In ricordo di Flavio Cocanari
Giampiero Griffo European disability forum
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In questi mesi ho sentito spesso “Flavio non c’è più…”.
Una frase che con tristezza constatava un vuoto, un’assenza. E certo Flavio
ci manca. D’altronde è vero anche che lui è sempre presente, non solo
con noi oggi che lo ricordiamo, ma nei valori che lui praticava. Cercherò
pertanto di ricordarcelo partendo proprio da quello che credo sia la sua
eredità viva e impegnativa per chi la voglia raccogliere, all’interno
del sindacato, ma non solo. Lo ricorderò segnalando i valori a cui Flavio
faceva riferimento.
Il primo ricordo è quello del sindacato unitario, l’unità che lui ha sempre
perseguito. Parliamo del sindacato di Pierre Carniti, il sindacato che
si apriva alla società, che andava oltre la fabbrica e cercava di rappresentare
i nuovi emarginati, gli esclusi ed i discriminati, tutti coloro che in
diverse maniere non erano rappresentati o lo erano solo parzialmente:
i disoccupati, gli immigrati, le donne, le persone con disabilità.
A Carniti si deve la scelta di nominare un responsabile-rappresentante
dei lavoratori disabili della CISL, così come avveniva per la CGIL e la
UIL. Flavio è stato nominato da Carniti. C’era però una specificità che
Carniti aveva colto subito nominando Falvio. Flavio infatti era un rappresentante
del sindacato e nello stesso tempo una persona disabile. Non è cosa di
poco conto. Ogni incontro era un incontro tra pari e Flavio sapeva creare
quell’intimità che solo persone che si capiscono nel profondo possono
vivere. Confrontarsi con una persona che vive una analoga condizione di
discriminazione rappresenta un grande passo verso la rappresentanza reale
che il sindacato deve sviluppare.
Ricordo che in quegli anni (siamo alla fine degli anni ‘70 ed all’inizio
degli anni ’80), l’unità sindacale che era stata forte e convinta negli
anni precedenti, aveva iniziato ad avere alti e bassi. Flavio è sempre
stato attento al valore dell’unità sindacale. Per lui il sindacato era
“solo” unitario. Ci sono stati momenti in cui tale unità è venuta a mancare,
ma nell’ambito della disabilità si riusciva quasi sempre ad essere unitari,
comunque. E non era un fatto di poco conto per le stesse associazioni
di persone con disabilità, perché avere un’unica posizione sindacale favoriva
la possibilità di avere un confronto più semplice e di fare azioni di
pressione, di lobbying a vari livelli.
Nello stesso tempo Flavio era sindacalista, un aggettivo che lui scriveva
con la S maiuscola, un aggettivo che gli apparteneva perché aveva capito
come il sindacato fosse un organismo complesso: le categorie, le vertenze,
gli accordi. Flavio era sempre pronto a trovare uno spazio di contrattualità,
uno terreno di dialogo che diventava accordo, che diventava impegno e
quell’accordo era un elemento per tutelare lavoratori e fare un passo
avanti nel campo dei diritti. Il suo lavoro di sindacalista ha dissodato
territori vasti e disparati. Cercherò quindi di rammentare, almeno dal
mio punto di vista, quali siano le eredità che noi abbiamo ricevuto dall’attività
di Flavio.
La prima eredità, credo che sia quella sul lavoro. È stata una persona
che ha pilotato la lunga stagione della riforma della legge 482/68 attraverso
una serie di attività che non erano, appunto, solo quella del Parlamento
e dell’iter legislativo, ma anche la stesura dei contratti. Io ricordo
che era l’unico nel mondo della rappresentanza delle persone con disabilità
che mi riempiva di contratti; “abbiamo fatto un accordo con questo, siamo
riusciti a strappare quest’altro, guarda che quella legge si può anche
applicare perché nella contrattazione nazionale abbiamo introdotto una
clausola…”.
Io ho lavorato all’emeroteca della sede della Biblioteca nazionale di
Napoli, quindi conosco come all’interno delle tipologie di legislazioni
i contratti, cioè gli accordi fra le parti sociali, vengano considerati
la legislazione di minor peso. Per chi lavora nel sindacato, è l’attività
fatta di sociale, di sociale per eccellenza: è fatta di accordi all’interno
di un’azienda, frutto di lotte dei lavoratori, di accordi nazionali di
un gruppo di aziende, per rispettare diritti di lavoratori. E’ una sorta
di cristallizzazioni di rapporti di potere frutto di lotte a volte sanguinose,
comunque capaci di strappare impegni dagli imprenditori all’inizio impensabili.
Di questo andavano a parlare i lavoratori con disabilità, a porgli nuove
forme di discriminazione e di limitazione di diritti. Flavio incontrava
lavoratori con le più disparate diversità: era attento non solo a coloro
che avevano diverse mobilità, che si orientavano senza leggere e senza
parlare, ma anche ai dializzati, a tutti quei lavoratori che vivevano
condizioni particolari di salute e che spesso non venivano tutelati.
Il percorso per arrivare all’articolo 33 della legge 104/92, per esempio,
quello che ha introdotto i permessi retribuiti ai lavoratori con disabilità
ed ai lavoratori con persone con disabilità gravi in famiglia, è stato
il risultato di un lavoro che era già stato contrattazione, che era già
diventato strumento di dibattito a livello nazionale grazie a Flavio.
Questa volontà di contrattare a volte però ci trovava su sponde diverse,
come per l’art. 14 della legge Biagi, che tutti conosciamo. Era un punto
che a volte ci ha trovati in grande conflitto; il movimento delle persone
con disabilità italiano non accettava di essere ghettizzato in posti predefiniti,
indipendentemente dalla volontà dei lavoratori. Per noi è chiaro che il
governo con questa proposta di incrementare le commesse alle cooperative
di tipo B in cambio dell’assunzione di persone con disabilità, produce
uno scambio perverso, con una proposta che a noi suona come un contentino
di bassa lega: una proposta tutta politica perché assegna la competenza
e la responsabilità alle cooperative di sporcarsi le mani, permettendo
alle imprese di riproporre in forme medievali la logica della discriminazione.
L’azienda discrimina e le cooperative supportano questa scelta di esclusione.
Oggi che si parla di “collocamento mirato”, di lavoratore disabile produttivo,
è questa una scelta tutta ideologica, della peggiore ideologia mortificatoria,
della peggiore cultura della segregazione. Non è questo il modo di sostenere
politiche in favore delle cooperative di tipo B: infatti ben diverse dovrebbero
essere le politiche per lo sviluppo per la cooperazione di tipo B che
oggi è in crisi a livello nazionale. Questo settore avrebbe bisogno di
crediti agevolati, di finanziamenti su progetti, di sviluppo delle professionalità,
etc. perché è una azienda che vuole dimostrare che la cooperazione tra
lavoratori può produrre imprese sociali. Con Flavio queste discussioni
erano appassionanti, emergevano e diventavano consapevolezza.
Un altro tema centrale del lavoro di Flavio era quello della valutazione
delle persone con disabilità nell’ambito lavorativo: i famosi “nuovi criteri
di accertamento”. Nel tempo avevamo sviluppato una riflessione che coinvolgeva
le Università (quella di Padova, quella di Bologna) su come rivedere i
criteri tradizionali: significava dare una nuova valutazione delle persone
con disabilità, non più partendo da un approccio medico e risarcitorio.
Come superare l’idea (e la pratica) che la persona con disabilità dovesse
essere valutata in base a percentuali di invalidità.
Flavio era convinto che bisognasse superare il livello medico della disabilità,
che è quello ancora presente nella testa degli imprenditori, nella testa
di tante persone, che vedono il lavoratore disabile come una persona incapace,
che non può fare, che non è produttivo.
In realtà lo stigma che colpisce queste persone è prima di tutto uno stigma
culturale e occorre far percepire come una valutazione delle capacità
delle persone non debba basarsi su quello che non c’è, ma su quello che
c’è e cosa quello che c’è spesso significa; io mi muovo in sedia a rotelle,
c’è uno scivolo su questo palco che mi permette di salirci e so che la
CISL di questa regione si sta dotando finalmente di una struttura che
permetta a tutti i lavoratori di partecipare e quindi farà l’ascensore,
renderà accessibile la gran parte degli uffici. Ebbene la limitazione
alla mia mobilità non deriva dalla mia condizione di poliomielitico agli
arti inferiori, bensì deriva dall’ambiente costruito. Io non sono disabile
perché non posso camminare, ma perché l’ambiente che non include le mie
caratteristiche mi rende disabile, mi impedisce di fare le cose nella
maniera in cui le so fare.
Nella trasformazione dei nuovi criteri di accertamento c’è quello che
poi è stato codificato dall’Organizzazione mondiale della sanità nell’ICF
(International classification of functioning disability and health) a
livello internazionale, che Flavio si augurava venisse applicato in Italia.
L’ICF è una trasformazione culturale dell’approccio alle persone con disabilità.
La mia disabilità infatti dipende dalla società che non mi include. Io
non sono portatore di handicap, ma ricevitore di handicap.
Qui rientra anche il discorso dell’art. 24 della legge 328/2000, articolo
che spesso si dimentica. E’ un impegno straordinario che nella legge 328
è stato posto al centro dell’attenzione: quello della riformulazione dei
criteri e della ridefinizione dei benefici legati alle condizioni delle
persone con disabilità. Noi siamo tra quelli che sostengono che oggi bisogna
tutelare i più gravi; è un percorso che come FISH abbiamo fatto e che
trovava in Flavio un’attenzione particolare. La riflessione partiva da
un idea condivisa, che il welfare dovesse essere riformato: universalistico
sì, ma non per dare a tutti la stessa cosa, perché non è vero che tutti
sono uguali. Infatti anche all’interno del mondo della disabilità vi sono
le grandi condizioni di dipendenza, le disabilità gravi, le condizioni
che necessitano forti forme di tutela dei diritti umani.
Questi due temi, nuovi criteri di accertamento e riforma delle provvidenze
economiche, si coniugavano anche con un altro aspetto: quello di combattere
l’idea che il dissesto delle casse dello Stato derivasse dalle persone
disabili, che venivano tutti accomunati nella categorie dei falsi invalidi,
percettori di benefici indebiti, e quindi della stretta nei criteri di
accertamento.
Anche nell’ultima finanziaria si sta discutendo di ritrasformare i criteri
di accertamento e di assegnare le competenze in materia alle commissioni
mediche ospedaliere militari, o a quelle dell’INPS, tagliano il rapporto
essenziale con il territorio di vita.
L’impostazione è sempre la stessa: le persone con disabilità sono un costo
e solo un costo e che quindi ogni intervento verso di loro va affrontato
in termini monetari di riduzione della spesa pubblica: tema attualissimo
e mai sciolto, all’ordine del giorno del dibattito odierno.
Con Flavio il tema della non autosufficienza era diventato un tema del
sindacato e giustamente lo ricordava Sandro, quando diceva che l’autosufficienza
significa non solo anzianità, e quindi tutela di coloro che hanno già
dato alla società e che devono essere tutelati perché hanno condotto una
vita di dignità e devono continuare a condurla, ma anche per coloro la
cui vita dipende dall’autosufficienza e che per una logica perversa vengono
considerati, appunto, dal mondo del lavoro, dalle imprese come coloro
che passano dalla formazione alla pensione, mentre invece hanno tanto
da dare e da costruire.
In questo senso l’attenzione ai diritti, alle politiche, alle trasformazioni
aveva avuto un nuovo slancio con la consapevolezza che la legge 104/92
aveva rappresentato una rottura con la visione culturale tradizionale.
Oggi la legislazione strabica italiana risulta chiara con un doppio livello:
la 118/71 da un lato, basata sulla vecchia concezione della disabilità,
che è ferma ancora ad idee che si concentrano sulla malattia, sulla incapacità,
su quello che manca; dall’altro la 104/92 che imponeva un nuovo paradigma
culturale, che sottolineava che le persone con disabilità erano cittadini
ed in quanto tali godevano di diritti, dall’autonomia alla necessità dell’integrazione
sociale.
Qui vi è un altro tema caro a Flavio, il ricco dibattito a livello internazionale
che considerava le persone con disabilità e i loro problemi nell’ambito
del quadro dei diritti umani. Non più solo la non applicazione di norme,
bensì la continua violazione dei diritti umani: questo consentiva un collegamento
diretto anche con le battaglie che a livello internazionale conduce il
movimento delle persone con disabilità.
L’European Disability Forum, all’interno del quale rappresento il Consiglio
nazionale italiano, Disabled Peoples’ International di cui sono presidente
regionale, e tutte le associazioni internazionali parlano di diritti umani.
Questo nuovo approccio trovava Flavio attento a questa riflessione; Il
movimento mondiale considera le persone con disabilità discriminate e
senza pari opportunità. Con Flavio questa riflessione aveva avuto un momento
ed uno spessore particolare. Sulla non discriminazione era inizialmente
diffidente, la riteneva un qualcosa avente a che fare con gli individui,
una relazione privata di una persona che deve denunciare una discriminazione
e perciò era perplesso. Infatti sosteneva: “no, noi lavoriamo per un impegno
della società”. Nella discussione con lui sottolineavamo che si parlava
anche della società perché pari opportunità significa poi politiche pubbliche,
responsabilità di governo, responsabilità con le quali si risponde all’altro
tema, quello dell’ambiente, del modo con cui la società accoglie le persone
e noi dobbiamo tutelare la personalizzazione da un lato e la socializzazione
della politica della disabilità dall’altro, Alla fine questo dibattito
aveva prodotto quegli effetti, quello che tu dicevi Sandro ricordavi con
il lavoro che aveva fatto con Capodarco. Infatti il D.Lgs 216 di applicazione
della direttiva 78/2000 in Italia, è ancora poco conosciuto; nel mondo
sindacale non è nemmeno utilizzato eppure, tanto per fare un esempio,
noi pensiamo che una persona disabile che viene mandata ad una cooperativa
di tipo B senza il suo consenso nell'ambito di un accordo in base all’art.
14 legge Biagi, possa essere impugnato come un trattamento discriminatorio
e quindi quella legge possa servire da strumento deterrente per bloccare
anche le percezioni negative che vengono a noi attribuite. E l’attenzione
all’Europa, al nuovo dibattito internazionale aveva trovato in Flavio
un attore significativo, prima appunto la partecipazione della CISL “dei
disabili” alla CES, poi la comprensione che anche a livello internazionale
il sindacato e quindi la CES avesse un ruolo e Flavio era tra quelli convinti
che questo ruolo dovesse essere giocato e sviluppato.
L’European Disability Forum (io rappresento l’Italia nel board dell’EDF)
con la CES abbiamo lavorato in maniera continua; nel 2003 abbiamo organizzato
un convegno (c’era anche Sandro) a Salonicco in cui era stato preso un
impegno importante; il sindacato aveva deciso di sostenere la richiesta
di una direttiva europea sulla non discriminazione in materia di disabilità
e nello stesso tempo era disponibile a costruire un’alleanza concreta
e continua con il movimento delle persone con disabilità.
È importante che dal sindacato italiano, dall’esperienza e dall’interesse
che Flavio ha sempre avuto in questo ambito (il seminario di Ostia è stato
un ricordo oltre che un organizzazione politicamente valida) ritorni una
richiesta alla CES di riprendere questa tematica, perché non è una tematica
di poco conto. E’ la stessa intuizione di un sindacato di tutti, di un
alleanza tra i discriminati e gli esclusi che ha ispirato tutto il lavoro
di Flavio.
In Europa sono 45 milioni le persone con disabilità e con l’ingresso dei
nuovi 10 paesi nuovi problemi si intrecciano: sarà forse più difficile
parlare di welfare; c’è il problema del costo del lavoro molto basso in
questi paesi; so che il sindacato ha organizzato in Slovenia un dibattito
in questo senso.
Noi siamo preoccupati dell’abbassamento del livello dell’attenzione alle
politiche sociali che l’ingresso di questi nuovi paesi può comportare
nella percezione che l’Europa ha delle tematiche riguardanti l’insieme
del sociale e delle persone con disabilità in particolare. Una nuova Europa
presuppone un’attenzione forte del sindacato a queste tematiche. Non è
possibile dimenticare la chiusura italiana, che anche noi riteniamo vergognosa,
dell’anno 2003.
Pensate che in Europa noi parliamo del modello sociale e tutti quelli
che sono venuti alla chiusura in Italia ci hanno detto “ma come, voi chiudete
l’anno in un ospedale?”.
Le tematiche internazionali si intrecciano con quella nazionale e con
Flavio avevamo sviluppato l’idea che forse queste tematiche internazionali
dovessero trovare un sindacato più attento.
Oggi io vi posso dire che il movimento mondiale delle persone con disabilità
è riuscito a far approvare dall’ONU la decisione di scrivere una Convenzione,
cioè una legge internazionale sui diritti delle persone con disabilità
che forse sarà approvata l’anno prossimo; è un valore aggiunto importante
anche per l’Italia, è importante sapere come le dinamiche internazionali
oggi influenzano le dinamiche nazionali e non solo quelle più vicine (la
legislazione europea determina il 30% della legislazione italiana), ma
anche quelle che impegnano i governi a rispettare principi condivisi a
livello internazionale.
Il giorno della chisura dell’anno 2003 è stata l’ultima volta che ho visto
Flavio. Lui arrivò come al solito in punta di piedi, silenzioso e schivo.
Io ero dietro a tutti, in fondo alla sala e perciò ho avuto la fortuna
di incontrarlo (nei saloni lui si metteva sempre in un angolino). Parlandogli
ritornò sulla sua grande preoccupazione, sviluppatasi nel tempo, e che
era diventata una sua angoscia per certi versi, per le politiche di questo
governo che aveva cambiato totalmente le carte in tavola. Non c’era più
continuità con i precedenti governi. C’era stata la prima conferenza nazionale
sull’handicap a Roma, c’erano degli impegni che sono stati cancellati
perché assunti dal governo precedente; è stato cancellato tutto quello
che c’era prima per cambiare le regole. Il governo Berlusconi aveva organizzato
una seconda conferenza, ma anche le conclusioni di questa sono rimaste
lettera morta. Anche noi eravamo preoccupati allo stesso livello suo:
questo cambiamento di rotta forse non era di un governo, ma forse di una
società che cominciava ad essere un po’ meno attenta a come le dinamiche
colpiscano con maniera forte fasce sociali che sono più fragili dal punto
di vista delle tutele ma che allo stesso tempo sono quelle che potrebbero
aiutare meglio a percepire che il mondo potrebbe essere costruito in maniera
diversa.
Ricordo anche la sua riservatezza, il suo modo di essere sempre presente
ma di non parlare mai della sua condizione di salute di non riuscire nemmeno
a verbalizzarla (io sapevo che era talassemico, però in tutti i 20-25
anni di lavoro con lui mai una volta che avesse accennato a questa sua
condizione: Flavio era un testimone straordinario dell’idea di dignità
della persona).
È un tema difficile da affrontare perché è un tema di cui non parla nessuno
ma che tutti conoscono; perché quando si tutela un lavoratore non si tutelano
solo i suoi diritti, le leggi, i contratti e quindi la sua condizione,
ma si tutela qualcosa in più che è appunto quella parte che appartiene
ai diritti umani e Flavio aveva con grande capacità culturale percepito
questo tema e il dialogo che da persona con disabilità apriva con persone
con disabilità era legato alla partecipazione, alla valorizzazione delle
risorse, a quel tema che noi esprimiamo con uno slogan (è stato lo slogan
dell’anno scorso, ma è anche lo slogan che noi riportiamo sempre) “niente
su di noi senza di noi”; in Flavio era molto presente. Era sempre attento
ad ascoltare, ad indirizzare, ad accogliere lavoratori da tutta Italia
che gli portavano problemi, gli ponevano l’esigenza di tutelare diritti,
ma che in fondo, chiedevano rispetto delle loro dignità.
L’ultimo tema che vorrei ricordare di Flavio è quello della sua dolcezza
e della sua leggerezza; fare il politico con leggerezza è difficile, spesso
il politico è un arrogante, è uno che si impone è uno che usa il potere
con le leve che ha. Flavio era un mite, ma nello stesso tempo era uno
che sapeva usare le leve del potere, ma le usava con leggerezza e questa
leggerezza aveva a che fare col suo carattere da un lato, ma anche con
la sua capacità di percepire che il lavoro che facevamo non era un lavoro
fatto per acquisire più potere.
Forse apparteniamo ad un mondo che non so se esista ancora, io mi auguro
di sì: è il mondo di quelli che fanno le cose per passione. Flavio era
uno che lo faceva con passione e la sua passione non era scalfibile perciò
quando lui pensava di cambiare il mondo (perché cambiare la condizione
delle persone con disabilità era cambiare il mondo), lo faceva con quella
leggerezza, ma allo stesso tempo, con quella consapevolezza che ci attraversava:
mentre cambiavamo il mondo o cercavamo di cambiarlo, cambiavamo anche
noi stessi e quindi temi come quello del dialogo, della relazione, della
pace, dei principi sui cui costruire un mondo diverso cambiavano anche
noi stessi.
Questo ricordo mi commuove e perciò piango, piango un amico, un compagno
di lotte, una persona che sento ancora vivo e presente, una persona le
cui battaglie, i cui valori devono continuare a vivere: questo è il più
bel ricordo che possiamo avere di Flavio.
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