Impegnarsi per realizzare una
città abitabile
Intervento del Cardinale Carlo Maria Martini al Convegno internazionale
La cittadinanza è terapeutica. Confronto sulle buone pratiche per la salute
mentale. Milano 15-17 aprile 2002
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Saluti
Saluto anzitutto cordialmente il dott. Benedetto Saraceno, l'On. Tiziana
Maiolo, e don Virginio Colmegna, rappresentanti dei tre enti che promuovono
queste giornate di convegno: l'Organizzazione Mondiale della Sanità, il Comune
di Milano e la Caritas Ambrosiana.
Si intende mettere a tema la salute mentale e suscitare un confronto sulle buone
pratiche della psichiatria con un respiro mondiale e dunque attenti alle ricchezze
e alle peculiarità dei diversi Paesi, guardando alla vita delle nostre città
che nella metropoli milanese possono riconoscersi, valorizzando l'esperienza
di realtà che si inseriscono nella rete della collaborazione sulla psichiatria
con un'attenzione specifica ai più poveri.
Saluto di cuore tutti i relatori, gli esperti già presenti al tavolo e gli esperti
che prenderanno la parola in questi tre giorni, con particolare gratitudine
per coloro che provengono da più lontano.
Saluto tutti i presenti, operatori della psichiatria, familiari, volontari che
prestano la loro opera accanto ai sofferenti psichici, cittadini attenti alle
problematiche connesse con la salute mentale.
Introduzione
Scorrendo il programma del Convegno, sono colpito dall'intreccio di numerose
tematiche, di differenti culture e stili comunicativi, di varie competenze che
esso esprime e rappresenta.
Contenuti prettamente clinici - i diversi metodi della cura, le riflessioni
su cosa può dirsi terapeuticamente efficace, i contesti e le persone che devono
interagire per affrontare al meglio la malattia -si intrecciano con temi che
più diffusamente riguardano il benessere dei singoli e l'armonia di una collettività.
Intendete parlare infatti di cittadinanza, di diritti che vanno riconosciuti
a ciascuno, di "buone pratiche", utilizzando una espressione che sottolinea
non solo l'efficacia terapeutica, ma anche la bontà di un agire carico di tensione
etica, con l'intento di favorire uno stato di bene per la persona che non si
compone solo dell'assenza di malattia mentale.
Risuonano poi nei titoli dei vari interventi i richiami alle situazioni socio-politiche
segnate dal conflitto, alla multiculturalità, al rispetto dell'infanzia e dell'adolescenza,
alla produzione di buone leggi per la salute mentale, al superamento di schemi
rigidi che chiudono la malattia nei grandi istituti o in catene e costrizioni
piuttosto che consentire ai malati di abitare la loro città.
Si intrecciano inoltre le potenzialità incalcolabili della cultura, della tradizione
di cura, della riflessione di almeno 12 Paesi del mondo, rappresentati da diverse
figure professionali e non professionali giunte a questo convegno per raccontare
come ci si fa custodi della salute mentale nel proprio territorio. Traspare
l'intenzione di valorizzare il racconto competente e la capacità di ascoltare
con calma, superando la fatica della lingua, cogliendo gli elementi di novità
e le sfumature del pensiero che sottende l'agire, cogliendo i rimandi all'operare
quotidiano sia di chi racconta che di chi ascolta.
C'è infine l'intreccio di ruoli e funzioni che compongono la rete territoriale
per la salute mentale, qui rappresentati da una platea numerosa e motivata:
operatori del sociale, clinici, familiari, volontari, cittadini.
Si dispiega, insomma, ai miei occhi un'enorme complessità e la colgo con piacere
come uno dei messaggi centrali che state comunicando. L'ottica della complessità
permette di avvertire il fascino delle tematiche che si riferiscono alla salute
della mente, e quindi di continuare a cercare per capire, per fare, per cambiare.
Tale ottica permette anche di non cedere alla tentazione del semplicismo di
fronte al dramma della sofferenza mentale, talvolta così lacerante per la persona,
per la famiglia, per il contesto comunitario. Se non ci disponiamo ad essere
realmente ricercatori del senso di ciò che la follia suscita in noi, rischiamo
di enucleare solo problemi superficiali, di separare ed espellere, di semplificare
una materia per sua natura ricca di contraddizioni.
Un episodio evangelico
Desiderando offrire alcune riflessioni introduttive a partire da quanto
mi è più familiare, cioè la Bibbia, vorrei richiamare un episodio narrato nel
Vangelo di Marco (Mc 5, 1-20). Un uomo della città di Gerasa dai comportamenti
bizzarri, indubbiamente inquietanti ed autoaggressivi (percuoteva se stesso
con delle pietre) era stato relegato dalla sua comunità in un luogo di morte.
Non poteva che vagare tra le tombe, lontano da esseri vivi, quasi a rappresentare
quel potenziale di rabbia e di stranezza che tutti vivevano come mortifero e
che per questo poteva, se pure illusoriamente, essere collocato lontano dalla
vita ordinaria.
Gesù si lascia avvicinare da questo strano personaggio angosciato ed impetuoso
e gli chiede il nome, potremmo dire che comincia dal tentativo di riconoscimento
della sua identità personale, non fuggendo dalla tensione che si genera nell'incontro
con la sofferenza dell'altro.
"Il mio nome è Legione perché siamo molti", risponde l'uomo rivelando una scissione
che non gli permettere di esprimersi in modo chiaro ed accettato da tutti, che
non gli consente il gusto della relazione. Gesù sta con lui e fa qualcosa per
lui: questo trasforma la sua vita.
Viene in mente l'utilizzo corretto e competente dello strumento del colloquio,
ovvero di quello specifico momento clinico nel quale lo psicoterapeuta, lo psichiatra,
lo psicologo, l'educatore, l'infermiere, l'assistente sociale, il terapista
della riabilitazione instaurano una relazione personale con la persona sofferente
e sanno partire dal suo nome per costruire con lui un progetto di cura che tenga
conto della sua singolarità, non principalmente dei modelli teorici, delle linee
guida, delle scuole di pensiero.
Nel colloquio avviene l'incontro tra almeno due persone che si svelano reciprocamente,
l'una col bisogno di stare bene, l'altra col bisogno di capire ed aiutare. E'
il luogo dove colui che si prende cura, affina la capacità di "prescrivere se
stesso come farmaco", mettendosi in gioco con i suoi pensieri ed i suoi sentimenti.
Ci si pone accanto alla persona sofferente come possibili "custodi del segreto"
nell'ascolto del mondo intimo dell'altro, lacerato da blocchi e contraddizioni,
ma anche incredibilmente provocatorio nei confronti del curante. Nel colloquio,
ciascuna delle persone coinvolte è come portata ad entrare nel mistero dell'altro
- perché anche il malato mentale comprende molte cose intime dell'operatore
che si avvicina a lui - e non può abdicare alla questione del senso.
Le domande più autentiche di un malato psichico, anche se spesso inespresse
o negate, non sono diverse da quelle di ciascuno: una casa, degli amici, affetti
esclusivi, un lavoro, il denaro per vivere, il divertimento, il diritto di abitare
una città, la possibilità di professare un credo religioso, la libertà di parlare
ed esprimersi. Le sue fatiche sono invece molto più grandi rispetto a quelle
di chi non soffre: le idee possono essere bizzarre e non comprese, le risposte
affettive inadeguate, le reazioni inaspettate, la voce per chiedere e rivendicare
i propri diritti molto debole. L'uomo di Gerasa desidera andare verso Gesù,
ma le sue parole risuonano come una minaccia e non come una richiesta di aiuto.
Tante persone affette da disagio psichico riescono a formulare così impulsivamente
il loro bisogno di cura e di vicinanza da risultare aggressivi agli occhi degli
altri.
Eppure c'è in questa aggressività una domanda e una espressione di disagio profondo,
che un grande conoscitore del cuore umano esprime così: "Un laccio interno,
prodottosi dalla parte sensitiva dell'animo, avvolge tutto ciò che altrimenti
scatta in libertà, e si muove e opera senza impacci… L'uomo non padroneggia
più la sua vita" (Guardini).
E un altro grande scrutatore del disagio intimo della persona qualificava questa
situazione così: "Situazione tremenda, quella di una coscienza che abbia subito,
fin dall'infanzia, una compressione tale che tutta l'elasticità dell'anima e
tutta l'energia della libertà non riescano più a scrollarla" (Kierkegaard)
Nessuno di noi sarebbe disposto a perdere l'energia della libertà, perché è
la connotazione più alta del nostro essere uomini. Eppure nella follia esiste
una forza che può "avvolgere tutto ciò che altrimenti scatta in libertà?".
Ci chiediamo se possa esprimere libertà una persona che abbia la mente, il cuore,
le relazioni sociali, le azioni quotidiane pervase dalla malattia. L'esperienza
della vita insegna che il rapporto quotidiano, accogliente, affettuoso con chi
soffre di disturbo psichico può aiutare gradualmente ad affrontare questa domanda,
ad averne meno paura, fino a scoprire che nelle forme della sofferenza psichica
- l'ansia, la depressione, l'eccitazione, l'ossessività, il delirio - è contenuto
un ampliamento di noi stessi. Il sofferente psichico è costretto dalla sua malattia
a fare i conti con la fragilità che tutti portiamo dentro: egli in un certo
senso ci insegna a dare peso alla tristezza e alla gioia, alla noia e all'attivismo
esagerato, all'eccesso di lavoro e al desiderio di averne almeno uno, alla famiglia
vissuta come assillante e al senso di abbandono.
Egli conosce le tinte forti del vivere, sperimenta le amplificazioni di una
fatica esistenziale che è anche la nostra.
La questione della libertà si pone in modo bruciante per una città, per un territorio,
quando essa diventa teatro di un fatto sconcertante, drammatico, dove una persona
innocente viene uccisa per un gesto che sembra compiuto da una persona psichicamente
malata, ma in un contesto che tutti continuano a definire "normale", nel quale
non si riescono a delineare, almeno in una prima e sommaria rappresentazione
mentale, quali siano i limiti tra mancanza di controllo del pensiero o degli
impulsi e libertà di compiere il male. Si genera tra la gente un comprensibile
sconcerto, si preferisce fare diagnosi di pazzia piuttosto che dover ammettere
che un grande potenziale di conflittualità esasperata, di violenza, di cultura
della morte è collocata proprio in mezzo a noi, nelle pieghe della quotidianità.
La guarigione dalla cittadinanza
L'uomo di Gerasa viene guarito non solo attraverso la relazione personale,
ma anche grazie ad un'azione sociale, che l'evangelista racconta con tratti
pittoreschi: Gesù ordina agli spiriti immondi di uscire da quell'uomo e gli
spiriti stessi lo supplicano di non scacciarli dal paese, così che vengono fatti
entrare in una mandria di duemila porci e immediatamente l'intera mandria si
precipita nel mare.
La guarigione profonda dell'uomo chiede un prezzo - duemila animali sono una
ricchezza non indifferente - a quella stessa società civile che non ha saputo
accoglierlo, perché il benessere di una persona nella collettività è un fatto
che investe tutti, che chiede tempo, energie, risorse, attenzione per il suo
reinserimento sociale.
Se da un lato si attesta una crescente vulnerabilità psichica dell'uomo contemporaneo,
come rivelano le percentuali in aumento delle persone con malattie psicosomatiche
che si rivolgono al medico di base, dall'altra oggi più di ieri è difficile
"socializzare" una malattia, particolarmente una malattia mentale. Il contesto
sociale che può molto per contribuire alla cura, diventa spesso luogo ostile,
dove si annidano pregiudizi, paure, disinformazione.
Siamo chiamati ad immaginare e quindi a realizzare nella concretezza il profilo
di una città abitabile, dove non ci si senta indotti a vivere la paura dell'altro
ma se mai la gioia dell'incontro e il desiderio di sperimentare relazioni positive.
Un'attenta educazione al senso del bene comune ed al valore della partecipazione
sociale può contribuire in modo decisivo alla costruzione di una metropoli da
abitare, dove la cittadinanza, intesa come appartenenza attiva alla città, sia
terapeutica perché fonte di benessere per tutti.
Una città vivibile è anche una città coraggiosa, che affronta le sfide della
presenza multietnica e multireligiosa, che riflette sulle vite clandestine,
sulle vite senza dimora, sulle vite condotte per la strada e segnate dall'abuso
di alcool e sostanze, sulle vite spezzate da una solitudine molto profonda,
sulle vite che sfuggono da paesi di orribile guerra come a vite che invocano
istanze di giustizia, di intelligente solidarietà, di speranza in un futuro
possibile.
Ripreso dal sito www.diocesi.milano.it.
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