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LIVIO PEPINO: PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI
Il manifesto, 17 maggio 2008

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Dopo Napoli, Roma. Campi nomadi in fiamme. Uomini e donne che lanciano bottiglie molotov contro altri uomini e donne colpevoli di essere nati altrove e di essere malvestiti e straccioni. Forze di polizia in assetto di guerra che sgombrano campi, sotterranei e giardini, cacciando via (non si sa verso dove) una umanità dolente, solo perchè povera e straniera. E, al seguito della polizia, camion della nettezza urbana che caricano e avviano alla distruzione materassi sporchi, suppellettili rotte, vecchi elettrodomestici (cioè le case dei poveri). Il tutto mentre circolano bozze di disegni di legge in cui si criminalizza un popolo e si affida al carcere
(e ai suoi omologhi: i centri di detenzione, presto tali anche nel nome) la funzione esclusiva di discarica sociale. E cio' senza opposizione, senza proteste eclatanti, mentre in Parlamento si consuma il rito surreale di un palazzo pacificato.

Chiunque ha una esperienza anche minima di questioni sicuritarie sa che tutto questo non c'entra nulla con la "sicurezza" dei cittadini. La "sicurezza" a cui legittimamente aspiriamo tutti e' altro: una prospettiva di vita degna di essere vissuta per noi e per i nostri figli, vivere in un
ambiente accettabile e ospitale, sapere di non essere considerati rifiuti per il solo fatto di essere vecchi o malati. Se non cambierà questo scenario non saremo mai sicuri. La "sicurezza" e' una cosa terribilmente seria e delicata e come tale va affrontata. Sappiamo bene, e non da oggi, che le ragioni della paura e dell'inquietudine stanno anche nella diffusione di forme odiose di criminalità e di comportamenti devianti (degli autoctoni e degli stranieri); e sappiamo che, in ogni caso, a chi ha paura occorre dare risposte e non citare statistiche.

Ma cio' rappresenta l'inizio, non la fine, del discorso. E', in altri termini, la base su cui costruire con pazienza e senza demagogia risposte attendibili: un rilancio del welfare che tenga conto dell'esperienza e dei fallimenti - anche sull'immigrazione – dei paesi a noi vicini, dalla Francia all'Inghilterra; una politica alta, che si proponga di governare fenomeni sociali complessi e non di esorcizzarli seminando odio e paura; un'informazione che provi a rappresentare la complessità del reale e non a proporre false equazioni tra immigrazione e criminalità; politiche di integrazione rigorose lungimiranti; interventi di riqualificazione del territorio; e anche - certamente - politiche penali rinnovate, purchè dirette a reprimere in modo giusto i fatti e non a sanzionare il colore della pelle.
Non e' questo ciò che e' stato predicato in campagna elettorale (a destra e a sinistra) e che, ora, si realizza. Quel che si sta delineando e' la sostituzione della razionalità e della politica con la pratica dell'odio verso il diverso: oggi l'islamico o il rom, come ieri l'ebreo. Ciò produrrà solo una sicurezza temporanea e apparente, in attesa che si prepari il nuovo nemico da odiare e da distruggere. Fino a quando ci risveglieremo, sperando che non sia troppo tardi.
Lo ha scritto con lucida sintesi qualche decennio fa Michel Foucault evidenziando come questo non e' difesa sociale ma razzismo che, a sua volta, altro non e' che la selezione, personalmente tranquillizzante, tra chi può vivere e chi deve morire. I roghi dei campi nomadi sono le avvisaglie dei pogrom, definiti dai dizionari "sommosse popolari scatenate con l'appoggio o
con la tolleranza delle autorità contro le minoranze etniche o religiose".
Alla base di ogni pogrom c'e' la costruzione, abile e paziente, del "capro espiatorio" che, a sua volta, fa apparire naturale e spontanea la reazione che porta al rifiuto, all'annientamento, alla distruzione fisica dello stesso.
E' bene ricordarlo senza sottovalutazioni. La strumentalizzazione della "sicurezza" non è nuova. Senza memoria e senza opposizione intransigente un cupo passato può tornare.