativo delle comunità residenziali basate su alcune peculiarità tipiche: la casa, la media dei posti letto che oscilla da sei a dodici.
    Non è vero che "piccolo è bello, ma costa di più". Se analizziamo attentamente i costi vediamo che a parità di retta c'è un'incidenza completamente diversa delle voci assistenziali, educative e di struttura. Nella piccola comunità l'80% dei costi è relativo al personale assistenziale ed educativo, quindi l'efficacia e l'efficienza dell'intervento è molto alta mentre nelle comunità (vedi l'esperienza lombarda dove gli ospiti sono mediamente 30) i costi di struttura incidono in maniera più rilevante.
    Altro aspetto da considerare è che i piccoli gruppi si specializzano su un segmento specifico dell'utenza, quindi danno risposte più appropriate a carichi assistenziali diversi; quindi sono diverse, quindi costano diversamente.
    Alcuni sostengono che è solo questione formale sui nomi (Comunità Alloggio, Gruppo Famiglia, Gruppo Appartamento, ecc. ) io credo che invece siano una questione sostanziale che richiede più elasticità anche da parte di chi tenta di regolamentare il sistema o fa le delibere d'indirizzo.