Notizie Minime Della Nonviolenza
In Cammino – n. 348 del 28 gennaio 2008
- Centro di ricerca per la pace di Viterbo e-mail - nbawac@tin.it
Fabio Levi. Per non dimenticare
Fscicolo speciale di "Diario" (nuova serie), gennaio 2008, per il giorno
della memoria.
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Il tempo passa, gli anniversari si inseguono e si sovrappongono. Le
iniziative prese ad esempio nel 1988, per ricordare dopo tanto tempo le
leggi contro gli ebrei volute da Mussolini cinquant'anni prima, hanno
segnato un punto di svolta: finalmente in Italia anche varie istituzioni
decidevano di rompere il silenzio che durava ormai dall'immediato dopoguerra.
Ora sono trascorsi altri vent'anni, la conoscenza e le
discussioni su quegli eventi hanno fatto molti passi avanti, ma il quadro
delle reazioni e dei punti di vista resta frastagliato e contraddittorio.
Non sembrano profilarsi certezze rassicuranti e non e' quindi possibile
fare molto altro se non tentare un bilancio sommario di quel che e' cambiato
da quando la nuova attenzione posta all'antiebraismo fascista ha portato
anche in Italia a riconoscere la Shoah come un dato costitutivo della
nostra storia.
Il mondo e' cambiato
Alla fine degli anni '80 l'adagio secondo cui conoscere gli orrori nazisti
sarebbe valso da sicuro antidoto contro le possibili ripetizioni del male
sembrava giustificato da almeno due ragioni allora sotto gli occhi di
tutti: la diffusa fiducia in un mondo piu' libero e giusto ispirata dal
crollo dell'impero sovietico e una insperata apertura all'incontro reciproco
– di cui Primo Levi era stato da tempo fra i protagonisti piu' convinti
- fra i testimoni del genocidio hitleriano e, in particolare, le generazioni
piu' giovani. In quel clima, ascoltare direttamente la voce di chi aveva
visto e sofferto la deportazione e i campi della morte faceva sentire
diversi e chiamava a una precisa responsabilita' per il presente.
La realta' e' venuta pero' di li' a poco a contraddire le speranze piu'
ottimistiche. La carneficina nei Balcani e' iniziata nel 1991. L'annientamento
di un milione di tutsi in Rwanda e' avvenuto nel 1994. L'uccisione a freddo
ad opera delle milizie serbe di Mladic della gran parte dei ragazzi e
degli uomini di Srebrenica per cancellare definitivamente la presenza
mussulmana in quella citta' della Bosnia - e dell'Europa - si e'
compiuta nel luglio del 1995. Il genocidio si e' dunque imposto all'attenzione
del mondo come una pratica certo estrema, ma collaudata e ricorrente nella
gestione dei conflitti della societa' contemporanea. Anche
se in molti hanno cercato sin dal primo momento di allontanare da se'
una verita' tanto sconvolgente, attribuendo quegli "eccessi" a presunti
residui di crudele primitivismo radicati nelle culture "altre" dell'Africa
o dei Balcani; come dire che nei nostri anni la crescente sfiducia nell'efficacia
profilattica della conoscenza del male senza limiti si accompagna alla
diffusa esitazione a voler riconoscere la persistenza di quello stesso
male nel mondo di oggi.
Per altri versi alcuni dei grandi cambiamenti successivi alla fine della
guerra fredda, in particolare l'affermarsi del fondamentalismo islamista
rivelatosi come un'incombente minaccia globale con l'attentato alle torri
gemelle del 2001, hanno contribuito a riaprire il capitolo dei totalitarismi
riportando al presente discussioni che sembravano oramai confinate al
secolo appena concluso. Per non dire della ripresa in forme aggiornate
dell'antisemitismo, meno connotato in senso razzista e forte invece dei
rinnovati contenuti antisionisti; o dell'incremento straordinario - anche
in Italia - dei movimenti di popolazione fra paesi diversi, terreno di
coltura ben collaudato gia' nel secolo passato di incroci esplosivi fra
xenofobia, razzismo e, appunto, antisemitismo.
Tutto questo mostra come si sia profondamente trasformato il contesto
nel quale si forma e si articola oggi la memoria del passato; a maggior
ragione quando si guarda agli anni della Shoah e piu' in generale al rapporto
fra gli ebrei e le societa' di maggioranza prima e dopo tale evento. E'
la forza del pregiudizio che tende a imprigionare quella relazione entro
schemi rigidi e all'apparenza sempre uguali a se stessi. Viceversa la
consapevolezza che le realta' in cui hanno vissuto e vivono ora gli ebrei,
cosi' come la ragion d'essere e la forma concreta degli antisemitismi
passati e presenti mutano continuamente, puo' favorire una piu' autonoma
capacita' di interpretazione e di giudizio.
Le responsabilita' italiane
Gli ultimi anni '80 hanno aperto a importanti novita' anche sul piano
storiografico: fra l'altro e' emerso in forma pienamente documentata come
molti italiani si fossero macchiati di gravi responsabilita' nella persecuzione
e nello sterminio degli ebrei. Ricerche di indiscutibile rilievo hanno
mostrato che mettere le azioni piu' abominevoli in conto al solo regime
hitleriano voleva dire falsificare la storia.
Ma vediamo piu' precisamente alcuni dei risultati di quel nuovo modo di
guardare agli ultimi anni del fascismo. In primo luogo, fu Mussolini a
decidere in piena autonomia di emanare la normativa volta ad emarginare
definitivamente gli ebrei da tutti gli ambiti della societa' italiana;
non lo fece su pressione di Hitler, semmai agi' nell'intento di offrire
al dittatore tedesco un pegno ulteriore di amicizia. All'origine dell'azione
persecutoria vi furono ragioni di politica estera ed interna; ma soprattutto
fu quella una vera e propria rottura con il passato, in un paese dove
gli ebrei, dopo l'emancipazione loro concessa a meta' Ottocento, avevano
potuto integrarsi nella societa' in modo molto piu' agevole che nella
gran parte
degli altri paesi dell'Europa occidentale; e dove l'antigiudaismo di matrice
cattolica si era tradotto in antisemitismo politico solo episodicamente
e senza conquistare un consistente radicamento nella societa'.
Quanto agli sviluppi successivi, va detto che la campagna antiebraica,
una volta avviata dai vertici del regime, riusci' poi a permeare dall'alto
verso il basso tutte le istituzioni dello stato fino a investire le articolazioni
periferiche a contatto piu' diretto con la quotidiana realta' del paese
e a coinvolgere progressivamente, lungo un arco di tempo di ben cinque
anni - dal '38 al '43 - e senza opposizioni rilevanti, settori sempre
piu' ampi della popolazione, incoraggiati ad applicare e ad assecondare
le disposizioni razziste dalla diffusa evidenza che il potere stava facendo
sul serio. Anzi, proprio la facilita' - pur fra molte contraddizioni -
con cui gli ebrei vennero messi nell'angolo in un paese dove l'antisemitismo
non aveva mai mostrato grande presa e' emersa dagli studi come uno dei
dati piu' inquietanti, destinato a sollevare importanti interrogativi
non solo sulla condizione specifica delle comunita' ebraiche e sui modi
della persecuzione contro di loro, ma prima ancora sulla storia e sulle
caratteristiche del rapporto fra societa' e istituzioni del nostro paese.
Le ricerche avviate una ventina di anni fa come sviluppo spesso assai
critico del lavoro pionieristico pubblicato da Renzo De Felice gia' nel
'61, hanno anche messo in luce la sostanziale acquiescenza di gran parte
della popolazione di fronte alle leggi razziali del '38 e agli sviluppi
successivi. Se poi le cose cominciarono a cambiare fu in relazione con
l'entrata in guerra dell'Italia e, soprattutto, dopo il collasso delle
istituzioni provocato dall'armistizio con gli alleati dell'8 settembre
'43, quando peraltro si stava oramai profilando l'inevitabile sconfitta
delle potenze dell'Asse. A quel punto molti mutarono atteggiamento e offrirono
il proprio aiuto, impedendo che altri ebrei si aggiungessero ai circa
8.000 deportati fino al '45 nei campi di sterminio. Malgrado questo non
mancarono pero' segni di ostilita' e un numero consistente di delazioni,
grazie alle quali le milizie della Repubblica Sociale Italiana poterono
moltiplicare gli
arresti - e gli espropri dei beni - compiuti in costante collaborazione
con le forze tedesche.
Quegli studi hanno infine cominciato a considerare gli anni immediatamente
successivi alla Liberazione, quando le forze dell'antifascismo chiamate
al governo del paese non seppero o non vollero riconoscere agli ebrei
la condizione di vittime esclusivamente in quanto ebrei, come era effettivamente
stato nelle intenzioni e nella pratica del regime fascista e della Repubblica
Sociale. Cosi' i sopravvissuti impiegarono molto tempo a
ritrovare una vita normale dovendo affrontare da soli le difficolta' di
reinserirsi nel mondo del lavoro o di recuperare quel che era rimasto
dei propri beni senza il minimo sostegno da parte delle istituzioni; non
poterono contare su alcun atto di riparazione per le gravissime perdite
subite; fu per loro molto difficile e doloroso, al ritorno dai lager o
dai luoghi in cui avevano ricevuto asilo, ritrovarsi accanto i vicini
o i
colleghi che li avevano isolati nei lunghi anni della campagna antisemita
o li avevano abbandonati nel momento del pericolo estremo; nei processi
del dopoguerra quasi mai vennero prese in considerazione le azioni commesse
contro gli ebrei. Insomma, il forte coinvolgimento di una parte non indifferente
dell'Italia nella pratica persecutoria del periodo precedente la Liberazione
contribui' in misura decisiva a porre le condizioni perche', dopo, il
paese non riuscisse a liberarsi consapevolmente anche di quell'oscuro
capitolo del proprio passato e preferisse procedere sulla strada della
rimozione e del silenzio.
Domande per tutti
Il lavoro degli storici sull'Italia e' stato parte di un impegno di indagine
ben piu' ampio, condotto in tutto il mondo occidentale e destinato a comporre
una ricca rappresentazione d'insieme dello sterminio e del suo
rapporto con la guerra e la storia dei vari paesi. Nello stesso periodo
quei temi hanno cominciato a diventare oggetto di crescente attenzione
anche per i media, cinema e televisione in primo luogo, che hanno offerto
al grande pubblico quanto negli anni precedenti - grazie alle prime fondamentali
opere sul tema come quella di Lanzmann - era pur sempre rimasto patrimonio
di pochi: non e' il caso qui di ricordare i titoli piu' noti di quella
nuova stagione, da Schindler's list in avanti. E senza dubbio lo sviluppo
della ricerca storica ha influito non poco sulle iniziative di ampia divulgazione,
ma le vere ragioni del duplice interesse di studiosi e comunicatori vanno
cercate in esigenze e processi storici di portata ben piu' ampia rispetto
al ristretto ambito degli archivi, delle biblioteche o degli stessi studi
televisivi. Due sono stati probabilmente i fattori principali, manifestatisi
in modo diverso a seconda dei luoghi e delle culture di riferimento: da
un lato il bisogno profondo di fare i conti con un nodo troppo a lungo
rimosso della storia d'Europa e, dall'altro, la straordinaria opportunita'
offerta dalla caduta del muro di Berlino di svincolarsi finalmente dagli
impedimenti ideologici e politici imposti da decenni di guerra fredda.
Infatti, per ragioni diverse, ne' i partiti comunisti - sia quelli al
potere nell'Est sia quelli schierati all'opposizione nei paesi dell'Ovest
-, ne' le democrazie occidentali avevano saputo trovare le motivazioni,
gli strumenti culturali e il coraggio per misurarsi tanto con gli aspetti
piu' distruttivi della politica di Hitler, quanto con la colpevole inerzia
mostrata dagli alleati durante la guerra di fronte al genocidio del popolo
ebraico e, di conseguenza, con le pagine meno limpide della vittoria sul
nazismo. Fatto sta che tutta l'Europa - la stessa Europa investita cinquant'anni
prima dal ciclone nazista, al di qua e al di la' del confine che l'aveva
spaccata in due per tanto tempo - e' stata posta inopinatamente di fronte
al luogo piu' oscuro e regressivo della sua storia recente, rivissuto
in forma virtuale ma in presa diretta attraverso le immagini autentiche
dei fatti di allora e le parole dei protagonisti. E tutto questo si compiva,
per una sorprendente coincidenza, negli stessi anni in cui stava crescendo
la consapevolezza degli effetti distruttivi per l'umanita' intera dello
sviluppo senza limiti affermatosi nel corso dei decenni precedenti. Cosi',
quel tanto di fiducia nel futuro che dopo i disastri della guerra e dello
sterminio vero era stata restituita dal benessere e dalla lunga pace della
seconda meta' del Novecento subiva ulteriori e pericolose incrinature
su
piu' fronti, con conseguenze che e' a tutt'oggi molto difficile valutare.
Per rimanere al nostro argomento, non e' agevole infatti misurare ad esempio
gli effetti della traduzione nei linguaggi dei vari media del discorso
sulle persecuzioni antiebraiche e sullo sterminio. Che cosa rimane e che
cosa si perde in quel passaggio? Qual e' il grado di conoscenza diffusa
che ne deriva, in particolare fra i piu' giovani? Quanto pesano la distanza
dai fatti e la virtualita' dei messaggi - si pensi alla programmazione
ripetuta e imposta senza alcuna cautela in televisione delle immagini
piu' orribili - nel produrre reazioni distratte e banalizzanti o effetti
di assuefazione? Quanto e come la Shoah, ricompresa e amalgamata nel flusso
ininterrotto e omnicomprensivo della comunicazione quotidiana, finisce
per perdere il suo
carattere di evento dirompente e irriducibile? Anche la scuola non puo'
sottrarsi a simili domande, tenuto conto sia della sua funzione specifica,
sia del suo essere parte, malgrado tutto, di un sistema educativo integrato,
coinvolto nel suo insieme nella trasmissione alle giovani generazioni
di informazioni e punti di vista diversi sulle grandi tragedie del Novecento.
Se guardiamo alla storia dell'istruzione pubblica negli ultimi vent'anni,
notiamo una prima fase di iniziative prese direttamente dagli insegnanti
piu' sensibili agli argomenti di attualita' - una volta si sarebbe parlato
di iniziative "dal basso" - e poi un intreccio non facile da descrivere
fra lavori in classe e sollecitazioni dall'alto, sui programmi di studio
- ad esempio l'insistenza del ministero sulla storia del Novecento -,
in occasione di concorsi, di viaggi sui luoghi della deportazione o di
altre scadenze particolari, fino all'istituzione della giornata della
memoria.
La decisione a partire dal 2000 di celebrare il 27 gennaio e' senza dubbio
servita a legittimare e raccogliere quanto gia' c'era, ma anche a stimolare
molto altro e soprattutto a dare un riconoscimento di universalita' alla
memoria dello sterminio nazista. L'applicazione concreta di tale decisione
non ha tuttavia risolto una ambiguita' di fondo. Il carattere inevitabilmente
rituale di quella scadenza annuale tende a tradursi troppo
spesso in mera ripetitivita': perche' le istituzioni non sanno spiegare
l'importanza e il significato della giornata con convinzione e autorevolezza
adeguate, perche' nelle scuole serpeggia un dissenso piu' o meno visibile
ma tutt'altro che irrilevante con il quale si ha raramente il coraggio
di confrontarsi in modo esplicito, perche' molti docenti non sanno come
comportarsi e per non sbagliare scelgono la passivita' o il basso profilo,
perche' gli insegnanti piu' attivi si trovano quasi sempre da soli a dover
riproporre ogni anno iniziative nuove su temi difficili e di grande impegno
emotivo e civile. A volte l'errore consiste pero' anche nel pretendere
troppo dai docenti o dai dirigenti scolastici, come se tutti - magari
anche i professori di matematica o di scienze - dovessero diventare esperti
di storia e di stermini. Quando invece sarebbe forse piu' produttivo che
intorno alla Shoah si sapessero formulare ogni anno alcuni, anche pochi,
interrogativi di fondo su cui chiamare a riflettere insegnanti e allievi,
chiedendo certo a chi puo' di mettere a disposizione le proprie competenze,
ma a tutti di partecipare a quella ricorrenza, diciamolo pure, a quel
rito mettendo in campo in primo luogo la propria umanita'.
E se venissero indicazioni diverse?
Proviamo ora a guardare alle esperienze degli ultimi anni dal punto di
vista di chi sui contenuti del 27 gennaio ha lavorato con i propri studenti,
magari anche prima che la giornata della memoria venisse istituita. Se
ci si chiedesse di indicare sulla base di quali criteri considerare particolarmente
riuscita una iniziativa presa a scuola, si potrebbe forse
dire cosi': quando i partecipanti - chi piu', chi meno - si siano sentiti
direttamente coinvolti e abbiano potuto confrontarsi con il problema delle
responsabilita', in primo luogo della propria.
Lascia infatti a dir poco perplessi la posizione, manifestata cosi' spesso
in questi anni, di chi fa di tutto per sottrarsi a qualsiasi discussione
su quanto possa pesare il fardello del passato che comunque siamo costretti
a
portarci dietro. Ad esempio ho accennato all'inizio a come sia stato importante
riconoscere e provare in modo indiscutibile le responsabilita' italiane
nella persecuzione e nella deportazione degli ebrei perche' la Shoah potesse
entrare a pieno titolo anche da noi nella memoria collettiva e aiutarci
a conoscere piu' a fondo la nostra storia e la nostra cultura. Viceversa
e' significativo come la pretesa di assolvere contro ogni evidenza
l'Italia da ogni colpa venga riproposta nel dibattito attuale con un accanimento
e una debolezza argomentativa tali da far pensare, piu' che a un vero
impegno nello studio del passato, alla difesa stretta di posizioni di
potere e interessi particolari ben radicati nella realta' di oggi, in
particolare nelle istituzioni e nel mondo della politica.
Sul versante opposto si e' pero' assistito troppo spesso in questi anni
a forme di coinvolgimento dei ragazzi, proposte per lo piu' con le migliori
intenzioni, che non esiterei a definire intimidatorie: quando si punta
tutto
e soltanto sulla risposta emotiva dell'interlocutore, cui si sottopongono
ad esempio immagini di morte che tolgono il fiato, senza fare del ragionamento
un mezzo per prendere le distanze e lenire la sofferenza; quando si operano
cortocircuiti forzati fra presente e passato, fra condizioni lontane e
diversissime e la propria realta' di oggi, senza rispettare l'autonomia
della storia; quando si pretende di catturare l'attenzione puntando con
vera prepotenza sul senso di colpa per delitti orribili commessi da altri.
Gli sbagli appena indicati ci insegnano quanto sia fuorviante e pericoloso
confondere la responsabilita' storica di una cultura, di un paese, che
puo' condizionare chi vi appartiene anche a distanza di molto tempo e
di cui e' doveroso essere consapevoli, con la responsabilita' personale
di atti direttamente compiuti.
Questo non significa tuttavia rinunciare a chiedersi se sia possibile
assumere in prima persona una qualche responsabilita' facendo qualcosa
di concreto, non solo in un futuro piu' o meno lontano, nella malaugurata
eventualita' che il male si ripresenti in forma dispiegata e quindi tanto
piu' difficile da combattere, ma ora, subito, di fronte a una minaccia
ancora impalpabile e difficilmente riconoscibile. Anche su questo le
esperienze degli ultimi anni hanno saputo dare indicazioni preziose, quanto
meno sui primi passi che si possono effettivamente compiere per riscuotersi
dagli effetti paralizzanti spesso indotti dall'enormita' delle questioni
in gioco.
Fra le cose da fare - in certi casi voler conoscere e' gia' fare - al
primo posto sta l'impegno ad apprendere anche se si tratta di argomenti
difficili e carichi di dolore, senza illudersi che la conoscenza possa
bastare da sola ' lo sappiamo ', ma con l'intenzione di misurarsi con
le sofferenze imposte ad altri come se almeno in parte fossero le nostre.
C'e' poi lo sforzo di aiutare gli altri - o, se si preferisce, di aiutarsi
reciprocamente - a
conoscere, rispettando pero' la loro sensibilita', il loro diritto di
non sapere ancora e di formulare obiezioni, anche le piu' imbarazzanti;
questo, nella consapevolezza che il patrimonio condiviso cresciuto nel
libero
confronto rappresenta ben di piu' della semplice somma di diversi punti
di vista.
Ma in cosa deve consistere quel patrimonio? In alcune, anche poche, verita'
verificate alla luce dei fatti, laddove quelle verita' - pur difficili
da accertare e da accettare - possono diventare un solido riferimento
per la propria vita. Le discussioni piu' appassionanti a scuola sono spesso
quelle che, prendendo spunto da atti di sopraffazione imposti dai persecutori
- anche solo una frase umiliante o una discriminazione sul posto di lavoro
- adeguatamente contestualizzati e di cui si sia verificata con cura la
verita' storica, conducono al confronto sulle cose da fare, su come gestire
in concreto i rapporti con gli altri, su quali responsabilita' sia giusto
e possibile assumere. Tutto questo costringe a fare i conti con l'esperienza
di ognuno - il filtro attraverso cui inevitabilmente guardiamo al passato
- e, insieme, a trattare anche gli eventi piu' tragici e distruttivi non
per se stessi ma come il confine, pur estremo e insondabile, della vita.
Nel tentare questi primi passi, deve insospettire l'unanimismo troppo
facile che tende a manifestarsi cosi' sovente - ma assai di rado fra i
ragazzi - quando si tratta dello sterminio degli ebrei. E non solo perche'
quell'atteggiamento puo' nascondere ignoranza, scarsa attenzione o esplicita
insofferenza. C'e' dell'altro. Se si scava sotto la superficie si scopre
a volte che il consenso e' solo apparente e dipende sin troppo dall'acquiescenza
passiva alle direttive dell'autorita'. C'e' da chiedersi: se dal ministero
o da qualche altra istanza scolastica venissero indicazioni diverse, in
nome per esempio della pacificazione fra le memorie contrapposte di fascisti
e antifascisti, di persecutori e perseguitati, come si comporterebbero
gli insegnanti, i genitori o gli allievi? E' gia' successo e gli esempi
che conosciamo non autorizzano alcun ottimismo.
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