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Leopoldo Grosso, vicepresidente gruppo Abele
DROGA. UNA LEGGE SBAGLIATA
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Nel contesto Europeo l’attuale legge sulla tossicodipendenza
colloca l’Italia tra i Pesi che non puniscono penalmente la detenzione
di sostanze stupefacenti per uso personale . Al momento è ancora lasciata
al giudice la necessaria discrezionalità nel valutare, caso per caso,
se il possesso di droga sia finalizzato all’uso personale o invece ad
obiettivi di spaccio . Il referendum abrogativo del ’93 consentì di eliminare
le norma, contenuta nella legge Craxi, Vassalli, Iervolino del ’90 che
stabiliva la dose minima giornaliera, tramite cui veniva definita la soglia
al di sotto o al di sopra della quale , la detenzione era automaticamente
considerata come consumo personale o spaccio . Nei tre anni scarsi di
applicazione quella norma fece danni considerevoli : aumentò considerevolmente
il numero delle carcerazioni di giovani tossicodipendenti e consumatori.
Qualcuno per la vergogna di essere considerato e trattato come un delinquente
, si suicidò in carcere.
PERCHÉ A DIECI ANNI DI DISTANZA SI RIPROPONE UNA INIZIATIVA ANALOGA?
Le cattive ragioni alla base dell’iniziativa del governo sono sia di ordine
teorico che di calcolo pratico. A quest’ultimo aspetto è ascrivibile l’utilizzo
ideologico della questione droga allo scopo di ottenere consenso politico.
Trattando con argomenti semplici un argomento complesso , proponendone
la “soluzione” con misure drastiche ed accusando di permissivismo chi
cerca di far valere le evidenze scientifiche come “razionale”dei trattamenti
in corso, il governo propone una schematica lettura in bianco e nero del
fenomeno, facendo dell’approccio all’intera questione un cavallo di battaglia
elettorale, cercando consenso , con proposte diverse, apparentemente rassicuranti
nell’ansia delle famiglie e nei timori dei cittadini . Le cattive ragioni
teoriche risiedono invece nell’illusione dell’efficacia di un intervento
repressivo. Ci si illude, colpendo l’ultimo anello, il più esposto e fragile
della catena del narcotraffico, di contenere il fenomeno con il deterrente
della punibilità. Si ipotizza in questo modo di tener lontani i giovani
dal consumo e di indurre le persone tossicodipendenti al recupero attraverso
le cure obbligatorie agli arresti domiciliari per evitare il carcere.
A partire da una legge più severa si prefigurano percorsi virtuosi di
prevenzione e di recupero, già smentiti dall’esperienza italiana prima
del ’75 e da altre esperienze in Europa. Paesi europei anche a maggioranza
di centro destra , stanno sperimentando narcosalas e test sulla composizione
delle varie sostanze stupefacenti soprattutto quelle sintetiche per attivare
un sistema di allarme rapido e consentire al Pronto Soccorso degli ospedali
la conoscenza dei “veleni” su cui intervenire. In Italia non solo niente
di tutto questo , ma il tentativo di cancellare gli interventi che mirano
a salvaguardare la vita e il mantenimento della salute (distribuzione
di siringhe sterili, in cambio di sporche, unità di strada, fornitura
di narcan ) alle stesse persone tossicodipendenti se non attraverso l’imputabilità
e la carcerazione . Invece di percorrere la strada dal penale al sociale
, si pratica quella inversa : dal sociale al penale
L’INDISTIZIONE TRA DROGHE LEGGERE E PESANTI
Non distinguere le varie droghe , i loro diversi effetti e rischi, la
loro diversa pericolosità, significa annullare per decreto differenze
che nella realtà esistono e sono evidenti agli occhi di centinaia di migliaia
di giovani che consumano hascich e marijuana. Ogni droga è nociva, sia
legale che illegale, e questo è fuor di dubbio. Nondimeno le droghe variano
nel loro grado di pericolosità. Nessuno nega i danni della cannabis: rispetto
ai rischi per la guida , anche se meno pesanti che per l’alcol; rispetto
alla gravidanza, come per il tabacco, rispetto alla dipendenza psicologica
che si può generare . Ma su questo punto attenzione : se è vero che se
quasi tutti coloro che sono arrivati all’eroina hanno usato in precedenza
l’hashish, è fuor discussione che meno del 5% di tutti i consumatori di
hashish passano ad usare eroina. Inoltre non si conoscono casi di mortalità
per l’uso di cannabis. La non distinzione fra droghe leggere e pesanti,
significa negare che alcune sostanze stupefacenti siano più pericolose
di altre . L’obiettivo appare quindi quello di voler colpire il consumo
più che la dipendenza. Il paradigma teorico sbagliato consiste nel ritenere
che la cannabis sia il precursore dell’uso di altre droghe , in un rapporto
meccanicistico causa-effetto, nell’escalation dell’assunzione delle diverse
sostanze, che per fortuna, non è confermato dalla realtà. Non fare alcuna
distinzione tra l’hashish ed altre sostanze potrebbe voler dire accreditare
le sostanze tradizionalmente considerate pesanti come a minor rischio
per i ragazzi : non fare distinzione significa creare confusione. La penalizzazione
del consumo difficilmente agirà da deterrente efficace. Se alcuni ragazzi
ne saranno intimoriti, è facile prevedere che altri che altri ne trarranno
incentivo , in atti di trasgressione e di emulazione di gruppo. Trasformare
un problema di educazione sanitaria e di sanità pubblica in un problema
penale significa aumentare a dismisura i comportamenti clandestini di
consumo, disporre di minore possibilità di contatto e di dialogo con i
consumatori, limitando non di poco le azioni preventive di contrasto all’uso,
all’uso nocivo e all’abuso.
LE DOSI MASSIME GIORNALIERE
Stabilire per legge, secondo una unica variabile, la quantità di sostanze
stupefacente posseduta in base alla quale distinguere , se si è consumatori
e/o spacciatori, impedisce al giudice di approfondire caso per caso e
situazione per situazione. Per ogni persona dipendente non è sempre facile
stabilire il fabbisogno giornaliero senza il quale il soggetto sta male
ed incontra la crisi di astinenza. Le soglie di quantità al di sotto e
al di sopra delle quali si è considerati consumatori/spacciatori variano
a seconda delle sostanze. Stupisce la variabilità dei criteri con cui
tali soglie vengono stabilite; ed ancora di più emerge l’intenzione di
voler colpire soprattutto il consumo più che la dipendenza.
LA SEVERITA’ DELLE PENE
L’Italia è tra i paesi d’Europa che hanno definito le più alte pene per
lo spaccio di sostanze stupefacenti. Con l’unificazione delle tabelle
(oppio, coca, anfetamine, allucinogeni, e cannabis tutte insieme) le pene
dell’art.73 , che configurano il reato di spaccio , vengono automaticamente
e drasticamente inasprite, con una unificazione verso l’alto. Lo spaccio
viene punito con la reclusione da 6 a 20 anni. Ed anche la pena proposta
per i cosiddetti “fatti di lieve entità “, vale a dire il piccolo spaccio
delle persone tossicodipendenti, si uniforma a quella attualmente riferita
alle sostanze pesanti, cioè da 1 a 6 anni. E’ pur vero che per i fatti
di lieve entità il giudice, su richiesta dell’imputato può commutare la
pena in lavori di pubblica utilità e che la possibilità di ricorrere agli
“arresti domiciliari” in comunità è estesa fino a 6 anni di condanna,
ma non è di facile applicazione , né sempre efficace. Se teoricamente
i lavori di pubblica utilità sono configurabili come alternativa possibile
alla pena relativa a persone tossicodipendenti che abbiano commessi reati
correlati alla loro condizione, di fatto l’unico scenario immaginabile
è l’inserimento “obbligatorio” in comunità terapeutica. Sono evidenti
le complesse questioni organizzative connesse alla gestione dei trattamenti
ambulatoriali in regime penale che già oggi vedono sottovalutate le attuali
misure alternative a beneficio dei detenuti tossicodipendenti
IL SERVIZIO SANZIONATORIO PARALLELO DI TIPO AMMINISTRATIVO
La proposta di modifica dell’art.75 in particolare dei commi 2 e 3 , toglie
la discrezionalità al prefetto di non applicare la sanzione alla prima
segnalazione. Con la normativa attuale , il prefetto può limitarsi ad
ammonire la persona qualora ritenga che i” fatti previsti dal comma 1
riguardano sostanze di cui alle tabelle II e IV e ricorrano elementi tali
da far presumere che la persona si asterrà , per il futuro, dal commetterli”.
La proposta di cambiamento dell’art.75 obbliga di fatto il prefetto a
punire il consumo con pesanti sanzioni amministrative revocabili solo
se l’interessato si sottopone a programma terapeutico e di cui si è certificato
il buon andamento. E’ evidente che con il pesante inasprimento dei provvedimenti,
diventa molto sottile il discrimine tra sanzioni amministrative e penali,
sia per la pesantezza delle prime, sia per l’automatismo di passaggio
alle seconde. Anche nella logica delle sanzioni amministrative è il carcere,
ed il suo spauracchio, a costituire il “motore” dell ‘intervento preventivo.
LA QUESTIONE DEGLI ARRESTI DOMICILIARI
L’insistenza sull’istituto degli arresti domiciliari, inteso non solo
come alternativa alla detenzione in carcere, ma come “rinforzo” ai trattamenti
non residenziali e di comunità rappresenta una costante nell’impostazione
che la legge intende dare ai percorsi riabilitativi. Per non prevedendo
esplicitamente il trattamento sanitario obbligatorio, l’abbinamento della
prescrizione del programma terapeutico con l’arresto a casa o in una struttura
residenziale costituisce uno strumento molto simile, rendendo di fatto
una scelta obbligata l’adesione al percorso di recupero. Con la riformulazione
dell’art.89 viene infatti ribaltata la logica del trattamento così come
concepito, nella specifica fattispecie, dalla legge attualmente in vigore.
Oggi qualora l’imputato abbia in corso un programma di recupero, ed allorché
non sussistano condizioni di particolari gravità , la custodia cautelare
in carcere viene trasferita nell’arresto a casa. E’ evidente che se lo
sforzo necessario per portare avanti il percorso riabilitativo, che richiede
la protrazione dall’uso di sostanze, non è compensato dall’esercizio della
propria libertà , si introducono in realtà due condizioni sfavorevoli.
Lo stato di reclusione , non importa se in casa o in comunità , impedisce
in ogni modo una verifica contestuale che, nell’esercizio della libertà
, è invece quotidianamente all’ordine del giorno, poiché una maggiore
esposizione alle sostanze pone il soggetto di fronte ad una tentazione
ed a una possibilità di ribaltare una scelta che deve essere confermata
in ogni momento. Inoltre per quanto riguarda gli arresti domiciliari nella
propria abitazione , che , per stragrande maggioranza delle persone dipendenti
significa convivenza stretta con la propria famiglia, si sono evidenziate,
dalle esperienze fino ad oggi condotte, una serie di controindicazioni.
IL CAPOVOLGIMENTO DELLA FUNZIONE DEI CENTRI DI INFORMAZIONE E CONSULENZA
NELLE SCUOLE
La nuova versione dell’articolo 106 ribalta la logica con cui, fino ad
oggi, si sono condotti gli interventi nelle scuole. Nel nuovo articolato
scompaiono le “iniziative di studenti animatori” tese a valorizzare il
protagonismo giovanile in un tentativo di induzione della peer education,
l’educazione tra pari, che si rivelata ed affermata tra gli strumenti
preventivi più efficaci . Nella nuova proposta viene anche depotenziato
l’anonimato per chi si rivolge al servizio di consulenza , tendendo a
trasformare il rapporto costruttivo con i docenti in tema di prevenzione
primaria e secondaria verso un maggior controllo sui comportamenti degli
studenti. In particolare il comma 3 dell’articolo prevede che i docenti
siano tenuti ad informare le famiglie rispetto i ragazzi che abbiano utilizzato
sostanze. Si tende ad instaurare un clima di controllo e di repressione
che rende di fatto più difficili le collaborazioni fra le diverse componenti
; si incentivano i comportamenti underground , sommersi, clandestini,
comprimendo le diverse possibilità dell’intervento preventivo in un unico
capitolo.
LA DECOSTRUZIONE DELLA RETE DI COLLABORAZIONI TRA SER.T E PRIVATO SOCIALE
Con la legge del ’75 prima e con la legge del ’90 poi, si è cercato, anche
faticosamente , di costruire un sistema integrato di servizi tra pubblico
e privato sociale, tra Ser.t e comunità. La collaborazione , in molte
situazioni, è andata ben oltre ad una utile divisione del lavoro nel determinare
quella catena terapeutica tra i diversi e i complementari interventi che
uno stato di tossicodipendenza richiede. La creazione di strutture intermedie,
centri crisi, diurni, drop in , alloggi per il reinserimento, oltre a
tutti gli interventi di strada ed a bassa soglia sono in genere nati dalla
fruttuosa collaborazione tra pubblico e privato sociale, con l’iniziativa
dell’uno e l’integrazione dell’altro e viceversa. In tutte le Regioni
comunque la certificazione dello stato di tossicodipendenza è rimasta
prerogativa dei servizi pubblici, sia per la complessità diagnostica di
alcune situazioni, sia per evitare abili manipolazioni di chi cerca contemporanei
benefici farmacologici presso più sedi di trattamento, per cui si rende
necessario un unico riferimento centralizzato. Con il nuovo testo di legge
invece la certificazione dello stato di tossicodipendenza non è più appannaggio
esclusivo del servizio pubblico. Anche le strutture private, purché provviste
di necessari requisiti, possono certificare lo stato di tossicodipendenza.
Ciò apre un conflitto di interessi , in quanto la struttura che certifica
è poi la stessa che effettua il trattamento, potendo dar luogo ad abusi,
non solo per il reclutamento diretto della propria utenza, ma anche per
le possibili semplificazioni diagnostiche. Si aprirebbe inoltre il campo
ad una grande variabilità di criteri diagnostici ed a una conseguente
disparità di trattamento non in relazione alle reali condizioni del soggetto,
ma in funzione dell’organizzazione del trattamento a cui la persona si
rivolge. In tutto l’articolato della nuova legge la dicitura “servizi
pubblici per la tossicodipendenza” è perennemente affiancata da “ o strutture
private di cui all’art.116” . Ciò significa che qualsiasi funzione del
Ser.t può essere esercitata anche dal privato. Il modello dell’integrazione,
fondato sulla specificazione di funzioni diversi, ma complementari, lascia
il posto alla libera competizione tra i diversi enti aventi titolo.
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