Gli auguri del giorno dopo...
Raffaele Iosa
http://www.edscuola.it/archivio/handicap/buon_natale_da_ariosa_berosa.htm
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Continuano a chiedermi perché non scrivo o vado
così poco in giro a parlare. Amici, supporter, spioni aspettano
e sospettano. Il mio articolino sul tempo che non è denaro gira
ancora tra le scuole, a mesi dalla pubblicazione. Intanto telefonano per
convegni, i più fantasiosi. Dico quasi sempre no.
Ai quattro gatti cui può interessare, rispondo che parlo poco
perché ho poco da dire sul poco di interessante che a me pare accada,
mentre il mondo vero dell'educazione chiederebbe altri pensieri.
Per questo poco che accade bastano gli articoli che www.scuolaoggi.org
pubblica quotidianamente. Bravi amici che cercano sulla scarsa cronaca
di dare senso ad un malessere diffuso e comprensibile. Ogni tanto qualche
mosca cocchiera suggerisce domestiche scorciatoie se un decreto sembra
provocare bizzarre catastrofi nel tran tran della scuola. Ogni tanto sento
urticanti grida di dolore.
Certo, si può ragionare se questi anni lasceranno segni (devastazioni
o miracoli). Io penso, con più preoccupazione, invece, che c'è
altro nel mondo vero da pensare, ben più denso e profetico, per
il quale sarebbe urgente agire per l'educazione, un altro adesso troppo
nascosto e soffocato.
Per evitare, però, la critica di attendismo o di isolamento che
mi sento affettuosamente rivolta, penso che per me sia ora di riprendere
a dire di più. Mi sono quindi impegnato a scrivere un po' di "frammenti
per il vicino futuro", su quelle che io considero le priorità
vere per l'educazione.
Vorrei infatti soprattutto parlare di educazione, non di sola scuola,
chè sarebbe visione riduttiva.
Come, per fare un primissimo elenco, sul tramonto dell'infanzia, sulla
nausea verso il riformismo illuminista, sul desiderio diffuso di egualitarismo,
sulla precarietà di una certa globalizzazione che disorienta i
progetti esistenziali e su quei due terzi degli umani del pianeta che
stanno diventando vuoti a perdere, sull'obesità cognitiva massmediale
che devasta ogni ermeneutica, sul nuovissimo disagio della middle class,
sulla cosiddetta soi disant società della conoscenza ma senza coscienza,
sulla necessità di passare dall'educazione fast a quella slow;
e poi parlando di scuola-scuola: sulla crisi dei dirigenti ormai sergenti,
sull'agonia dell'autonomia scolastica, sulla necessità di essere
senza vergogna conservatori anche se progressisti, sull'opportunità
di rileggere Annah Harendt e non solo Bruner. Ma anche, in modo più
ameno, sul piacere di non festeggiare Halloween, di ridurre le fotocopie,
di recitare a voce alta le poesie, di abolire l'open day e chiamarlo "scuola
aperta", perché la nostra scuola non è quella di Fonzie.
E così via.
C'è bisogno di pensare altro e alto, di tornare alla politica non
solo della scuola, ma dell'educazione complessiva, di ripensare al patto
tra società adulta e società dei bambini e giovani che in
questo ventennio si è per me frantumato in un mare di adultismi,
spot, pedagogismi narcisi. Alla paura di futuro che domina l'attuale presente
adulto (quasi terrore) proporre un pensiero "borghigiano" (grazie,
De Rita) che ci aiuti a riprendere la nostra città della vita come
polis e agorà quasi perdute. Nei non luoghi del presente progettare
nuove piazze, nuove aule, nuovi sguardi. Si può se si va oltre
il rincorrersi di un decennale traumatico quasi flop delle politiche educative,
sociali e scolastiche.
Forse soddisferò qualche amico, forse ne dispiacerò altri.
Vedremo.
Però la verissima ragione per la quale ho scritto molto poco quest'anno
è tutta un'altra: provate a visitare per più volte in un
anno un orfanotrofio bielorusso e capirete il mio quasi silenzio.
Qualcuno ricorderà un mio articolo, giusto un anno fa, per dare
un Natale normale ad una bambina orfana bielorussa. Un articolo notturno,
da melodramma (un dramma vero) su una bambina che aspettavamo a casa in
affido temporaneo per Natale e che la burocrazia internazionale rischiava
di non far partire. Quella bambina, poi, è arrivata, anche per
merito di decine di e.mail che ho ricevuto.
Lei è arrivata, ma poi siamo partiti noi con lei, per lidi prima
ignoti. E' arrivata così tanto che tra un po' diventerà
nostra figlia adottiva. Mentre scrivo, dorme nella sua cameretta per il
suo secondo Natale con noi. Cerchiamo di amarla come Ettore che alza al
cielo il figlio, la sera prima della battaglia finale con Achille, lo
bene-dice e gli augura "tu sarai migliore di me".
Io e mia moglie desideriamo che la sua vita adulta sia migliore della
nostra. Se la merita, dal profondo della sua storia di abbandono amaro,
uguale a milioni di altri bambini del mondo.
Da qui in poi, però, su di lei farò silenzio. Racconterò,
forse, tra qualche anno cosa vuol dire per due cinquantenni in serena
pre-senescenza farsi adottare (così è successo) da una bambina
bielorussa di 11 anni, e tornare nella giostra della vita interiore ad
amare gratis.
E' invece del suo orfanotrofio che qui voglio parlare appassionatamente.
Innamorarsi di un orfanotrofio bielorusso può succedere solo ad
un educatore che da giovane è stato comunista, voleva cambiare
il mondo partendo dai poveri, e va per questo quattro volte in sette mesi
in una terra quasi ex-comunista, che ha 60.000 bambini chiusi in istituti
grigiastri, sub figli di non famiglie annegate nella vodka e nel nulla
opaco. L'Assenzio di Degas.
Molti sanno appena, ma pochi conoscono davvero il fatto che ogni anno
vengono in Italia circa 30.000 bambini e ragazzi bielorussi. La ragione
è ormai ventennale, nasce dalla catastrofe nucleare di Chernobyl,
dalla necessità di offrire soggiorni salute per ammortizzare il
Cesio e altre schifezze.
Più di metà di questi bambini/ragazzi proviene dagli 86
internat (orfanotrofi) della Bielorussia, aggiungendo al nucleare un drammatico
quadro sociale che complica ed alimenta la solidarietà.
Sono coinvolte associazioni le più varie, da gruppi spontanei di
quartiere, a parrocchie, ad associazioni ecologiche. Un turbinare di visti,
documenti, viaggi aerei all'alba, valige, pacchi e lettere durante l'anno.
Soggiorni in Italia da uno a cinque mesi all'anno. Bombe di sentimenti.
Un fenomeno di solidarietà capillare e diffuso, un po' pazzo, che
continua da anni senza scemare. Quale strana Italia ho incontrato per
merito di questa bambina!
E strana anche la Bielorussia! La crisi lì è doppia: Chernobyl
e la fine del comunismo sovietico, un mix assolutamente complicato. Dal
quale la Bielorussia fatica ad uscire, schiacciata dalla nostalgia del
passato (tra i migliori dell'ex impero), l'isolamento internazionale,
la difficilissima transizione verso un futuro economico e sociale ancora
incerto.
Il fatto è che la Bielorussia è poco abitata, non ha materie
prime, ma ha un popolo orgoglioso.
Un paese di passaggio eppure isolato, con il doppio di laureati dell'Italia
ma poco lavoro vero.
Un dostoievskiano desiderio di rimanere puri in un comunismo appassito
e la giustificata paura di essere inghiottiti dalla globalizzazione più
selvaggia. Che pagano, appunto, i bambini con una crisi delle famiglie
e della società civile che produce più alcoolismo che ottimismo.
Eppure la Bielorussia non sta male come altri paesi, c'è di peggio
all'est e al sud dell'Italia.
Questa relativa povertà e l'auto-isolamento la rendono un paese
purtroppo antipatico alla Comunità europea, difficile da relazionarsi,
con alti e bassi nei sui rapporti internazionali.
Un paese complesso, doloroso, e insieme orgoglioso. Il contrario dell'Italia,
paese allegro e caldo, ma spesso poco serio. Tra questi due opposti paesi,
è nato un filo rosso di amicizia (per merito dei bambini) che non
ha eguali al mondo e nessun precedente. Questo imbarazza gli studiosi,
che vedono strano questo pendolarismo affettivo, e i politici interdetti
tra la simpatia per questo volontariato contagioso ed un paese politico
che resta lontano e che si fatica ad aiutare.
Per la verità i bielorussi che non bevono sono simpatici, cordiali,
sentimentali, ma come tutti i poveri intelligenti sentono le stigmate
della loro condizioni, con perverse oscillazioni tra il chiedere troppo
e il voler far da soli. Non è vero che i poveri tra di loro sono
solidali. E' più complicato.
A Pasqua di quest'anno, quindi, sulle tracce della nostra bambina tornata
nel suo (?) Internat dopo il soggiorno da noi a Ravenna, ci siamo trovati
all'aeroporto di Minsk in un pomeriggio brutto e piovoso. All'uscita della
dogana, c'era lei che ci aspettava, con nostra stuporosa sorpresa.
E poi, trecento chilometri di strade semideserte e di boschi di betulle
(in russo: berosa) ci hanno portato in una cittadona grigia, tra pozzanghere
e case fatiscenti. Lì c'è l'Internat.
Le parole sono strane. Abito in una via che si chiama ariosa, di cognome
si sa come faccio, l'albero tradizionale bielorusso è la betulla-berosa.
C'è un "osa" che unisce un mistero.
Da quel viaggio è partita una passione travolgente, perfino esagerata,
per 200 bambini e ragazzi (da 6 a 18 anni) ammassati in un internat che
vive a malapena, con insegnanti ed educatori brave persone in difficoltà
economica, organizzativa, sociale. In un internat che ha una ringhiera
che lo isola dalla città, ma con un buco "metafora della fuga"
particolarmente amato dai bambini.
Che fare? Pensare solo a lei? Ma via, sarebbe stato un furto!
Lavoriamo, io e mia moglie, nella piccola associazione della mia città
che aiuta da anni i bambini bielorussi, svolgendo attività strane,
fino ad un anno fa per me incomprensibili. Come andare alla Coop a raccogliere
viveri, e mandare TIR di 20 tonnellate. Come fare i baristi per un'estate
intera presso un museo per tirare su qualche euro e comprare letti, materassi,
comodini, carte da parati.
Ma non solo questo. Portare nell'orfanotrofio della grigia cittadona copie
perfette di mosaici ravennati e di ceramiche faentine (fatte dalle nostre
straordinarie scuole!), costruirci sopra un evento culturale che apre
l'internat alla città e donare alle camere dei bambini un po' di
bello.
Il bello della solidarietà è la solidarietà del bello,
non solo dell'utile. Famiglie ravennati di tranquilli cinquantenni in
autobus per 4.000 chilometri a festeggiare con questi nostri bambini,
nell'internat senza nome (non ha neppure un nome!) della grigia cittadona
bielorussa.
E poi l'ardua scoperta dell'associazionismo! Un mondo molto più
teso, conflittuale, disarmonico della politica politicante (sempre fredda),
ma anche grandioso, miracoloso, imprevedibile, caldo.
E adesso, il colpo gobbo. Lavorare per cambiare l'orfanotrofio cercando
di inventare case famiglia, partendo dal miglioramento delle condizioni
di vita attuale e da prime strutture di autogoverno. Stiamo lavorando
per realizzare, nell'internat, primi "laboratori cooperativi"
per dare maggiore autonomia ed autoaffermazione ai ragazzi, altrimenti
lasciati a bighellonare nel tempo libero che è lì un tempo
pericolosamente vuoto. Un'impresa in una regione dove è difficile
vivere per una famiglia normale, figuriamoci le reti di solidarietà
cooperativa orizzontale!
Grande, grandissima fatica a trovare finanziamenti regionali ed europei.
Quasi già tutti bloccati dagli "esperti" in progetti-businnes.
Leggete e regalate per Natale "La mia guerra all'indifferenza"
di Jean Selim Kanaan, giovane dirigente ONU ammazzato quest'anno a Bagdad,
e capirete tutto.
Grande rispetto, in ogni caso, per questo paese pieno di contraddizioni,
ma se stesso comunque, con una storia costellata di morti, di glorie appassite,
di un futuro da inventare ogni mattina.
Adesso, in questo paese, ci sono spinte politiche a chiudere queste esperienze
di solidarietà. Si teme (si dice) che il contatto con l'Europa
occidentale porti il virus del consumismo, si vorrebbe fare di più
da soli, si vorrebbe essere aiutati solo lì a spese nostre. Molti
di noi sperano che si salvino almeno quelle associazioni, come la nostra,
che portano i bambini in Europa ma anche lavorano in Bielorussia con una
solidarietà rispettosa dei loro mondi interiori, che pure dovranno
cambiare.
Eppure, l'Italia meriterebbe una ben diversa attenzione. Certo, il nostro
paese è consumista, ma io posso testimoniare che la speranza di
questi bambini non è per l'ultima versione del game boy, la loro
speranza è ben più profonda: che qualcuno creda in loro.
L'originalità delle famiglie italiane è che, appunto, queste
credono davvero in questi bambini (perfino quia absurdum), senza alcuna
pietosa compassione. Gli italiani credono in loro in modo molto diverso
dagli altri europei.
Nella loro terra, i bambini orfani sociali sono visti come imbarazzanti
bastardi, considerati con pena (e qualche volta con tenerezza) ma con
molto poco ottimismo. Le loro ferite sono evidenti, ma sono anche lampanti
le loro forze. Forze, ho detto, non astratti potenziali. C'è molto
di più in loro: una inesauribile voglia d'amore e di attenzione.
E che altro dovrebbe chiedere un bambino a noi adulti?
Un bambino che ha, tra l'altro, la forza disperata dell'istinto di sopravvivenza
che la vita in orfanotrofio impone. Ma anche bambini con un destino adulto
troppo spesso fatalmente segnato: futuri alcoolizzati, puttanelle, ladruncoli
di mezza tacca. E noi italiani dovremmo rassegnarci?
Ebbene, quello che ho visto e vissuto è che trentamila famiglie
italiane stanno ri-scrivendo sulla loro pelle (con tatuaggi di tutti i
tipi) "Lettera ad una professoressa" di Don Milani,. Sto dicendo
di quell' y care che ha segnato la mia professione e ora tocca il mio
privato, che vedo (sbalordito) nel dilettantismo amoroso di migliaia di
italiani che fino ad un anno fa non sapevo neppure esistessero.
C'è la densità magnetica dell'ottimismo della follia educativa
tutta milaniana in queste famiglie, perfino esagerata, ma sanissima e
profetica. Capace di cambiare un po' il mondo.
Un fluido educativo che va avanti indietro Italia-Minsk, aerei pieni,
valige con vestiti per bambini e caramelle, camion di tutti i tipi. Perfino
oltre la necessità utilitaristica, ma dentro il simbolo del filo
rosso che non si spezza mai. Questo bambino/a vale molto più di
un figlio naturale, vale te stesso.
Mi piacerebbe che sia in Bielorussia sia in Italia si riconoscesse meglio
questa strana esperienza di pedagogia internazionale milaniana. Dove ".Solo
i figlioli degli altri qualche volta paiono cretini. I nostri no. Standogli
accanto, ci si accorge che non sono. E neppure svogliati. O per lo meno
sentiamo che sarà un momento, che gli passerà, che ci deve
essere un rimedio. Allora è più giusto dire che tutti i
ragazzi nascono eguali e se in seguito non lo sono più, è
colpa nostra e dobbiamo rimediare" (Lettera ad una professoressa,
pag. 61).
Standogli accanto, a questi bambini orfani bielorussi considerati bastardi,
ci si accorge che sono, eccome se sono. E che se non sono è colpa
mia, anche tua di te che mi leggi, di Berlusconi, di D'Alema e di Lukashenko.
E che si deve rimediare. Perché sono nostri davvero, nostri di
tutti noi.
Ecco cosa fanno trentamila famiglie per qualche mese all'anno: credono
sia colpa loro e rimediano. Perché, accidenti, questi bambini diventano
davvero tuoi, perdutamente tuoi di quell'angolo di te più importante
di tutto, nella vita: la responsabilità individuale.
Mai avrei pensato che il pensiero di Don Milani fosse così presente
nell'anima di molti italiani normali, in questo amena Italia che sembrerebbe
invece un paese solo di veline e cellulari. Non è così negli
altri paesi europei. Non così profondo. Misteri poco noti della
nostra pedagogia italiana.
Italiani normali più pedagogisti dei nostri accademici presuntuosi.
Una storia che gli scienziati vedono storcendo il naso, e i politici seguono
distrattamente. Troppo strana la Bielorussia, e troppo strano questo fenomeno
educativo.
Naturalmente, questo articolino è anche un messaggio ai pochi
amici che ancora hanno voglia di leggermi. Aiutatemi, aiutateci per i
lavori di cooperazione che faremo lì. In tutti i modi che volete.
In questi pomeriggi vado all'Ipercoop a fare pacchetti natalizi, raccogliendo
in cambio offerte per i nostri bambini. Nessuna vergogna, anzi i pacchetti
mi vengono bene. Ma ogni volta che entra un euro nella scatola delle offerte
mi sale una rabbia da urlo. La rabbia di un mondo che per i tanti bambini
sfortunati del pianeta lascia a quattro gatti come me la pena biografica
e la responsabilità patetica di fare un po' di bene. I bambini
bielorussi dell'orfanotrofio della cittadona grigia sono solo uno scoglio
nell'arcipelago stupido della globalizzazione. Paradossalmente quasi fortunati.
E gli altri che stanno ancora peggio? Mi è entrata in casa la globalizzazione
più dura. La globalite.
Non è che Wall Street approfitti della mia e nostra buona fede?
Non è che il volontariato pacifico rischi di essere una foglia
di fico delle varie dittature e guerre? Non è che questo impegno,
senza volerlo, perpetui lo status quo? Sempre Jean Selim Kanaan mi ha
dato la risposta: "Mi metto sempre dalla parte delle vittime: avrei
voluto essere aiutato pur sapendo che quell'atto avrebbe potuto giustificare
una certa politica? Ovviamente sì" (La mia guerra all'indifferenza
pag. 72)
Però, è ovvio che non basta. Ci vuole la grande politica,
non solo il volontariato. Ma intanto continuo senza sosta a fare pacchetti.
Non posso farne a meno. Mi vergognerei altrimenti di me.
Come si fa, a questo punto, a perdere più tempo di quello che
serve a spettegolare sul tutor?
Ho imparato di più in questo anno di avanti/indietro che nei precedenti
trenta di studi e politica.
Mi sono sporcato le mani, non solo la mente. E anche per il mio paese
è un po' ora di sporcarsi le mani, non solo di scribacchiare sussiegosi
saggetti di pedagogismo. Pensando seriamente al mondo intero, non solo
al destino incerto del team docente paritario.
Naturalmente, ho poco tempo per i miei regali di Natale. Impacchetto quelli
degli altri.
Sarà forse anche per questo che ho proprio voglia di inviare un
buon Natale a tutti. |