“La liberta non sta nello
scegliere tra bianco e nero,
ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta"
Theodor W. Adorno.
Il rumore dell’integrazione
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Recentemente mi è capitato di trovarmi in pizzeria con
i miei vecchi compagni delle medie. Una di quelle rimpatriate degne del
miglior Carlo Verdone.
Naturalmente, dopo un prevedibile imbarazzo iniziale, presto tutti cominciavano
a sciogliersi, lasciandosi coinvolgere in poco tempo dalla voglia di raccontare
piccoli. nostalgici aneddoti sui tempi passati. Stefano, ai tempi il primo
della classe, e ovviamente anche il più carino tra tutti i miei compagni,
prese presto possesso del palcoscenico iniziando a raccontare di quando
la nostra professoressa di matematica, nel momento in cui usciva dall’aula,
lo chiamava a rapporto alla lavagna, dicendogli di tracciare una linea
con il gessetto in modo da divederla in due parti uguali, segnando da
una parte i buoni e dall’altra i cattivi, in modo da tenere ordine tra
noi alunni dispettosi. Mentre Stefano gesticolava e sbracciava quasi fosse
illuminato da un occhio di bue e principe di chissà quale strano proscenio,
ero attraversato da un pensiero insistente, apparso dal nulla come un’illuminazione
repentina. La famosa lampadina. Questa storia di una divisione tra buoni
e cattivi proprio non mi piaceva. Era un ricordo che dovevo aver completamente
rimosso, perché una sensazione di rigetto del tutto nuova impegnava d’acchito
la mia mente. Stefano continuava nella sua performance, ma io ero
ormai troppo preso dai miei pensieri e presto mi sono isolato senza più
ascoltare quello che stava raccontando tra piroette giochi di seduzione
verbale.
Un mondo, il nostro, che vive di divisioni. Tutti soggetti ad un’intervista
doppia modello Le Iene di Italia Uno, siamo sempre obbligati a
muoverci tra poli opposti.
Immagino il mondo come un grande “supermercato dei valori” e noi siamo
i prodotti divisi tra gli scaffali. Tutto è diviso in categorie di facile
consumo che tra loro si oppongono. Un abbecedario pronto per l’uso e a
basso costo, grazie al quale chiunque può classificare tutto e tutti.
Così siamo dolci o salati, buoni o cattivi, belli o brutti, destra o sinistra,
bianchi o neri, eterosessuali o omosessuali, normodotati o diversabili.
Ognuno con il suo carrello, ognuno con il suo contesto.
Mi si potrebbe dire: “Imprudente, mi sa che tu bevi un po’ troppo Brancamenta
con ghiaccio, ultimamente”. Non discuto, questo senza dubbio può essere
vero. Sicuramente il discorso può sembrare strano, ma lasciate che finisca.
I supermercati sono luoghi in cui tutto viene catalogato in categorie
per agevolare una scelta rapida del cliente. Ordinare tutto in gruppi
divisi permette all’acquirente di muoversi con disinvoltura, sicuro di
non sbagliarsi mai. Le classificazioni in genere servono a questo in fondo:
a dare sicurezza. In questo semplice modo abbiamo sempre la situazione
sotto controllo, nulla può sfuggire. Se le cose sono A o B, Vero o Falso
è perché noi da sempre sentiamo la necessità di creare categorie che ci
proteggano le spalle da eventuali errori di valutazione. Un modo immediato
per far scivolare via ogni responsabilità sul mancato funzionamento di
qualcosa. Così ci muoviamo sempre sicuri di cosa andiamo a “comprare”,
con automatismi che lentamente si stanno insinuando nel nostro codice
genetico. La cosa aberrante in tutto questo discorso è che, appunto, è
la stessa persona umana che viene classificata in queste categorie. Ma
quando si parla di persona sento la necessità di sottolineare che bisogna
parlare non di categorie ma di ruoli. C’è una grossa differenza tra le
due cose.
“Troppa birra Imprudente, ti conviene non esagerare!”, okay, ma fatemi
continuare, alla fine vi sembrerà tutto più chiaro. Spero.
Prendiamo come esempio la famiglia, specchio del sistema della nostra
società. Una famiglia è composta di padre, madre, figli. Ognuno ha un
suo ruolo specifico all’interno di questo sistema, così da muoversi liberamente.
Ma il padre non può avere solo quel ruolo: egli, infatti, ogni giorno
si reca anche in ufficio, va a lavorare, suda per la sua famiglia. Lo
stesso la madre: va ad insegnare, lavora con gli alunni, suda per la famiglia.
Non c’è nessuna classificazione, nessuna categoria che separi in buoni
e cattivi, ma solo e unicamente dei ruoli. Più ruoli per ogni singola
persona. Un discorso di questo tipo è valido anche per la nostra società.
Niente ci obbliga a dividere, separare, sezionare, classificare. La nostra
società è composta di persone, queste ne sono il centro e la quintessenza;
tutti, con i loro molteplici ruoli, partecipano alla sua costruzione,
sia essa buona o cattiva.
Un simile discorso deve essere perno di ogni dibattito sull’integrazione.
Questa parola, a cui io sono molto legato, non va d’accordo con nessun
tipo di classificazione mediante categorie. Integrazione significa, per
evidenti ragioni, superamento di ogni separazione. La “e” al posto della
“o”. Dolce “e” salato, buoni “e” cattivi, bianchi “e” neri, senza esclusione
di uno o dell’altro, tutti nello stesso carrello. Il mondo come un supermercato
in cui tutto è posto su un unico scaffale. L’integrazione fa a pugni con
le categorie, perché è, per sua stessa natura, una mescolanza di ruoli,
di culture, di religioni: un mondo che non separa la persona normodotata
da quella diversabile è un mondo per Tutti, e non per tutti. Il diversabile
è una persona con i suoi ruoli esattamente come quella normodotata, perché
separarle in due categorie differenti? È una cosa, questa, che avviene
in ogni campo, partendo dalle leggi per finire alla più semplice burocrazia.
Senza categorie i diritti e i doveri diventano gli stessi per tutti.
Si apre a nostri occhi, alla luce di questa prospettiva, un sistema estremamente
dinamico, fatto di scambi, mescolamenti, scivolamenti. L’integrazione
deve necessariamente, per sua stessa costituzione, essere rumorosa, perché
è una macchina in continuo movimento; e in questa macchina voglio vivere,
perché solo così possiamo avere un mondo che sia per buoni e cattivi,
belli e brutti, normodotati e diversabili.
“Imprudente sei ancora dei nostri?”, mi hanno svegliato così dai miei
pensieri. Stefano se ne era andato presto, io non mi ero accorto di nulla.
La pizza era finita, la birra anche. Mi toccava anche pagare il conto.
Pazienza.
Me ne sono andato mentre, per un caso strano ma curioso e divertente,
allo stereo il pizzaiolo aveva messo a massimo volume Né buoni né cattivi
di Vasco Rossi. Nulla è a caso, o no?
Claudio Imprudente presidente del Centro Documentazione Handicap
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