Notizie Minime Della Nonviolenza
In Cammino – n. 347 del 27 gennaio 2008
- Centro di ricerca per la pace di Viterbo e-mail - nbawac@tin.it
Bruno Segre. Per non dimenticare
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Riproponendo nuovamente queste pagine finali del suo libro Shoah,
Il Saggiatore, Milano 2003, nuovamente ringraziamo di cuore Bruno Segre
per averci permesso di riprodurre sul nostro foglio a suo tempo ampi stralci
da questo suo utilissimo libro, la cui lettura vivamente raccomandiamo.
Riportando alcuni passi di esso abbiamo omesso tutte le note, ricchissime
di informazioni e preziose di riflessioni, per le quali ovviamente rinviamo
chi legge al testo integrale edito a stampa.
Quasi sei decenni ci separano dai giorni in cui le armate alleate raggiunsero
i campi di sterminio nazisti restituendo la liberta' ai pochi prigionieri
scampati al massacro: da allora la memoria della Shoah rappresenta
un elemento costitutivo dell'identita' per una parte cospicua
degli ebrei. Ormai la generazione dei testimoni diretti (su entrambi i
versanti: quello delle vittime e quello dei persecutori) va estinguendosi.
Ma anche gli ebrei della nuova generazione, apparentemente estranei alla
paura, affrancati - tanto nella diaspora quanto in Israele - dalle ansie
degli antenati, continuano a confrontarsi con la memoria della Shoah,
condannati a ritornarvi lungo la propria cronistoria, nelle proprie
associazioni mentali, nelle proprie decisioni morali, nei codici di comportamento.
"Una mia amica, sopravvissuta come me alla Shoah - scriveva Doris Papier
in una lettera da Herzliya (Israele) al "Jerusalem Post" nel dicembre
1990 -, ha visitato recentemente la localita' nella quale erano vissuti
e dove vennero assassinati i miei famigliari. Il luogo non e' lontano
da Rovno, in Ucraina. Mentre si trovava la', la mia amica registro' con
una cinepresa
la boscaglia in cui migliaia di ebrei furono passati per le armi". E soggiungeva:
"Quando vidi il filmato rimasi inorridita nell'osservare che un po' ovunque,
sul terreno, affioravano le ossa delle vittime e, inoltre, che la popolazione
del luogo andava frugando fra i resti umani alla ricerca di denti d'oro
e di oggetti di valore". (...) "Trovo quasi incredibile che per tutto
questo tempo nulla sia stato fatto dalle autorita' sovietiche e/o ucraine
per porre rimedio a tale situazione".
Oswiecim, in Polonia ("Auschwitz" in tedesco). Qui, nell'agosto 2000,
viene inaugurata la discoteca "System", nella quale ogni fine settimana
si danno appuntamento centinaia di giovani. La nascita della discoteca
innesca l'ultima di una lunga serie di diatribe che, per tutto il secondo
dopoguerra, hanno avvelenato i rapporti tra polacchi ed ebrei: la malcelata
invidia dei primi, che non si sono sentiti abbastanza considerati nel
ruolo di vittime del nazismo, l'antisemitismo strisciante dei governi
comunisti di Varsavia, l'atteggiamento a volte ostile verso gli ebrei
della Chiesa cattolica di Polonia e, soprattutto, il destino di Auschwitz,
l'uso e la tutela di un luogo che la tragedia della Shoah ha inscritto
per sempre nella
storia degli ebrei e nella coscienza del mondo. La "pista da ballo sopra
le tombe" - come viene definita la discoteca dai suoi critici - riaccende
la guerra per la memoria della Shoah: una vicenda conflittuale fatta di
simboli, di controversie religiose e strumentalizzazioni politiche, le
cui radici vanno cercate nelle pieghe profonde della storia d'Europa,
recente e eno recente.
Gia' negli anni Ottanta un convento di carmelitane, che si era insediato
entro il perimetro dell'ex campo di sterminio, fu trasferito al di fuori
dei fili spinati in seguito alle proteste delle comunita' ebraiche. Nel
1996, gruppi di pressione ebraici ottennero che fosse annullato il progetto
di costruzione di un centro commerciale, mentre nel 1998 vennero rimosse
trecento croci in legno piantate ad Auschwitz dagli attivisti del "Movimento
per la salvezza del popolo polacco", un gruppuscolo ultranazionalista
che fa dell'antisemitismo e del radicalismo religioso il proprio cavallo
di battaglia. Nel 2000, a chiedere l'immediata chiusura della discoteca
"System" scese in campo nientemeno che il Centro Wiesenthal di Vienna.
Spesso gli ebrei vengono rimproverati di fare di Auschwitz, della Shoah
un mito, un monumento. A ben vedere le cose non stanno esattamente cosi'.
Per i sopravvissuti e per i loro eredi la Shoah, assai piu' che un monumento
rappresenta il ricordo incancellabile di un disastro, di una vicenda di
rovinosa umiliazione, di impotenza e solitudine.
Innanzitutto e' impossibile dimenticare che la Shoah ha inghiottito sei
o sette milioni di persone: approssimativamente la meta' degli ebrei europei,
ossia circa un terzo degli ebrei del mondo, fra i quali un milione e mezzo
di bambini. Ma soprattutto, nella Shoah e' andata distrutta una civilta',
quella degli ebrei dell'Europa centro-orientale. Dell'antico scenario
fisico
entro il quale si mossero e fiorirono numerose comunita' estremamente
vitali e creative, oggi non rimangono che i muri delle sinagoghe, i cimiteri,
i libri, gli oggetti rituali e d'uso quotidiano, le carte: documenti di
una storia durata poco meno d'un millennio. Pagine della storia degli
ebrei, certamente, ma anche, a pieno titolo, della storia d'Europa e -
vorrei
aggiungere - della storia dell'intera umanita'.
Come ha scritto Yosef Hayim Yerushalmi, docente alla Columbia University
di New York, la necessita' di ricordare e' divenuta piu' urgente da quando
hanno alzato la voce "coloro che fanno a brandelli i documenti, gli assassini
della memoria e i revisori delle enciclopedie, i cospiratori del silenzio,
coloro che, come nella bellissima immagine di Kundera, possono
cancellare un uomo da una fotografia in modo che ne rimanga solo il cappello".
Quella che ci risulta intollerabile e' l'idea che persino i crimini piu'
atroci possano cadere nell'oblio. In sostanza, il bisogno di ricordare
riguarda il male.
Da piu' parti si sostiene che, in quanto "male assoluto", la Shoah sia
qualcosa di indicibile, di irrappresentabile. Si tratta, in questo caso,
di un'opinione che non condivido. Ritengo infatti che anche il lavoro
di coloro che fanno storiografia avrebbe uno spessore molto inferiore
se non potesse fare riferimento proprio alle narrazioni dei testimoni
diretti, dei deportati, di coloro la cui vita e' stata barbaramente stroncata,
dei sopravvissuti. Come si sa, la testimonianza personale e' fragile,
parziale, incompiuta; tuttavia essa esprime il vissuto, unisce soggettivita'
e oggettivita', individuale e collettivo, pubblico e privato. Ai fini
della conservazione e trasmissione della memoria, il racconto individuale
offre spunti e risorse di una vitalita' unica, insostituibile: basti pensare
alle narrazioni e alle riflessioni preziosissime di un grande testimone
quale fu Primo Levi.
In un mondo sempre piu' orientato a rimuovere e a banalizzare il male
– qual e' il mondo in cui viviamo -, e' importante che un sano impegno
pedagogico dia vita a strategie educative capaci di offrire alle generazioni
piu' giovani il senso concreto di un legame tra la vicenda dello sterminio
nazista e situazioni di violenza, di offesa ai diritti umani, di eccidi
di massa che accadono oggi, pur con tutte le differenze rispetto alla
Shoah. Il ricordo del male passato, pero', non puo' e non deve ridursi
a retoriche manifestazioni in chiave celebrativa: una sorta di illusori
compensi postumi elargiti alle vittime e ai loro eredi. Manifestazioni
di questa natura sono i prodotti di una memoria statica, capace soltanto
di dare corso a rievocazioni del male che, per essere meramente commemorative
ed esorcistiche, rivelano una radicale sterilita'. Da esse occorre distinguere
le forme di una memoria dinamica, preoccupata di tenere viva la
consapevolezza del male al fine di favorire, semmai, la progettazione
di un futuro diverso e migliore. Infatti il ricordo dell'orrore, seguito
dalla rituale invocazione "cio' non deve accadere mai piu'", appare destinato
a rimanere privo di reale efficacia quando non si saldi a un'interrogazione
argomentata e analitica circa il presente e non si apra con spirito critico
e creativo alla progettualita'.
Alla fine del 1997 Sergio Romano pubblico' in Italia un saggio che, a
onta del tenore benevolo del titolo e dell'orgoglioso "laicismo liberale"
ostentato dall'autore, apparve subito abbondantemente farcito dei piu'
abusati luoghi comuni antiebraici. L'autore pretendeva di spaziare in
lungo e in largo nella storia degli ebrei fino a giudicarne lapidariamente
la
religione: un "catechismo fossile ('duecentoquarantotto precetti affermativi
e trecentosessantacinque precetti negativi', ricorda il rabbino Toaff)
di una delle piu' antiche, introverse e retrograde confessioni religiose
mai praticate in Occidente".
Fra le numerose bizzarrie proposteci da questo pamphlet, occupa un posto
centrale la tesi, non priva di malizia, secondo la quale il genocidio
degli ebrei d'Europa si sarebbe ormai trasformato, per l'opinione pubblica
dell'Occidente (cristiano), in una sorta di ricatto permanente. Nell'imputare
tale fatto al culto ebraico della memoria, Romano articola le
sue argomentazioni nei termini seguenti: "[Il genocidio] e' diventato
il peccato del mondo contro gli ebrei, una colpa incancellabile di cui
ogni cristiano dovrebbe chiedere perdono quotidianamente, il nucleo centrale
della storia del XX secolo. Grazie a questa prospettiva storica, ogni
paese e ogni istituzione vengono giudicati per il loro ruolo in quella
vicenda e
finiscono, prima o poi, sul banco degli accusati". Dopo avere elencato
varie stragi analoghe o paragonabili per dimensioni o crudelta' (lo sterminio
armeno, le vittime dello stalinismo, del colonialismo, della seconda guerra
mondiale, dei conflitti interetnici in Bosnia o in Ruanda), Romano lamenta
che, mentre la memoria di questi e altri massacri "impallidisce e si
appanna, l''olocausto' continua ad agitare le coscienze". Insomma, "non
e' piu' un episodio storico da studiare nelle particolari circostanze
in cui quelle vicende ebbero luogo".
Di fronte alla ricerca storica, afferma Romano, molti ambienti ebraici
si rivelano animati da una "ostilita' iniziale" dettata, fra l'altro,
dal "timore che gli studi storici finiscano per 'storicizzare' il genocidio
riducendolo, prima o dopo, ad una gigantesca 'notte di San Bartolomeo'".
Con l'attribuire agli ebrei, in buona sostanza, la colpa di collocare
la Shoah
in una dimensione teologica e metastorica, Romano avanza l'ipotesi che
la "strategia della memoria" sia stata per lo Stato d'Israele "una straordinaria
arma diplomatica, una preziosa fonte di legittimita' internazionale".
Inoltre, secondo Romano, tale strategia e' "il terreno su
cui l'ebraismo e la sinistra possono incontrarsi e collaborare", consentendo
agli ebrei di "tenere in vita una sorta di 'comitato permanente di vigilanza
antirazzista'".
E', questa di Romano, un'ipotesi semplicistica e fuorviante poiche', oltre
a recuperare alcuni "topoi" del "connubio giudaico-comunista" tanto cari
alla pubblicistica fascista degli anni trenta, ha il torto di enfatizzare
il sostegno offerto allo Stato d'Israele dalle comunita' della diaspora
e di sottolineare oltre misura la volonta' d'Israele di tenere viva, nel
proprio esclusivo interesse di Stato, la memoria del genocidio: riducendo
in tal modo il grande esame di coscienza che il mondo continua a compiere
di fronte alla Shoah a una meschina macchinazione politica degli ebrei.
Circa gli usi della memoria della Shoah che si sono andati facendo in
Israele lungo l'arco dei decenni, l'analisi piu' compiuta, equilibrata
e, nello stesso tempo, severamente problematica, e' a mio avviso quella
condotta da Tom Segev - un valido giornalista e storico israeliano - in
Il
settimo milione. Osservatore molto attento e sottile delle dinamiche complesse
e talvolta contraddittorie che si registrano all'interno della classe
politica e della societa' israeliane, Segev rammenta che "Israele e' diverso
dalla maggior parte degli altri paesi del mondo perche' ha la necessita'
di giustificare, agli occhi altrui e ai propri, il diritto all'esistenza".
L'Olocausto, spiega Segev, "e' la conferma definitiva della validita'
della tesi sionista secondo cui gli ebrei possono vivere nella sicurezza
e godere pienamente dei diritti dei quali usufruiscono gli altri
popoli soltanto in uno Stato autonomo e sovrano, capace di difendersi.
Eppure, di guerra in guerra, si e' visto chiaramente che al mondo ci sono
molti altri luoghi in cui gli ebrei sono piu' al sicuro che in Israele.
Non solo: l'Olocausto e' stato un'innegabile sconfitta per il movimento
sionista, che non e' riuscito a convincere la gran parte degli ebrei del
mondo a stabilirsi in Palestina quand'era ancora possibile".
"Secondo alcuni", ricorda Segev, "sarebbe meglio che gli israeliani dimenticassero
l'Olocausto, dal momento che ne traggono insegnamenti sbagliati". E nel
menzionare taluni dei rischi che il culto della memoria comporta, egli
osserva correttamente che "la scuola e le celebrazioni
ufficiali alimentano spesso lo sciovinismo e l'idea che lo sterminio nazista
giustifichi qualsiasi azione purche' giovi alla sicurezza di Israele,
compresa la repressione della popolazione palestinese nei Territori occupati".
Tuttavia, dichiara alla fine l'autore, gli israeliani "non
possono e non devono dimenticare [l'Olocausto]. Quello che devono fare
e' trarne conclusioni diverse. L'Olocausto chiede a tutti noi di tutelare
la democrazia, combattere il razzismo e difendere i diritti umani. Conferma
e rafforza la legge israeliana che impone a ogni soldato di non obbedire
a un ordine palesemente illegittimo. Certo non sara' facile inculcare
gli
insegnamenti umanistici dell'Olocausto finche' Israele lottera' per difendersi
e per giustificare la propria esistenza. Ma farlo e' essenziale".
E' chiaro che il rapporto fra memoria della Shoah e storia e' particolarmente
complesso, giacche l'elaborazione dei lutti provocati dalla tragedia e'
lunga e dolorosa. Faccio senz'altro mia la preoccupazione di non cadere
in "eccessi di memoria", che rischierebbero di schiacciare sul passato
la progettazione di un qualsiasi avvenire. Ne' intendo qui negare che
in ambito ebraico siano oggi presenti, tanto in Israele quanto nella diaspora,
gruppi politici e frange sociali disposti a fare della Shoah un uso strumentale
onde giustificare forme di sciovinismo miope e arrogante, pericolose derive
fondamentaliste e grette chiusure di natura confessionale.
Tuttavia, il piccolo universo degli ebrei continua, nel suo insieme, a
essere ricco di interne tensioni, di una vivacissima dialettica, di spinte
e controspinte, e presenta connotazioni complesse, diversificate e troppo
difficili da cogliere perche' sia consentito accostarsi a esso con un
approccio del tipo di quello adottato da Sergio Romano. Forse l'urgenza
con la quale Romano preme per "storicizzare" la Shoah rivela una sotterranea
ansia di "archiviazione", tesa a liquidare una memoria troppo ingombrante
per i tanti europei che, pur di sentirsi innocenti, cercano di "chiamarsi
fuori" in vari modi, per esempio ponendo lo sterminio a esclusivo carico
della defunta ideologia nazista.
Il vero problema, a mio avviso, e' quello di conciliare il compito morale
di evitare che il passato cada nell'oblio con l'impegno a operare perche'
le nuove generazioni si possano costruire un futuro vivibile e decente,
da condividere responsabilmente e fraternamente con tutti i figli degli
uomini. In ambito ebraico, alcune strade in questa direzione appaiono
gia'
tracciate.
Mi riferisco, in primo luogo, all'esperienza di Yad Vashem, il museo della
Shoah di Gerusalemme: un'istituzione che, fin da quando vide la luce nel
1957, volle ricordare accanto alla memoria delle vittime anche i "giusti",
ossia i protagonisti del bene, quanti a rischio della propria vita si
prodigarono per la salvezza dei perseguitati. Le vicende dei "giusti"
hanno
permesso a molti fra i sopravvissuti di ritrovare la speranza nell'umanita'.
Per numerosi ebrei e per i loro figli e nipoti e' stato possibile ritornare
nei paesi che li avevano perseguitati e traditi, solo dopo avere saputo
di uomini e donne che si erano comportati diversamente. In tal modo i
"giusti" sono diventati il tramite di un riavvicinamento tra le vittime
della violenza e i popoli che li hanno oppressi.
In una direzione non dissimile si colloca il lavoro del Post-Holocaust
Dialogue Group: un'associazione internazionale creata all'inizio degli
anni Novanta da Gottfried Wagner - pronipote di Richard e figlio "degenere"
dell'attuale direttore del Festival di Bayreuth (in Germania) - e da Abraham
Peck, direttore amministrativo e dei programmi dell'Archivio
ebraico-americano di Cincinnati (negli Stati Uniti). Le iniziative di
questo gruppo mirano non gia' a ricomporre le memorie della Shoah - ancor
oggi profondamente divise - in una fittizia unita' sotto l'etichetta di
una "comune memoria" (un'operazione che, qualora venisse proposta, recherebbe
offesa a tutte le persone coinvolte a vario titolo nella tragedia), bensi'
a dare luogo al lavoro difficilissimo, e tuttavia necessario, di reciproco
riconoscimento, di dialogo appunto, tra i figli di coloro che la Shoah
l'hanno subita e i figli di coloro che, invece, l'hanno architettata e
inflitta. Un dialogo, dunque, tra persone nate dopo lo sterminio.
Uno dei membri ebrei del gruppo, lo psichiatra newyorkese Yehuda Nir,
ha pubblicato un'autobiografia che e' stata tradotta in nove lingue. In
un'introduzione all'edizione olandese, composta con un pensiero rivolto
in particolare agli studenti, Nir interpella idealmente Gottfried Wagner
con parole che esprimono tutt'intera la tensione e la fatica di un lavoro
congiunto di ricostruzione morale e psicologica, portato avanti con estrema
delicatezza dagli uni e dagli altri attori di questo dialogo straordinario:
"Gottfried, io ti vedo come un rappresentante di questo [nuovo] mondo.
Tu sei l'anti-Lohengrin, che non nasconde il suo passato e dice: 'Per
favore,
Yehuda, chiedimi che cos'hanno fatto i miei genitori'. In modo sincero
ti definisci un figlio dei persecutori, un tedesco nato dopo la Shoah.
Hai affermato di essere legato alla storia della Germania. Non chiedi
perdono. Tutto cio' che desideri e' impegnarti in un dialogo per capire
che cosa e come e' successo, e se e' possibile evitare che possa accadere
di nuovo. Sei
un tedesco che vuole aiutare a creare un mondo in cui noi ebrei possiamo
prendere in considerazione il perdono".
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