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Appunti n.135
(indice Appunti)

L’integrazione scolastica ha compiuto trent’anni: quattro parole chiave per fare qualità
Mario Tortello - in “Handicap & scuola”, n. 97/2001


La scomparsa di un amico

Lo scorso 12 giugno, improvvisamente, all’età di 51 anni è morto Mario Tortello. Spesso abbiamo ospitato suoi contributi in questa rivista. Insieme al Comitato per l’integrazione scolastica degli handicappati di Torino del quale faceva parte abbiamo promosso nel 1997 il convegno “Handicap e scuola: l’integrazione possibile” cui aveva partecipato con entusiasmo; l’avevamo conosciuto nel 1992 invitandolo ad una nostra iniziativa; da lì è nata una collaborazione e un’amicizia vera conclusasi improvvisamente pochi giorni fa. Negli ultimi anni i rapporti si erano intensificati; uno scambio continuo di materiale, informazioni; la richiesta di collaborare sempre più attivamente alla sua nuova rivista Le leggi dell’integrazione scolastica e sociale con il costante invito a leggerla criticamente. Dopo Sergio Neri il mondo dell’integrazione perde una figura importante; spesso ripeteva le ultime parole di Neri “Dobbiamo andare avanti noi, che ne siamo convinti”, dicendo che quel testimone bisognava portare avanti. Questo dobbiamo fare. Il testo che riportiamo, probabilmente uno dei suoi ultimi scritti, è stato pubblicato nel numero 97/2001 di “Handicap & scuola”, la rivista del Comitato per l’integrazione scolastica degli handicappati di Torino.

Trent’anni fa, il 30 marzo 1971, veniva approvata la Legge n.118 che sanciva per la prima volta il principio secondo il quale - per gli allievi in situazione di handicap - “l’istruzione dell’obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica”. Da allora, molta strada si è fatta, sotto il profilo normativo e, soprattutto, nella prassi della scuola militante. Può essere importante e utile, perciò, riflettere sui “diritti all’integrazione nella scuola dell’autonomia”, in coincidenza con un anniversario così significativo e nel delicato momento in cui le riforme scolastiche e istituzionali in fase d’attuazione, modificano profondamente il quadro di riferimento normativo.

(..) Pur non disponendo di ricerche organiche e sistematiche del ministero della Pubblica Istruzione, dobbiamo riconoscere che l'esperienza di integrazione di allieve e allievi con handicap nella scuola di tutti e di ciascuno rappresenta oggi un dato di fatto che attraversa l'intero arco formativo, dalla materna alla superiore: nell'anno scolastico 199.2000 (ultimi dati ufficiali disponibili), le fonti di viale Trastevere documentano la presenza di 130.146 studenti certificati come in situazione di handicap nelle classi comuni delle scuole di ogni ordine e grado (1), 21.330 dei quali nella sola secondaria superiore (..). L'integrazione degli allievi e delle allieve in situazione di handicap costituisce forse l'unica vera riforma trasversale del nostro sistema normativo, negli ultimi trent'anni e prima dei cambiamenti radicali introdotti dall'ultima legislatura repubblicana (..).

L'integrazione tra radici e antenne
La trentennale esperienza di inserimento scolastico maturata nel nostro Paese dell'ormai lontana legge n.118/1971 richiama, molto opportunamente, "radici" e "antenne". Di fronte ai cambiamenti imposti dalle riforme scolastiche e istituzionali in atto, non possiamo considerare che l'integrazione di allieve e, allievi in situazione di handicap nelle sezioni e classi comuni delle scuole d'ogni ordine e grado torni all'anno zero". La scuola delle autonomie, della flessibilità e dell'individualizzazione degli interventi non può esimersi dal dovere etico di meglio accompagnare la crescita e le formazione di tutti e di ciascuno.
A scanso di equivoci: pur apprezzando l'affinamento delle normativa vigente, nell'ottica di una maggiore tutela dei diritti dei più deboli, non vorremmo che l'abbondanza dei mezzi finisse con l'oscurare i fini. Possiamo dire che oggi si "inserisce" di più, ma si "lotta" di meno? Possiamo ricordare che, all'inizio degli anni '70, la scuola italiana era forse "strutturalmente più disponibile di altre integrazione […], una scuola unitaria che doveva fare i conti con il proprio gruppo eterogeneo e che permetteva agli insegnanti di proteggere sull'intero ciclo scolastico e non sulla classe e sul livello corrispondente?"(2).
La nuova stagione della scuola italiana non può fare passi da gambero. Per questo dobbiamo stare attenti alle radici (..) Si lega alle "radici" anche l'analisi della normativa vigente e il ricorso ad essa, anche attraverso la minuziosa ricerca degli intrecci tra disposizioni pregresse e consolidate (a partire dai principi costituzionali) e le più recenti produzioni legislative e/o amministrative. Strumenti che accompagnano l'iter dell'insegnamento scolastico, indicando opportunamente le possibilità di ricorso alle "antenne", per fare una integrazione di Qualità (..).
In questi trent'anni, la scuola italiana (e, più in generale, la comunità sociale) ha realizzato ottime esperienze di integrazione, pur tra alti e bassi e qualche contraddizione. Dobbiamo documentarle e farle circolare, anche per mettere i diritti fondamentali dei minori e delle persone in situazione di handicap al riparo da scelte di comodo, pigrizia istituzionale o professionale, tentazioni d'efficientismo e vocazioni al risparmio sulla pelle dei più deboli. Ecco perché la nuova stagione, anche di integrazione scolastica, deve muoversi tra "radici" e "antenne". Dobbiamo potenziare la ricerca e l'analisi delle prime, per meglio ricorrere alla altre; anche a quelle in fieri.

Quattro indicazioni per il lavoro
Proviamo a richiamare, in questa sede, alcune parole chiave, che a nostro avviso possono rappresentare un percorso di lettura della stessa normativa sull'integrazione (..).

Riprendiamoci la pedagogia
Non può mai essere esaustiva una lettera leguleia della norma. In questa sede, stiamo parlando di diritto all'educazione e all'istruzione, in scuole inclusive; non di riabilitazione o di rieducazione funzionale.
Un esempio: l'art. 12, comma 5, della legge n. 104/1992, prevede che il profilo dinamico-funzionale necessario per formulare il piano educativo individualizzato, ponga in rilievo, fra l'altro, "le capacità possedute [dal soggetto], che devono essere sostenute, sollecitate e progressivamente sviluppate e rafforzate nel rispetto delle scelte culturali della persona handicappata".
Si tratta di un ottica ben diversa da quella suggerita dal successivo Dpr 24 Febbraio 1994, "Atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle Unità sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap", che all'art. 5, comma 4, prevede un piano relativo correlato, nell'ordine: alle disabilità dell'alunno stesso; alle sue conseguenti difficoltà; e, solo in terza battuta, alle potenzialità "comunque disponibili".
Il discorso si riallaccia a chi, come Meirieu (3), invita a distinguere le due prospettive secondo cui di può considerare l'educando (individuo da trattenere, oppure da interpellare) e a intrecciarle con due concezione dell'educando stesso (soggetto già costituito, oppure soggetto in formazione).In altre parole, il "momento educativo" nasce quando si percepisce la resistenza dell'educando di fronte a progetti, obiettivi e volontà dell'educatore. Incalza Pellerey: "La riflessione pedagogica si sviluppa proprio quando si decide di non mettere da parte tale resistenza, negandola o sopraffacendola, bensì accettandola e cercando di sviluppare un vero e proprio lavorio formativo che dirige l'attenzione e l'interesse verso situazioni e soggetti concreti e le loro resistenze"(4).
"Riprendiamoci la Pedagogia" sta a sottolineare la necessità d'una attenzione peculiare all'asse educativo, prima ancora che ai necessari coinvolgimenti dell'ambito medico-clinico. Non si vuole qui negare ideologicamente l'esistenza di aspetti patologici; semmai, pretendere che all'individuo in situazione di handicap venga assicurato anzitutto ciò ce gli spetta in quanto persona, per poi provvedere a bisogni particolari, per i quali la risposta non dovrebbe mai essere totalizzante e emarginante.

Pensami adulto
Diventa sempre più necessario passare dal "piano educativo individualizzato" a un vero e proprio "progetto di vita" per minori e adulti in situazione di handicap che frequentano sezioni e classi comuni della scuola normale d'ogni ordine e grado. Prospettiva sempre più presente nei servizi, non immune da rischi e pratiche contraddizioni. Non si progetta "su o "per", si progetta "con". Inoltre, la crescita personale è sempre legata a un corretto equilibrio nell'attivazione di "codici affettivi" e di "codici prescrittivi". Si cresce perché si sa d'essere amati, d'avere legami con qualcuno, d'essere accettati per quelli che si è; ma lo sviluppo passa anche (e soprattutto) attraverso prescrizioni finalizzate ad apprendere un ruolo via via crescente, in famiglia, a scuola, nella società…
Un minore, un ragazzo, un giovane in situazione di handicap cresce nella misura in cui non rimane pensato e agito come "eterno bambino"; cresce in relazione a come, in famiglia e altrove, lo si aiuta progressivamente ad assumere quei micro-ruoli familiari o sociali che stanno alla base della successiva assunzione di macro-responsabilità, sia pure rapportate alla presenza di un deficit e delle compromissioni che ciò può comportare (ma sapendo che è possibile ridurre o annullare l'handicap). C'è una riflessione indispensabile: nei nostri variegati percorsi formativi, tutti noi operatori, indipendentemente dalla professionalità e dalla collocazione lavorativa, abbiamo appreso l'importanza di concetti fondamentali come quelli di "contenimento" e di "réverie" (capacità di sognare). Perché, ora, facciamo spesso ricorso solo al primo, relegandone per giunta l'attuazione a dimensioni restrittive, mentre scordiamo frequentemente il secondo, non offrendo alle creature sostegni concreti alla ricerca legata alla "capacità di sognare"?

Partecipare per apprendere
Obiettivo ultimo di ogni intervento educativo è l'apprendimento di un compito, attraverso l'assunzione di conoscenze e di competenze, nell'ambito dell'esperienza quotidiana.
Ma obiettivo di fondo di ogni intervento educativo dovrebbe essere quello di permettere a ciascuna creatura (specie se "in formazione") di partecipare alla "cultura dei compiti" e delle discipline; partecipare per…apprendere. Giustamente è stato sottolineato che "nella scuola (di tutti e di ciascuno) si gioca l'incontro tra molteplici esperienze individuali orientate su un oggetto comune: l'elaborazione culturale del sapere (…). Se restiamo ancorati all'idea che la vera esperienza sia un'altra, ci condanniamo a pensare che la scuola non serve a nulla, perché racconta un mondo senza alcuna analogia con quello che ci aspetta quando ne usciamo" (5).
Ripetiamo: l'alunno in situazione di handicap deve essere costantemente condotto a percepire che i "compiti" della classe non sono a lui totalmente estranei e che hanno queste caratteristiche: esistono, sono risolvibili, possono essere appresi diversi livelli, possono essere partecipati. Mentre la classe lavora a un compito specifico, l'allievo handicappato non dovrebbe essere estraniato, ma partecipare per quanto possibile allo stesso compito, in forme adattate e/o ridotte, che rientrano nella cultura caratterizzante tale compito specifico.
Si rivedano, nella normativa vigente, tutte quelle indicazioni legate alla necessità di passare dall'inserimento all'integrazione, da una analisi quantitativa del fenomeno dell'integrazione scolastica a una analisi qualitativa, dal vero inserimento nelle sezioni e classi comuni a una integrazione di qualità. Vi si troverà più nesso con le considerazioni su esposte.

Pedagogia dei genitori
Scrive Bronfenbrenner: "E' di importanza cruciale che la famiglia sia inclusa nelle reti di comunicazione […]. Il potenziale evolutivo delle situazioni ambientali risulta incrementato nella misura in cui le modalità di comunicazione fra di esse sono di tipo personale" (6). I genitori sono spesso una grande risorsa non sfruttata da chi lavora con persone in situazione di handicap. Eppure, esistono ragioni che raccomandano tale collaborazione; condizioni sperimentate per condividere fini comuni, potere decisionale e sentimenti; modalità collaudate per realizzarla.
Purtroppo, non tutti gli operatori insistono sulla necessità di un proficuo rapporto tra scuola e famiglia; ma si tratta di una dimensione tutt'altro che secondaria, che può portare grandi vantaggi alla crescita di tutti e di ciascuno, a partire dalla possibilità per operatori e familiari di riconoscere reciprocamente una necessaria composizione dei rispettivi punti di vista educativi.
Cosa aggiungere? Augurare buona fortuna all'integrazione scolastica nella nuova scuola delle autonomie, per dare continuità a una esperienza pluridecennale che tanta parte ha avuto anche per la coeducazione delle nuove generazioni. Con l'auspicio che la grande stagione di riforme in atto (nel sistema formativo nazionale, ma anche nelle istituzioni) possa rilanciare gli interventi "inclusivi", sostenere solidamente l'opera di chi continua a credere nella necessità d'operare per l'integrazione piena di tutti i cittadini nella vita sociale e assicurare nel quotidiano il suo impegno in tale direzione.
Sergio Neri ci ha passato il testimone: "Dobbiamo andare avanti noi, che ne siamo convinti…". Dobbiamo muovere altri passi. Importanti.


(1) Ministero della Pubblica Istruzione (2001), L'handicap e la scuola: i dati dell'integrazione. Anno scolastico 1999-2000, Roma,p.7.
(2) Canevaro A. (1996), Quel bambino là…, La Nuova Italia, Firenze, p.37.
(3) Meirieu P. (1995). La pèdagogie entre le faire et le dire, Esf, Paris, p. 133
(4) Pellerey M. (1999), Educare. Manuale di pedagogia come scienza pratico-progettuale, Las, Roma, pp.42 e segg.
(5) Salomone I. (1997), Il setting pedagogico, Nis, Roma, pp.105-106.
(6) Citato in: Pavone M. (2001), Educare nelle diversità, La Scuola, Brescia, p.212, Si veda inoltre: Tortello M., Pavone M. (1999), Pedagogia dei genitori, Paravia , Torino.