Per chi suona la campanella
Rivista del Volontariato numero 8-9/2004 Mensile di informazione a
cura della FIVOL Fondazione Italiana per il Volontariato.
Scritto da http://www.integrazionescolastica.it/article/341
il 08/09/2004.
Sostegno, il rispetto delle leggi ha i minuti contati
(indice informazioni)
"La scuola è fondamentale non solo per la crescita degli
individui, ma per la costruzione del tessuto sociale. Ragazzi disabili
o semplicemente problematici, rom, immigrati. sono molti i "soggetti deboli"
che possono
trovare in essa gli strumenti per crescere e inserirsi positivamente nella
società, o possono invece incappare in un'esperienza negativa che li emarginerà
definitivamente. È in grado di aiutarli?".
"Per chi suona la campanella"
a cura di Magda Mazzei
Don Milani diceva: «La scuola ha un problema solo. I ragazzi che perde»,
pensando ad una scuola dove, a prescindere il punto di partenza, era importante
il punto di arrivo. E oggi quanti sono i ragazzi che rischiano di non
arrivare al traguardo o di essere abbandonati a se stessi in percorsi
troppo lontani dal resto della classe?
Sono oltre sei milioni gli studenti che questo settembre entreranno in
classe. Un piccolo popolo in cammino sul percorso del sapere. A tutti
sarà assegnato un banco, per alcuni sarà disponibile solo l'ultima fila.
Anche l'applicazione della legge 53, meglio conosciuta come "riforma Moratti",
entrerà in classe portando alcune modifiche che riguarderanno la scuola
dell'infanzia, la scuola primaria (ex scuola elementare) e il primo anno
di scuola media. Gli anticipi delle iscrizioni al primo anno della scuola
dell'infanzia e primaria, l'introduzione della seconda lingua straniera
e l'ampliamento dell'inglese e delle attività di informatica, l'
introduzione del tutor, l'introduzione del portfolio, sono solo alcuni
cambiamenti previsti dalla legge.
Molte attese e aspettative e forse anche paure: la riforma dovrà fare
i conti con il grande cambiamento avvenuto qualche anno fa all'interno
del sistema scolastico: l'assegnazione dell'autonomia didattica alle scuole,
quindi i cambiamenti e gli interventi strutturali che la riforma Moratti
prevede dovranno coniugarsi con le disponibilità economiche che le singole
scuole hanno.
Un quadro complesso, da molti criticato, dove è prevedibile che lo sforzo
più grande sia richiesto, all'inizio, proprio ai docenti, affiancati dai
genitori, impegnati per il bene degli alunni.
Ma non tutti gli alunni partono a pari condizioni. E questo è evidente.
Ciò che non è chiaro è il modo in cui la scuola prevede di intervenire,
il percorso che prevede di attivare per quegli alunni che partono svantaggiati,
affinché possano giungere l'arrivo il più possibile a pari condizioni.
Integrazione e non solo inserimento
È moderatamente ottimista Salvatore Nocera, vicepresidente della Fish
(Federazione italiana superamento handicap) e membro dell'Osservatorio
Aipd (Associazione italiana persone down), che dice:«La normativa sull'
integrazione scolastica non è stata toccata dalla legge 53 e dai decreti
applicativi. I problemi potranno crearsi a livello finanziario e a livello
di applicazione pratica della riforma. Problemi prevedibili legati alla
riforma sono: l'anticipo dell'età di iscrizione (questo per i ragazzi
con handicap è un problema, perché in genere i nostri ragazzi non anticipano,
anzi rimangono un po' di più a scuola, e questo ai fini dell'integrazione
crea un divario più forte con gli altri);e la scelta della scuola superiore,
che viene richiesta a 13 anni e per i nostri ragazzi è un problema perché
rischiano di andare tutti alla formazione professionale». Quindi l'ottimismo
di Nocera deriva dalla constatazione che la normativa - che non è stata
toccata - permette di garantire la qualità dell'integrazione, che però
è minacciata dai tagli alla spesa pubblica che riducono il numero e la
qualità dei servizi a discapito dell'integrazione Per quanto riguarda
le risorse di personale che verranno impegnate per l' alunno disabile,
la riforma non dice nulla circa gli insegnanti di sostegno,
rispetto al ruolo o alla professionalità, ma la legge finanziaria del
2002, che regola la riforma Moratti, prevede un contenimento del personale
della scuola. Questa riduzione degli insegnanti può determinare la fine
di una serie di esperienze, volte alla realizzazione di percorsi personalizzati,
con particolare attenzione alle situazioni difficili. E anche se per legge
non sono esplicitati i cambiamenti, non mancano le
preoccupazioni. Li espone Nicola Quirico, presidente della Fadis (Federazione
associazioni di docenti per l'integrazione scolastica): «Noi come associazione
professionale manteniamo come riferimento la normativa
vigente e chiediamo che vengano mantenute le garanzie di poter effettuare
percorsi di qualità. Per poter fare dell'integrazione scolastica, e non
semplici inserimenti, servono alcune condizioni strutturali: è necessario
avere un numero adeguato di ore di sostegno, che riteniamo debba essere
nel rapporto 1 a 2 (un insegnante di sostegno ogni due alunni disabili),
con una seria professionalità di chi svolge questo incarico, con un'adeguata
formazione (che negli anni è passata da 1100 ore alle attuali 400), con
un numero adeguato di alunni per classe, considerando standard 20/25 alunni
per classe in situazioni di omogeneità».
Non solo handicap
Ma per quanto siano fondate le preoccupazioni relative all'integrazione
dell'alunno con handicap, bisogna dire che come categoria è alquanto ascoltata
nel mondo della scuola, forte di un percorso di integrazione avviato da
oltre 30 anni. Numericamente parliamo di oltre 138 mila alunni, che corrispondo
indicativamente al 2% della popolazione scolastica. A loro la legge richiede
una certificazione dell'handicap, che giustifichi la presenza dell'insegnante
di sostegno. Ma accanto all'alunno con disabilità accertata, nella scuola
è sempre più presente l'alunno con difficoltà di apprendimento, ma che
tecnicamente non può essere classificato come portatore di handicap. Parliamo
di una popolazione scolastica valutata attorno al 10-12 % di quella totale
(e perciò 5-6 volte l'handicap riconosciuto) formata da casi di bordeline,
svantaggio psicologico da turbe familiari, ragazzi che hanno subito violenze,
ragazzi ex tossicodipendenti, ragazzi con dislessia,
disgrafia, discalculia, disfasia, problemi di carattere ambientale.
Già la legge quadro del '92 stabiliva che si intende persona handicappata
colui che a causa di un evento traumatico abbia una minorazione stabilizzata
o progressiva. In seguito la finanziaria del 2002 ha stabilito che il
sostegno è dato solo alle persone con certificato handicap e non ad altri
casi di difficoltà di apprendimento. Così le Asl, che prima certificavano
questi casi di svantaggio socio-ambientale e psicologico con difficoltà
di apprendimento, ma non riconducibili direttamente all' handicap, adesso
non li certificano più e quindi, di fatto, si avrà una riduzione degli
insegnanti di sostegno.
Ma chi seguirà in classe questa fetta consistente di alunni con problemi?
Probabilmente solo la buona volontà degli insegnanti di classe, che però
difficilmente potranno "concentrarsi" su di loro.
Quelli che lasciano
Gli ultimi dati, riferiti all'anno scolastico 2001/2002, forniti dal Ministero
sulla dispersione scolastica parlano di un 0,08% alle elementari (leggermente
più alto in termini centesimali dell'anno precedente) e di uno
0,23% alle medie, con punte massime al sud (0,70% in Calabria). Per la
maggior parte dei casi si tratta alunni nomadi le cui famiglie hanno deciso
di trasferirsi.
Gli zingari in Italia sono circa 150.000 (ma molti altri sono i nomadi
di passaggio), di cui oltre un terzo (oltre 60.000) sono bambini in età
scolare. Nel 2000 la partecipazione è stata del 15% alle scuole medie
e del
30% alle elementari. I ragazzi nomadi vanno a scuola in virtù dei progetti
di accoglienza e integrazione a loro rivolti, che vengono realizzati dalle
scuole. I progetti vivono di stanziamenti sociali, di convenzioni che
partono da comuni, province o regioni. In questo modo vengono pagati gli
operatori, che fanno da mediatori tra la famiglia e la scuola, funzione
fondamentale per avvicinare gli zingari all'istituzione.
Ma nonostante gli zingari debbano andare a scuola come tutti i bambini,
in virtù della Convezione nazionale sui diritti dell'infanzia e in virtù
del fatto che la Costituzione Italiana che lo prevede, si rimanda ai singoli
progetti la loro istruzione e il loro inserimento. «Si va verso una scuola
che differenzia molto gli alunni. Se non vengono supportate, spronate
e controllate dallo Stato, le scuole ad un certo punto sono quasi più
contente che questi bambini non frequentino», dichiara Renata Paolucci,
Responsabile nazionale settore scuola dell'Opera Nomadi. «Oggi, dove esistono
progetti, i ragazzi nomadi frequentano fino alla terza media, qualche
volta proseguono soprattutto con corsi di formazione professionale, in
media per altri due
anni, ma il tutto è sempre a carattere locale: non esiste un progetto
nazionale di inserimento».
E quelli venuti da lontano
Anche gli alunni stranieri, ormai presenti in maniera massiccia nelle
nostre aule (quasi 233mila nel 2003), sono stati dimenticati nei programmi
e nelle riforme ministeriali, demandando anche in questo caso a progetti
locali. In realtà la legge Moratti prevede l'istituzione di mediatori
ma attualmente i decreti attuativi non hanno specificato il come. Eppure
un'attenzione nazionale ci dovrebbe essere per tutti questi alunni acquisiti.
Sono alunni spesso con difficoltà di apprendimento per problemi di lingua,
con difficoltà di adattamento ambientale, con situazioni familiari non
sempre facili.
La scuola si presenta a loro come istituzione rigida, poco sensibile alle
loro difficoltà. Per esempio le informazioni alle famiglie vengono date
sempre in italiano, siano esse legate all'iscrizione o avvisi degli
insegnanti. Manca, come prassi istituzionale, la presenza di un protocollo
di accoglienza, dove la scuola definisce il percorso che intende attuare
per realizzare l'integrazione dell'alunno straniero. La mancanza di fondi,
e quindi di personale, obbligano ad un inserimento di getto dell'alunno,
che per molti docenti dovrebbe avvenire in maniera morbida e graduale.
Il lavoro di conoscenza e di educazione interculturale nella classe spesso
è limitato ad una conoscenza folcloristica del paese straniero dell'alunno
inserito. E gli insegnanti non hanno la formazione e gli strumenti per
affrontare le nuove situazioni e spesso ciò che fanno è dettato dalla
loro buona volontà.
Approfondimento:
Il contesto che aiuta a crescere
Intervista a Lucia De Anna, docente di Pedagogia Speciale e direttore
del Dipartimento di Scienza della formazione dell'attività motoria e dello
sport all'Iusm, Istituto universitario di scienze motorie.
Qual è secondo lei la funzione della scuola rispetto l'attivazione
di processi d'integrazione, e la riforma Moratti assolve a tale compito?
«La scuola deve venire incontro ai bisogni speciali dei diversi, che possono
essere riferiti ad una situazione di disabilità o di diversa cultura,
di diversa mentalità o di svantaggio socio culturale. Mi sembra che la
riforma Moratti non abbia costruito niente per venire incontro a queste
diversità: il modello proposto dalla riforma non tiene conto delle differenze,
delle diversità.
La mia preoccupazione è che la riforma vada nella direzione di dare risposte
su misura, che poi è anche il discorso di fondo della Moratti: la scuola
su misura. Ebbene, secondo me la scuola su misura può avere anche dei
rischi, perché questo presuppone che io debba dare risposta direttamente
alla
persona, senza creare un contesto educativo, senza lavorare sul contesto.
Lavoro sulle persone, mi concentro sul singolo, che sono comunque cose
importanti, ma credo che la scuola debba partire essenzialmente dalla
costruzione del contesto, per poi dare eventualmente risposte anche al
singolo».
In che misura l'educazione avviene tramite il contesto?
«L'apprendimento è qualcosa che si sviluppa nella relazione, e la
relazione deve avvenire non tra pari nel gruppi, ma tra chi sa e chi non
sa. Se non si crea un contesto che aiuta ad apprendere, che aiuta a costruire
le
relazioni, che aiuta la comunicazione, che motiva all'apprendimento, l'
insegnate crea tante scatole chiuse che non interagiscono tra di loro,
e quindi non crea integrazione».
Quali dovrebbero essere le strategie che la scuola mette in atto al
fine di creare integrazione?
«Le risposte sono ad affrontare sul piano metodologico didattico, soprattutto
nella scuola secondaria, che è sempre stata più carente rispetto alla
primaria. Infatti nella scuola secondaria la competenza metodologica
didattica è scavalcata dal disciplinarismo: il contenuto prende il sopravvento
sul modo in cui si insegnano, si pensa che basta sapere per insegnare,
e questo non è vero. Proprio perché ci troviamo di fronte ad una
diversa capacità di apprendere, perché i soggetti sono diversi, ci sono
anche diverse modalità di apprendere. Quindi l'insegnante (ovviamente
insieme alla scuola) deve costruire un insegnamento individualizzato,
ma non individuale, ossia deve proporre i saperi con la consapevolezza
che ci sono diverse possibilità di modalità di apprendimento. Deve cioè
costruire delle situazioni che mettano le persone nella condizione di
apprendere secondo le proprie capacità e conoscenze, e non secondo le
proprie mancanze».
In quali tappe ciò dovrebbe avvenire?
«L'insegnante deve prima di tutto avere un quadro di conoscenza preciso
delle situazioni che si trovo di fronte, e poi su questo costruire e organizzare
il proprio lavoro didattico. Bisogna costruire degli
apprendimenti in modo che tutti siano messi nella stessa condizione di
poterlo fare. L'insegnante deve costruire il saper in modo che l'altro
apprenda. Questo in parte si riesce già a fare in molte scuole elementari
e materne, molto meno dalla scuola media in poi».
E il fatto che questo processo avvenga maggiormente alle elementari
piuttosto che dalle medie in poi, è dovuto forse al fatto che la maestra
sta più tempo con l'alunno anziché il professore?
«Questo è un altro punto che la riforma Moratti ha sottovaluto: il tempo
pieno come tempo utile e necessario all'integrazione. Esistono tempi diversi
nell'apprendimento, c'è chi ha bisogno di tempi più lunghi o chi ha bisogno
di maggiori riflessioni. Il tempo pieno assolve anche a questo compito:
rispettare i tempi di tutti».
Sintetizziamo i limiti della riforma «La riforma è troppo legata a standard
individuali. Il rischio è che quando
si entra in un percorso difficilmente se ne esce: le classi di livello,
che la riforma introduce, nascono in funzione delle mancanze degli alunni
e non delle potenzialità, che invece sono dimenticate. Manca l'input a
lavorare più sui contesti formativi, un contesto che conosca i soggetti
nella propria individualità, quindi anche con modalità diverse di apprendere.
E infine c'è la mancanza di un intervento pedagogico didattico, ossia
non c'è riferimento alle strategie che l'insegnante debba mettere in atto
per venire incontro ai bisogni di tutti e di ciascuno».
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