Da NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA
IN CAMMINO, N. 456 del 15 maggio 2008
MARIA GRAZIA GIANNICHEDDA: NEL SEGNO DEI DIRITTI
Dal "Il manifesto" del 13 maggio 2008, col titolo: "Legge
180. Storie di cura senza custodia”
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Che la vita della riforma psichiatrica sarebbe stata dura era chiaro
a tutti quel 13 maggio di trent'anni fa, quando fu approvata. Il clima
politico era dei peggiori, con il corpo di Aldo Moro ritrovato da appena
cinque giorni in via Caetani e la nomina a ministro della sanita', nei
mesi successivi, del liberale Renato Altissimo, esponente del solo partito
che non aveva votato
la riforma sanitaria in cui "la 180" era confluita. La sfida
era chiudere i manicomi nel segno dei diritti.
La posta in gioco era la riforma, chiudere i manicomi nel segno dei diritti
e sostituirli con una cura senza custodia. "In fondo si tratta soltanto
dell'inserimento nella normativa sanitaria di principi gia' posti dalla
Costituzione", scriveva in quelle settimane Franco Basaglia, leader
indiscusso del composito movimento che aveva voluto la riforma: estromettere
dal sistema sanitario un'istituzione che imprigiona persone che nessun
giudice ha condannato, e che organizza una violenza strutturale particolarmente
odiosa perche' consumata su persone che soffrono, "e' un atto di
riparazione che la democrazia fa verso i cittadini".
Anche chiedere agli operatori psichiatrici di rispettare i diritti e la
dignita' delle persone che hanno in cura in fondo e' solo "ribadire
un elemento di civilta' che dovrebbe essere implicito", continuava
Basaglia: aveva ben chiaro non ci si poteva aspettare un'applicazione
di questa legge "lineare e priva di conflitti, date le caratteristiche
del terreno in cui interviene, dove
confluiscono pesanti pregiudizi culturali e interessi stratificati".
Chiusura dei manicomi nel segno dei diritti: su questo punto si sono sempre
concentrati gli attacchi contro "la 180", e ancora qui ha recentemente
puntato la coalizione che ha vinto le elezioni e che si propone di modificare
il Trattamento sanitario obbligatorio. Eppure, e' proprio questo nesso
tra chiusura dei manicomi e affermazione dei diritti che spiega l'inattesa
longevita' di questa riforma che ha potuto produrre un'innovazione colossale,
100.000 posti letto chiusi in quarant'anni e un sistema di servizi diffuso
in tutto il territorio nazionale.
La qualita' di questo nuovo sistema e' assai variabile, con differenze
profonde tra le regioni e all'interno della stessa regione, differenze
che spesso (ma non sempre) coincidono con quelle del sistema sanitario
generale. Su questa variabilita', che oggi e' insieme debolezza e forza
del sistema della salute mentale, torneremo piu' avanti. Prima vale pero'
la pena di soffermarsi su questo dato: solo l'ltalia e' riuscita finora
a realizzare un obiettivo che molti paesi perseguono, liberarsi da un
sistema di istituzioni che pesano troppo sulla spesa pubblica e producono
lungodegenti che impediscono i nuovi ingressi.
I costi sono stati infatti, e sono, la dannazione dei sistemi psichiatrici
pubblici nei paesi europei. Gli ospedali pubblici costano piu' di quelli
privati in quanto sono costretti a standard alti di rapporto tra personale
e posti letto, e questo per via delle leggi e dei controlli formali e
informali a cui invece il privato riesce piu' facilmente a sottrarsi,
come sa bene chiunque abbia tentato, anche nell'Italia di questi anni,
di guardare dentro una clinica psichiatrica privata. Inoltre, l'assistenza
psichiatrica nella "vecchia Europa" di oggi e' quasi sempre
mista, ovvero
gli ospedali psichiatrici convivono con i servizi territoriali ma siccome
la coperta e' stretta, se i posti letto in ospedale non diminuiscono i
servizi territoriali hanno meno risorse, il che rende piu' difficile ridurre
quell'ospedalizzazione di lungo periodo che produce cronicizzazione senza
speranza. Occorrono quindi scelte drastiche, che l'Italia ha fatto con
la riforma del '78 e ha confermato con le leggi finanziarie del '94 (primo
governo Berlusconi) e nel '98 (governo Prodi). Cosi', vista dai 40.000
posti letto in ospedale psichiatrico che la Francia non riesce a chiudere
ne' a ridurre, e dai 35.000 letti pubblici inglesi (qui fu Margaret Thatcher
a costringere gli ospedali psichiatrici a dimagrire), l'esperienza italiana
appare appunto un caso di innovazione compiuta, che apre una domanda:
com'e' stato possibile far abbandonare agli psichiatri italiani la loro
roccaforte? Quali elementi hanno creato quello zoccolo di consenso senza
il quale la riforma non avrebbe potuto diventare adulta?
Dobbiamo ritornare al nesso tra diritti e chiusura dei manicomi. Questo
elemento, a lungo percepito da molti, anche a sinistra, come una forzatura
ideologica, e' invece cio' che ha fatto la differenza. La sfida a mettere
insieme, nel servizio pubblico di massa, cura e diritti ha infatti
mobilitato le risorse professionali migliori, che hanno costruito modelli
organizzativi inediti, che poi sono quella cinquantina di sistemi di servizi
comunitari che oggi rappresentano l'eccellenza del nostro paese: sistemi
che funzionano sulle 24 ore, che non costringono la famiglia al ruolo
di manicomio domestico, rendono inutile l'ospedalizzazione di lungo periodo,
sanno aiutare, nella costruzione di una propria vita, anche chi sta male
in modo non episodico e magari, solo qualche chilometro piu' in la', e'
invece costretto a subire abbandono, esclusione, violenza.
Questi modelli "alti" sono anche punto di riferimento, di ricerca
e di formazione per molti che lavorano in sistemi inadeguati, e sono stati
soprattutto il riferimento su cui le associazioni di familiari e di utenti
hanno identificato e misurano le proprie aspettative. "Vogliamo per
noi una
normalita' che non costi il loro internamento" e' diventato, dopo
alcuni anni di scontri e confronti, lo slogan della grande maggioranza
di associazioni - che in questa e nelle prossime settimane hanno promosso
una quantita' di iniziative, segnate dalla speranza combattiva di tenere
aperto il tema della trasformazione della psichiatria e del welfare, ma
anche in
affanno per le troppe cose che non vanno, per i tradimenti, travisamenti,
trasformismi, e per la distanza a volte intollerabile tra le parole e
i comportamenti di tanti operatori e amministratori.
L'esito delle elezioni certo non aiuta, visto che una controriforma sta
nel programma dei vincitori: ma il potere vero, il potere di fare in campo
sanitario e sociale ormai da tempo ce l'hanno le Regioni. La Sardegna
pero' e' la sola che in questi anni ha avviato e persegue un programma
complessivo di cambiamento, mentre le altre regioni, pure quelle da sempre
amministrate dal centrosinistra, si sono limitate e si limitano a lasciar
fare: sia chi organizza servizi a misura dei pregiudizi tranquillizzanti
e degli interessi consolidati, sia chi trova mezzi e consenso per un progetto
di trasformazione degli assetti e delle culture.
Cosi', la grande innovazione che suscita interesse in tutto il mondo ha
prodotto finora meno di cio' che "la 180" vuole e consente,
e anche di cio' che hanno dimostrato possibile quelle Asl che, in tutte
le regioni e per le vie piu' diverse, l'hanno presa sul serio. Su queste
storie opposte e contigue occorrera'' tornare per capire cosa e' cambiato
nella possibilita' di vivere la follia, a trent'anni dalla legge di riforma
e a quarant'anni dall'uscita del libro - L'istituzione negata (Franco
Basaglia, Einaudi, 1968) - che ha rivelato alla societa' italiana la follia
segregata e offesa, la logica del manicomio e le vie per combatterla.
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