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Matricola 75190 di Auschwitz
Di Liliana Segre
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Avevo 8 anni ed ero una bambina, famiglia italiana da generazioni
e generazioni. Facevo parte di quella minoranza di cittadini italiani
di religione ebraica – trentacinquemila persone al tempo – che, di colpo,
con le leggi razziali fasciste diventarono cittadini di serie B all’inizio,
per poi arrivare a diventare di serie Z.
Otto anni e, all’improvviso, mi dissero che non potevo più andare a scuola.
Era l’estate del 1938, avrei dovuto iniziare la terza elementare. I miei
erano agnostici, laici, in casa non sentivo mai parlare di feste ebraiche,
di questioni religiose o di appartenenze particolari, fu, quindi, per
me, molto più difficile, anche per questo, rendermi conto che mentre io
mi sentivo così uguale alle altre bambine, venivo da quel momento considerata
una diversa.
Ed è stato allora, quando il mio papà cercò di spiegarmi che non potevo
più andare a scuola per quelle leggi razziali fasciste, che io ho strappato
il cordone della mia infanzia. Mi ricordo tutto di quell’istante.
E poi? Sono andata in una scuola privata che mi ha accolto. Le ragazzine,
con le quali avevo frequentato la prima e la seconda elementare, nel quartiere,
quando mi incontravano, mi segnavano col dito. Era una sensazione strana:
erano le stesse bambine con cui avevo diviso il banco, con cui avevo trascorso
la ricreazione, con cui avevo partecipato a giochi, a festine, a quelle
piccole cose delle piccole vite di 8 anni, e improvvisamente quelle mie
piccole coetanee mi vedevano come «la Segre». «Lei è la Segre, non può
più venire a scuola perché è Ebrea». È stato un momento strano: mi sentivo
talmente uguale alle altre ed ero considerata da loro diversa. Nella nuova
scuola io non parlavo mai di quello che succedeva a casa mia. Cercavo
di non essere diversa, volevo essere uguale alle altre, e quindi non raccontavo
che nelle nostre case di borghesi piccoli piccoli, veniva la polizia,
e che era un’impressione incredibile per noi: mio padre e mio zio erano
stati ufficiali della grande guerra, erano patrioti, mio zio era persino
fascista e si era sposato, forse l’anno prima, nel ’37, proprio in camicia
nera. Era assurdo, per una famiglia borghese come la nostra, avere improvvisamente
la sensazione di essere dichiarati nemici della patria.
E mi ricordo della Polizia che veniva a controllare documenti, che veniva
con aria truce a guardarci con sospetto. E mi ricordo come, attaccata
al vestito di mia nonna che andava a aprire, io vedessi questi poliziotti
che mi sembravano tanto grandi, entrare con aria battagliera ed essere
ridimensionati dalla vecchia signora piemontese, donna dell’Ottocento,
che con garbo li faceva accomodare in salotto e offriva loro dei dolcetti.
E le camicie nere venivano spiazzate da quest’atteggiamento e non sapevano
bene come comportarsi. Ma mi ricordo anche che la nonna chiudeva la porta
e mi mandava di là a giocare. E io ero combattuta tra la curiosità pazzesca
di stare fuori dalla porta a origliare, sentire cosa avessero da dire
quei poliziotti alla mia nonna, e la paura di quello che avrei potuto
sentire.
Andavo di là a giocare, ma diventavo grande.
La zona d’ombra dell’indifferenza
Ero orfana di mamma, per cui mio padre era tornato a casa con i suoi genitori.
In quegli anni della persecuzione, scrutavo i visi umiliati e dolenti
delle persone che mi volevano bene, guardavo i loro occhi, sentivo i loro
discorsi – quelli che mi facevano sentire – percepivo una zona d’ombra:
quella dell’indifferenza, una costante: la violenza psicologia terribile
di chi, pur non compiendo alcun gesto o non esprimendo alcun commento
contro di noi, voltava però la faccia dall’altra parte: non erano persecutori,
non erano carnefici… semplicemente non c’erano. Voltavano la faccia dall’altra
parte. E io mi ricordo di aver sentito in casa frasi simili a questa:
«Abbiamo incontrato il tale e non ci ha salutato» oppure mi ricordo le
telefonate anonime vigliacche, di cui anch’io qualche volta ero vittima
perché andavo a rispondere al telefono, oppure le lettere anonime di cui
sentivo parlare vagamente, capivo che arrivavano, traspariva dallo stato
d’animo di chi aveva aperto la busta, leggendovi parolacce.
Era la sensazione di essere soli. Una solitudine non cercata, una solitudine
non d’élite, come lo è di solito. No! Era una solitudine forzosa, forzata.
Ed era la sensazione di essere guardati, di essere notati, come diversi.
Ed era anche l’atteggiamento vigliacco di quelli che seguono il carro
dei vincitori.
È chiaro: è molto più facile stare vicino a chi ha denaro, a che è garantito
e può garantire, ma quando si è provato a essere dalla parte dei perdenti,
allora si sa quanto sia importante un amico con la A maiuscola: noi, per
fortuna, abbiamo avuto amici con la A maiuscola, che ci hanno fatto recuperare
pienamente il significato della parola amicizia, che ha la stessa radice
della parola amore. Ci sono stati gli amici eroici, quelli che hanno rischiato
per noi anche la vita, e molti di loro sono onorati fra i Giusti a Gerusalemme,
ma ci sono stati quei tanti che invece hanno fatto parte di quella zona
grigia dell’indifferenza.
Così passarono gli anni della persecuzione in cui si aggiungevano, giorno
dopo giorno, alle severe e umilianti leggi fasciste piccoli codicilli,
che facevano sì che crescesse continuamente il numero delle proibizioni,
dei veti, che ci allontanavano sempre più dalla società. Proibizioni anche
assurde – tipo «è proibito avere un cavallo Ebrei» – proibizioni che hanno
il sapore dell’incredibile, che non avevano alcun senso, ma che servivano
ad annientare il nostro essere cittadini.
Cominciò la caccia all’uomo
Allo scoppio della guerra, e quando ci furono i bombardamenti su Milano,
luogo dove io ho sempre abitato, la maggior parte delle famiglie in grado
di sfollare, lasciava la città. E anche noi andammo in un paesino della
Brianza per sfuggire ai bombardamenti. Mio nonno era malato terminale
del morbo di Parkinson. Sessant’anni fa, mio nonno era un povero vecchio
ebreo malato e assolutamente non autosufficiente a causa di un male che
lo aveva obbligato a stare su una sedia, trasportato qua e là per ogni
minima sua necessità. Il cervello, invece, purtroppo per lui, era sveglissimo,
e nonno era attento e disperato alla rovina della sua casa intorno a lui.
Ma nessuno di noi si rendeva ancora conto, in quel momento, verso quale
abisso stessimo sprofondando.
Io amavo moltissimo nonno, e mi curavo di lui in modo totale, quasi tutta
la giornata, visto che lì dove eravamo sfollati non potevo più andare
a scuola. C’era solo una scuoletta pubblica di guerra e io ero assolutamente
emarginata dalle altre mie coetanee. Stavo sempre a casa con lui e sentivo
la radio dei vicini. Ero diventata un’esperta di radio Londra. Noi non
potevamo girare quella manopola, era uno dei divieti assurdi impostoci
dalla polizia, venuta a casa per bloccare la radio su un’unica stazione
italiana. Ma i nostri vicini, bravissime persone, erano cattolici, potevano
girare la manopola e mi permettevano di andare da loro a sentire la radio.
Si cresce in fretta in guerra e io diventavo ‘adulta’ ogni giorno di più
nei miei dodici, tredici anni, mi arricchivo di esperienza per quello
che stava succedendo Ero diventata un’esperta di bollettini di guerra,
sia quelli ufficiali sia quelli di Radio Londra, una specie di rebus questi
ultimi, con parole d’ordine abbastanza affascinanti che bisognava decodificare
per capirne il contenuto tra le righe. La rovina era assoluta per noi
perché le armate tedesche naziste stavano invadendo l’Europa e i vari
eserciti cadevano come birilli. E là dove entravano le truppe tedesche,
immediatamente per gli Ebrei era la fine.
Ma ancora le notizie non arrivavano così dure come poi fu la realtà.
Avvenne per noi nell’estate del 1943 quando, alla caduta del Fascismo,
seguì prima un momento di euforia in cui speravamo di tornare a essere
cittadini, poi un interminabile esperienza di sconforto, in cui perdemmo
completamente tutte le speranze: dopo l’8 settembre i nazisti divennero
padroni anche dell’Italia settentrionale. Alle leggi razziali fasciste,
severe e umilianti, si sovrapposero, le leggi di Norimberga, che avevano
nel testo quelle due parole “soluzione finale” a cui nessuno, in fondo,
voleva o poteva credere, e le leggi razziali fasciste della Repubblica
di Salò, che forse erano anche peggiori delle leggi razziali di Norimberga.
Cominciò la caccia all’uomo, un rastrellamento incredibile a dirsi, perché,
in pieno tempo di guerra, invece di focalizzare l’attenzione sulle strategie
e sulle tattiche belliche necessarie per contrastare i nemici che si aprivano
varchi su vari fronti, i nazisti, in tutta l’Europa occupata da loro e
quindi anche in Italia, si dedicarono alla ricerca spasmodica di ogni
ebreo – anche bambini o neonati – capillarmente cercato. E si vedevano
allora equipaggi di soldati armati fino ai denti che avrebbero terrorizzato
anche altri individui armati, figuriamoci persone assolutamente inermi,
borghesi, impreparati, increduli a una realtà come quella. Soldati aiutati
da questori e prefetti italiani, che avevano consegnato loro gli elenchi
precisi con gli indirizzi, già da tempo stilati dai fascisti: avevano
organizzato la caccia all’uomo in modo che la ricerca degli occupanti
nazisti fosse assolutamente semplificata.
Il terrore, la disperazione, la paura, l’incapacità assoluta di renderci
conto fino in fondo delle misure da prendere. L’organizzazione mentale
di una soluzione creava ancor più confusione nel nostro cuore e nella
nostra mente. Eravamo inadatti ad affrontare quel rastrellamento. Fu mio
papà a decidere, unico uomo della famiglia, aveva allora 43 anni, dovette
assumersi la responsabilità di mandarmi via da casa.
Dovevamo fuggire in Svizzera
Anch’io avevo la carta d’identità falsa.
Quando mio padre riuscì ad averla da un impiegato corruttibile di un municipio
e me la portò a casa, mi spiegò che avrei dovuto imparare a memoria quelle
generalità false. Ero stupida, sicuramente. Ma mi ripugnava l’idea di
assumere generalità non mie: mi era stato insegnato, nella mia famiglia
di persone oneste, a non fingere, a dire sempre la verità, a presentarsi
con pregi e difetti per quello che si è.
Era profondamente umiliante sentirmi dire improvvisamente: «Impara a memoria
queste generalità, perché non solo potrai salvarti tu, ma potrai anche
salvare gli amici eroici che d’ora in poi ti terranno nascosta». quando
arrivò il momento di fuggire, con quella carta d’identità mi presentai
nella casa di amici con la A maiuscola, che mi tennero nascosta per due
mesi.
Erano famiglie di persone normali che rischiavano la vita, perché c’era
la pena di morte per chi nascondeva un Ebreo con carte false. Aprirono
le loro porte e mi trattarono con grande affetto, come trattavano i loro
figli.
Ma in quel momento io avevo lasciato per sempre la mia casa.
Non sono mai più rientrata in quella casa, e non ho mai più visto i miei
nonni amatissimi Olga e Giuseppe Segre. Mio padre, mentre io ero nascosta
e protetta da questi amici, riuscì ad avere un permesso per i suoi genitori:
vista l’età e visto lo stato di salute di tutti e due erano – come scopri
dopo la guerra leggendo il documento che papà aveva conservato – «impossibilitati
a nuocere al Grande Reich tedesco». In seguito, quando già tante altre
tragedie si erano compiute, i miei nonni furono arrestati nella loro casa,
portati a Fossoli e dopo essere stati a Fossoli, portati a Milano, a San
Vittore, e da lì deportati ad Auschwitz, dove arrivarono vivi per essere
gasati e bruciati all’arrivo per la sola colpa di esser nati.
All’epoca non sapevamo. Non avremmo mai immaginato che altri uomini e
altre donne avessero preparato una simile realtà per esseri umani colpevoli
solo di esser nati Ebrei.
Gli amici ospitanti, visto quel lasciapassare che dava tranquillità a
mio papà – perché noi naturalmente eravamo ben contenti di credere a quel
permesso – ci aiutarono a trovare dei contrabbandieri che a quel tempo
dietro Varese, ai piedi delle montagne che confinano con la Svizzera,
per cifre da capogiro, accompagnavano i clandestini fino al confine, naturalmente
sulle montagne, là dove passavano i cosiddetti “spalloni”, dediti al contrabbando
di persone e di sigarette in Svizzera.
Ricordo che immaginavo quella fuga come una meravigliosa avventura e spingevo
tantissimo papà perché la volesse compiere insieme a me. Eravamo ormai
tranquilli per i nonni e potevamo fuggire in Svizzera.
Fu un’avventura ma certamente non a lieto fine.
Lasciammo la casa dei nostri amici Civelli a Legnano e ci imbarcammo prima
su autobus, poi corriere, funivie, filovie... il terrore a ogni fermata,
quando la polizia saliva a controllare i documenti. Finalmente arrivammo
con le nostre carte false. Arrivammo in un paesino, si chiama Viggiù,
e poi a Saltrio, dove ci aspettavano i contrabbandieri. In una notte,
in un’alba – sembrava di compiere un’avventura straordinaria – correvamo
sulla montagna, io con la mano nella mano di mio papà, con altri due vecchi
cugini che si erano uniti a noi, correvamo su quella montagna che ci portava
in Svizzera: terra di libertà... Con grande fatica attraversammo quei
buchi nella rete così stretti per noi, vestiti da città, e inadatti alla
clandestinità. Era inverno, dicembre, e noi ci provammo. Riuscimmo a passare
dall’altra parte, ci abbracciammo quando i contrabbandieri ci dissero:
«Correte, correte che arrivano adesso, a quest’ora le sentinelle, correte,
avanti, è la terra di nessuno, correte, al di là c’è la Svizzera».
E quando scendemmo da quella cava di sassi, arrivammo nel boschetto, ci
voltammo indietro a guardare le montagne che con una fatica infinita eravamo
riusciti a passare. Eravamo felici, eravamo liberi, non avremmo dovuto
più fuggire.
Ma non fu così.
L’ufficiale del comando di Arzo, il primo paese del Canton Ticino, ci
disse: «Ebrei, perseguitati in Italia? Non è vero, siete degli impostori».
Avevamo buttato le carte d’identità false sulla montagna e avevamo conservato
i documenti autentici perché ci era stato riferito che gli Svizzeri non
ci avrebbero accettato con le carte false, sapevamo bene che con i nostri
documenti non avevamo più possibilità di tornare indietro. Fu un momento
tremendo, erano le speranze perdute. Mi ricordo che mi buttai per terra,
inginocchiata ai piedi di quell’ufficiale e lo supplicai: «Ci tenga, la
prego, di là ci ammazzano». Ma quello mi respingeva come si fa con un
cucciolo.
Mi hanno invitato due o tre volte a intervenire a programmi della televisione
svizzera, ultimamente mi hanno anche intervistata al telegiornale per
la giornata della memoria, e io la racconto questa vicenda agli Elvetici
increduli, agli Elvetici pacifisti, agli Elvetici che voltano la faccia
dall’altra parte. La prima volta in cui fui invitata alla televisione
svizzera, raccontai di come ci avesse trattato quell’ufficiale. Con disprezzo
infinito verso l’altro, inerme e bisognoso, gridò: «Via, la Svizzera è
piccola, non vi può tenere» Gli risposi: «in questi momenti bisognerebbe
sentire la voce della propria coscienza». Anche se gli ordini erano «La
barca è piena» – come si diceva in Svizzera dall’8 settembre in poi –
la nostra vicenda rappresentava comunque uno di quei casi in cui sarebbe
stato generoso voltare la faccia dall’altra parte e far finta di non vedere,
certamente non per indifferenza, ma per altruismo e amore della vita.
Se quell’ufficiale avesse finto di non vederci, avrebbe salvato quattro
persone. Invece ne ha mandate a morte quattro, sentenza eseguita poi dai
nazisti per tre, visto che io sono viva. Non ha voltato la faccia dall’altra
parte e, al mattino stesso, ci ha rimandato nel luogo da dove eravamo
partiti, accompagnati da guardie armate sghignazzanti. La sera stessa
eravamo arrestati sul confine, con i nostri documenti veri.
L’ultimo rifugio insieme
A 13 anni, con l’accusa di esser nata ebrea, sono entrata nel carcere
femminile di Varese. Mi ricordo le impronte digitali, la fotografia, mi
ricordo il corridoio, il corridoio buio, spinta da una secondina senza
pietà che mi buttò dentro una cella... Carcere femminile.
Piangevo disperata. E piansi sempre, tutti i giorni, insieme alle altre
donne arrestate come me sul confine, e poi piansi ancora tanto nel carcere
di Como. E poi non piansi nel carcere di Milano, perché a Varese e a Como
ero sola, nel carcere femminile, per la sola colpa di esser nata, a San
Vittore ero prigioniera, per la sola colpa di esser nata, ma ero con il
mio papà. Il carcere di San Vittore a Milano è costruito con una pianta,
potremmo dire a stella: c’è un corpo centrale e dei bracci. Uno di questi
era adibito agli Ebrei: famiglie intere. Non c’era la divisione tra i
reparti maschili e femminili, come c’era e come c’è nelle carceri anche
adesso. Famiglie ricostituite stavano nelle celle insieme, quando – dopo
l’iter burocratico dell’ingresso – vidi mio padre e compresi che saremmo
stati insieme nella cella provai una indescrivibile tranquillità.
Quanto sono stati importanti quei quaranta giorni, gli ultimi che passai
con papà, come fu importante quella cella: fu una casetta, una casetta
spoglia, terribile, ma l’ultimo rifugio insieme.
Era la deportazione annunciata. Si susseguivano notizie, perché già era
partito un trasporto e si sapeva che ne sarebbe partito un altro. Dei
trentacinquemila Ebrei residenti in Italia la maggior parte si era nascosta,
molti erano fuggiti per tempo, ma ottomilaseicento furono i deportati,
quindi quasi un quarto della popolazione ebraica di allora. Il carcere
si riempiva: all’inizio eravamo circa duecento, col passare dei giorni
i rastrellamenti portavano persone a ogni turno, era terribile incontrare
un amico, trovare un parente: «Anche tu. Anche tu». Ognuno aveva la sua
storia: «Sono stato arrestato lì». «Mi hanno portato via questo…».«Mia
madre l’hanno portata via, io mi sono nascosto…».
Erano mille storie, piccole, grandi, di cui io, adesso, ogni volta che
c’è la giornata della Shoah o qualche momento particolare, cerco di ricordare,
perché il mondo possa sapere, perché quasi nessuno si può ricordare di
quelle persone che sono sparite nella Shoah. Ricordo un nome, una storia,
una persona: alta, bassa, bionda, bruna, ricordo la voce per ridarle voce,
per ridarle un volto, per restituire un colore a quegli occhi, che nessuno
ha mai più visto.
Ci incontravamo sempre alla stessa ora. C’era il permesso di sostare in
una piccola sala di riunione, e allora partivano quei messaggi che ognuno
credeva di sapere sulla deportazione annunciata, con la speranza che fosse
solo una voce infondata, ma con la paura nel cuore che fosse il futuro
di tutti noi: «Ma non è possibile che Mussolini lasci partire per l’estero
dei cittadini italiani, non è possibile, ci manderanno a lavorare, ma
sarà in Italia, non sarà all’estero»
... Non fu così.
Ma la cosa che mi ricordo di più di San Vittore è un’altra: la Gestapo
chiamava gli uomini per gli interrogatori, feroci: torturavano, davano
botte, martoriavano. Restavo sola nella cella, aspettavo che tornasse
mio padre. Non avevo una spalla su cui piangere, purtroppo non l’ho mai
avuta. Restavo sola e non avevo un libro, non ero credente, avevo solo
mura di disperazione: vi erano scritte indimenticabili, graffite, in cui
c’erano addii, saluti, maledizioni, benedizioni, che io leggevo, per ore
imprimevo nella mente quell’intonaco scrostato. Aspettavo un’ora, due
ore, tre ore, poi il mio papà tornava, ci abbracciavamo, in silenzio,
eravamo insieme, eravamo insieme, eravamo insieme.
Ho avuto da mio padre e a lui ho dato così tanto amore che mi è bastato
per cercare la vita in ogni momento. Lui mi ha dato insegnamenti di vita
e non di morte, insegnamenti di pace e non di vendetta. Papà mi ha lasciato
un patrimonio di una tale importanza che non ho mai smarrito nel mio ricordo
pur avendo perso, quando avevo solo 13 anni, lui come persona.
Restavo da sola, un’ora, due ore, tre ore, e diventavo vecchia. Quando
lui tornava e ci abbracciavamo io non ero solo la sua bambina, ero sua
sorella, ero sua madre.
Ho tre figli e mio figlio maggiore, che si chiama Alberto come si chiamava
mio padre, oggi è più vecchio di quanto fosse papà allora: perché mio
figlio oggi ha 49 anni, papà ne aveva 43. Mi succede qualche cosa di così
particolare che è anche difficile da spiegare: c’è più che uno sdoppiamento
nel mio ricordo, quando guardo mio figlio alto, quasi vecchio ormai, perché
un uomo di 49 anni è un uomo maturo, assolutamente, con ben altri problemi
di quelli che aveva l’altro Alberto, si sovrappongono in me i due uomini
e provo una sensazione dolcissima nel ricordo perché è amore, è puro amore.
Nessuno fu risparmiato
Arrivò il momento della deportazione annunciata. Entrò un Tedesco
nel raggio e lesse un elenco di più di 600 nomi fra cui i nostri. Ci dovevamo
preparare a partire. Ci preparammo a partire. Nessuno fu risparmiato:
non c’erano intrasportabili, non c’erano malati, non c’erano neonati al
seno della propria madre, non c’erano donne incinte. Tutti, per la colpa
di esser nati, dovevano partire. E così uscimmo: lunga fila di personaggi
borghesi, messi in ordine per la partenza.
Uscimmo dal carcere di San Vittore.
Ricordo sempre come si comportarono in modo splendido altri detenuti di
un altro raggio, detenuti comuni, forse assassini, forse delinquenti comuni,
forse ladri, forse rapinatori, forse truffatori. Furono straordinari,
furono uomini, furono uomini che ebbero pietà di altri uomini che non
avevano altra colpa che quella di esser nati. Quando attraversammo il
raggio dove stavano questi detenuti affacciati alle loro celle – avevano
forse l’ora d’aria a noi negata – questi uomini ci urlarono benedizioni,
saluti, incoraggiamenti: «Che il Signore vi benedica». «Abbiate coraggio».
C’era chi ci buttava una mela, chi un fazzoletto, un paio di guanti, una
sciarpa, una cosa qualunque... Loro ebbero pietà. Non voltarono la faccia
dall’altra parte. Furono gli ultimi uomini noi incontrammo.
Ce ne volle poi, un anno e mezzo, per incontrare altri uomini: fu un viatico
eccezionale.
All’uscita da San Vittore, fummo spinti a calci e pugni e bastonate sui
camion, portati alla stazione Centrale. A un incrocio, io, che ero stretta
a mio padre, in fondo al camion dove il telone si apriva, vidi la mia
casa di un tempo, pensai mai più, mai più, mai più, mai più, mai più,
pensai di colpo che la tappezzeria era gialla, pensai a com’era fatta
una certa stanza, pensai che c’era un corridoio... Mai più, mai più, mai
più. Arrivammo alla Stazione Centrale e lì... dai sotterranei partimmo:
non si partiva certo dai binari, per non mostrare quella vergogna agli
altri passeggeri, si partiva dal ventre nero della grande stazione di
Milano che è ancora oggi un punto di raccolta di quelli arrivati all’ultima
spiaggia: tossici, alcolizzati, senza fissa dimora… Là era preparato non
il treno, ma un vagone... Ma noi allora non l’avevamo capito, me lo raccontò
molti anni dopo Liliana Picciotto Fargion, la storica che ha scritto il
libro della memoria. Non c’era il treno completo, c’erano due vagoni,
ma noi in quel buio, i fari, il terrore del momento, l’incredulità di
quello che ci stava succedendo, i cani che abbaiavano, le bastonate, i
fischi, non capivamo che i vagoni erano due per volta, man mano che il
vagone era riempito di umanità dolente, veniva sprangato e portato con
un elevatore – che ancora esiste – al binario di partenza, e in fondo
agganciato.
Dentro un vagone piombato
Come ci si pone con l’altro, che sia uno sconosciuto, che sia tuo padre,
che sia tuo marito, che sia tua sorella, che sia tuo figlio, dentro un
vagone piombato? Come ci si guarda intorno, cosa si dice, cosa si fa,
come si piange, come si urla, come si sta zitti. Che modo c’è? Perché
per ogni cosa c’è un modo, ma non c’è un modo per essere dentro a un vagone
piombato con un po’ di paglia per terra, un secchio per gli escrementi,
subito pieno... Come ci si pone, come ci si guarda?
Poi il treno si muove. E cominciano le ruote ad andare. E ogni rumore
di queste ruote ti porta lontano dalla tua casa, dai tuoi odori, dai tuoi
sapori, dai tuoi affetti... io lo racconto, come sono capace, perché non
ho certo la vena poetica di Primo Levi, di Hetty Hillesum… anche loro,
in realtà, non sono riusciti a rendere cos’è questo viaggio verso il nulla,
questo viaggio verso ignota destinazione. E i ferrovieri che guidavano
questi treni non si chiedevano – o se lo chiedevano – come mai i vagoni
tornavano indietro vuoti... C’erano i capistazione, c’erano quelli ai
passaggi a livello, c’erano quelli che avevano le case che davano sulla
ferrovia, e vedevano passare in tutta Europa questi treni. Perché sono
stati deportati sei milioni di uomini, donne, bambini, bambine? Non una
volta tanto un viaggetto, no! Era un via vai continuo...
Mi ricordo le tre fasi: la prima del pianto, che apparteneva a tutti,
grandi, piccoli, uomini, anche giovanotti forzuti, tutti piangevano. Quando
poi il treno passò il confine e ai ferrovieri italiani subentrarono quelli
Austriaci e poi Tedeschi, e si vide il treno andare verso nord, allora
veramente i pianti arrivarono... Da nessuna parte, perché nessuno ci ascoltava.
Nessuno ci diede un bicchiere d’acqua alle stazioni. Quelle fotografie
di repertorio in cui si vedono visi dolenti che si affacciano a grate
di finestrini dei carri bestiame... ci rappresentano, fanno sì che non
si possa più girare la faccia dall’altra parte: eravamo come i vitelli
che vanno a morire. Chi si interessava di noi? Dopo se ne è parlato, quando
già erano morti i vitelli... Dopo s’è tanto parlato di Shoah, ma al momento
nessuno diede un bicchiere d’acqua.
Alla prima fase del pianto subentrò una seconda fase rarefatta, kafkiana,
importante: gli uomini religiosi, i pii, più fortunati, si riunivano nel
centro del vagone e, dondolandosi, salmodiavano, lodando Dio anche in
quel momento. Pregavano anche per noi, che non sapevamo pregare. Il vagone
era buio, la gente appoggiata alle pareti del vagone e quegli uomini,
al centro, si dondolavano pregando, con lo scialle di preghiera: era una
visione straordinaria.
La terza fase fu quella del silenzio: quando si è già detto tutto, quando
non c’è più niente da dire, ma è il momento di massima comunicazione con
l’altro. Non è solitudine quando si è con l’altro a cui vuoi bene e non
dici una parola. Io e il mio papà non avevamo più niente da dire, in realtà
avevamo parlato sempre pochissimo io e lui, perché non avevamo bisogno
di tante parole. Ma il momento massimo è il momento di comunione, così
profondo, così silenzioso.
Allora l’ho capito: quando la vita è piena di rumore, di auricolari, di
musica che sovrasta gli altri suoni, persino quelli delle casse al supermercato,
non è mai un momento importante della nostra esistenza. Un momento importante
della vita è sempre di silenzio assoluto, quando la coscienza e il cuore
e la mente hanno la loro massima espressione.
Auschwitz: stazione di non ritorno
Fu un momento essenziale. La maggior parte di noi era condannata a morte
all’arrivo. E a quel silenzio che io ho in così grande onore e che ricordo,
importante dopo così tanti anni, all’arrivo subentrò il rumore osceno
e assordante degli assassini intorno a noi, che aprirono i vagoni e ci
buttarono, dinanzi agli occhi assuefatti al buio, la visione dell’inferno
preparato a tavolino per noi da altri uomini. Era Auschwitz: era la stazione
di non ritorno, binari morti, treni fine corsa, treni che ogni giorno
sfornavano migliaia di persone che arrivavano da tutta l’Europa. C’erano
persino vagoni fermi pronti per essere agganciati al treno successivo
che così tornava indietro vuoto e un altro veniva vuotato.
Fummo tirati giù da quel treno, gambe anchilosate, occhi che facevano
fatica a capire non solo quello che ci stava intorno, ma anche a sopportare
la luce di quel mattino grigiastro. 6 Febbraio 1944.
Una spianata, uomini vestiti a righe, prigionieri con la testa rapata
erano sferzati dai diavoli SS coi loro cani, per fare in fretta in fretta
in fretta in fretta a radunare noi, sbalorditi, incretiniti dal viaggio,
ubriachi.
Radunarono le nostre valigie, divisero gli uomini dalle donne. Non sapevo
che non avrei mai più rivisto il mio papà e continuo a sperare che anche
lui non lo sapesse. Fummo divisi. Mio padre mi aveva raccomandato di stare
vicino alla signora Morais: l’avevamo conosciuta a San Vittore ed è una
di quelle persone a cui rendo la voce, ogni tanto, ricordandola, una dolce
signora, mamma di due ragazzini più o meno della mia età. Mio padre, abituato
a farmi da papà e da mamma, aveva visto a San Vittore che questa signora
era dolce, graziosa, materna, e mi aveva detto: «Se là dove arriveremo,
divideranno ancora gli uomini dalle donne, tu stai vicino alla signora
Morais» e si era raccomandato anche a lei che lo aveva assicurato, rispondendogli:
«Certo che mi occuperò anche della sua bambina… Ma perché adesso dobbiamo
pensare che saremo divisi?».
Su quella spianata, avvenne la prima selezione. I nostri assassini avevano
in mano la Transportlist e sapevano già quanti uomini e quante
donne, quel giorno, sarebbero entrati vivi come forza lavoro. Erano due
ufficiali e un medico, che seppi in seguito essere quel famoso Mengel
di cui si parlò tanto... Ci tenevano calmi, con occhi gelidi e con labbra
atteggiate al sorriso, dicevano: «Calmi, Calmi, tutti calmi, adesso vi
registriamo e poi stasera le famiglie saranno di nuovo unite».
Noi volevamo credere a quelle parole e stavamo calmi. E loro scelsero
così, con un gesto della testa: tu qui tu là. Trentuno donne, tutte del
mio trasporto, tra le più giovani, e una sessantina di uomini. Fui spinta
in quella fila, tribunale di vita e di morte senza saperlo. Non mi chiesero
nulla. Avevo13 anni, ma ne dimostravo di più: ero alta, sciupatissima
dal viaggio e fui mandata a sinistra. La signora Morais, coi suoi due
ragazzi, fu mandata a destra. Quando vidi che mi separavano da lei avrei
voluto essere accanto a quella donna, ma certo non potevo chiedere: «Mi
scusi tanto, io vorrei andare da un’altra parte». Rimasi impietrita, silenziosa,
spaurita. La signora Morais fu mandata direttamente al gas e la sera stessa
era sicuramente già cenere.
Io, con altre trenta ragazze, fui mandata, non si sa perché, a piedi al
campo femminile di Birchenau, ad Auschwitz. Era una città: era una città
del dolore, una città di 60.000 donne che entravano e uscivano tra quelle
che andavano a morte e le nuove arrivate. Trentuno ragazze, italiane –
non conoscevo nessuna di loro e solo la lingua ci univa in quel momento
– entrai con loro e vidi quella serie infinita di baracche, la neve grigia,
in fondo una ciminiera che sputava fuoco, intorno il triplo filo spinato
elettrificato... E poi le sentinelle, e donne, donne scheletrite, testa
rasata, vestite a righe, picchiate, in ginocchio, portavano pesi... «Ma
dove siamo entrate?». Era una scena apocalittica. Noi, scese due ore prima
da quel treno, ci guardavamo intorno, ma nessuno più ci avrebbe sussurrato:
«Tesoro. Amore». «Ma dove siamo arrivate?». «Che cos’è questo posto incredibile?».
«Siamo vittime di un incubo, di un’allucinazione... Non può essere che
esista un posto di questo genere...».
Sì, esisteva, era stato costruito. Dov’erano i muratori, dov’erano i falegnami,
dov’erano gli elettricisti, dov’erano gli industriali che avevano fornito
i materiali?.
Erano stati realizzati questi campi già da tempo, molto ben organizzati,
molto ben preparati per far soffrire e morire: quello era il fine.
75190 di Auschwitz
Entrammo nella prima baracca, dove ci fu tolto tutto! Fummo
spogliate, nude. Come si può sentire una donna, improvvisamente nuda,
dinanzi a soldati che passano, guardano sghignazzano con l’estremo disprezzo
della razza padrona.
Uomini armati, vestiti di tutto punto e quelle ragazze nude che cercavano
inutilmente di coprirsi con pudore: era quella la maggiore persecuzione.
E poi sempre davanti ai soldati venimmo rapate a zero, ci vennero rasati
il pube e le ascelle, e poi, con estremo sfregio e spregio, ci fu tatuato
il numero sul braccio sinistro.
Lo porto con grande onore il mio numero, il 75190 di Auschwitz. In questo
i nazisti sono riusciti perfettamente. Chi è tornato per raccontare, è
rimasto essenzialmente il numero di Auschwitz. Volevano sostituire con
un numero l’identità di milioni di uomini e donne e una volta morti, non
sarebbero state più persone, ma numeri: il niente a raccontare di loro.
E chi è tornato è rimasto essenzialmente quel numero. Io lo ripeto sempre
ai miei figli: sulla mia tomba, se sarò una delle poche persone della
mia famiglia ad avere una tomba, voglio che ci sia scritto prima di tutto
il mio numero. Con una piccola operazione di chirurgia plastica potrei
toglierlo, in qualunque momento. Ma credo che quel numero sia un monumento
alla vergogna di chi l’ha impresso sulla pelle, e credo che sia anche
un motivo di onore per chi, avendo perso tutto nella Shoah, non ha perso
la sua mente, non ha perso la sua anima, non ha perso la memoria di quella
serie interminabile di numeri.
In quel momento ero una disgraziata ragazzina di 13 anni a cui veniva
portato via tutto, anche una fotografia, un libro, un fazzoletto, le restava
il suo povero corpo, rasato, rapato, e col numero tatuato sul braccio
sinistro.
Venimmo rivestite di stracci, venimmo rivestite a righe, un fazzoletto
sulla testa rapata. Cominciava la nostra vita di prigioniere e schiave.
Le altre, quelle che erano a Birchenau già da un po’, ci spiegarono dove
eravamo arrivate. Non volevamo credere alle loro parole. Pensavamo di
essere arrivate in un manicomio e che quelle ragazze che ci spiegavano
torture, esperimenti, forni crematori, camere a gas, fili elettrici, fili
spinati con l’elettricità... Non volevamo credere. Noi le guardavamo pensando
di essere arrivate in un manicomio. Ma sarebbe stato troppo facile liquidare
prigionieri e carnefici come pazzi. Nessuno era pazzo, né gli uni né gli
altri.
Cominciò questa vita di prigioniera e schiava. Mi ricordo come piangevamo
tutte nei primi giorni, ma scegliemmo la vita. Scegliemmo la vita immediatamente,
scegliemmo la vita, volevamo vivere, capimmo che dovevamo mettere al bando
nostalgie e ricordi, capimmo che, se volevamo vivere, dovevamo non ricordare,
perché il presente, in quel momento, era assolutamente tragico e dolcissimo
il passato per ognuna di noi, e non avremmo potuto sopportare quel presente
ricordando il passato. Se volevamo scegliere la vita dovevamo proibirci
ogni ricordo del passato, dovevamo mettere tutto il nostro impegno e le
nostre forze per sopportare quella realtà in quel luogo dove eravamo arrivate
per la sola colpa di esser nate.
Cominciò una teoria di giorni tutti uguali. Io fui molto fortunata, perché
fui scelta quasi subito per diventare operaia nella fabbrica di munizioni
Union. È una fabbrica che in tempo di pace costruiva macchine utensili,
in tempo di guerra lavorava per la guerra: realizzavamo bossoli per le
mitragliatrici.
Avevo scelto di essere una stella
Mi ricordo che imparai a diventare una prigioniera trasparente.
Quando ho letto Sopravvivere di Bettelheim – pubblicazione che
mi ha dato molta sofferenza e che ho in gran parte contestato – ho capito
che, meccanicamente, avevo scelto un mia modalità per sopravvivere: io
avevo scelto di non essere lì. Avevo scelto, quasi in modo automatico,
bestiale, irrazionale, infantile – in fondo ero ancora una bambina – e
nello stesso tempo in modo maturo, vecchio, ottuagenario – in fondo ormai
tale ero diventata – avevo scelto di non essere lì, perché era la realtà
intorno a me che era inaccettabile. Avendo scelto la vita – ho sempre
scelto la vita e anche adesso che sono vecchia scelgo la vita – non potevo
accettare la morte intorno a me e quindi avevo scelto di non vedere. Avevo
scelto di essere una stellina.
È diventato un leitmotiv nella mia famiglia, al punto che anche i miei
nipoti, quando erano piccoli, spesso mi regalavano il disegno di una stella.
Avevo scelto di essere una stellina che vedevo nelle notti chiare. Pensavo:
«Io vivrò finché quella stellina brillerà e quella stellina brillerà finché
io sarò viva».
Era un modo appunto assurdo e infantile... E il mio corpo, invece, pretendeva
attenzione.
Il mio corpo diventò uno scheletro, perché la fame si faceva sentire,
terribile, perché era inverno e avevo freddo, avevo le piaghe ai piedi,
avevo dolori ovunque quando venivo bastonata.
Io non volevo essere lì, non guardavo, non volevo guardare le compagne
in punizione... Ero vigliacca. Nel mio modo di sopravvivere, nella mia
ricerca di sopravvivere ero estremamente vigliacca. Non mi voltavo a vedere
le compagne in punizione, non mi voltavo a vedere i mucchi di corpi nudi
scheletriti pronti per essere bruciati.
Io non mi voltavo. Io non guardavo. Io non volevo vedere il crematorio,
sia che ci fosse la fiamma sia che ci fosse il fumo. Io non volevo sentire
l’odore dolciastro della carne bruciata. Io non volevo vedere la cenere
sopra la neve. Io non volevo essere lì. Volevo essere quella di prima,
che correva in un prato, che faceva il bagno al mare e che veniva chiamata
Tesoro, Amore... Non volevo essere lì, ma c’ero purtroppo, e prendevo
le botte, e non avevo da mangiare, prendevo gli insulti e sentivo freddo,
avevo intorno a me quel paesaggio allucinante che era il campo di Birchenau
ad Auschwitz.
Avevamo una fame terribile
Avevo intorno a me le mie compagne, erano il mio specchio:
il loro volto senza espressione, i loro occhi come dei gusci vuoti erano
lo specchio che non avevamo... Imparammo a non piangere più. Imparammo
a non raccontare più: «La mia casa era così, la mia mamma era così, mia
sorella era così» perché anche l’altra aveva lo stesso dolore, anche l’altra
aveva la stessa fame...
Fratellanza, amicizia, solidarietà… muoiono di morte violenta anche loro
in quei contesti.
Non avevo una spalla su cui piangere e non sono stata una spalla su cui
piangere. Quelli che sono stati spalle su cui piangere sono diventati
santi. Sono santi. Noi eravamo povere ragazze che parlavano solo di cibo.
Il mangiare era diventato una fissazione: oggi non si può capire, oggi
è difficile, quasi impossibile raccontare la fame alle nuove generazioni
abituate ad aprire il frigorifero e a scegliere, abituate a buttare nella
spazzatura alimenti scaduti perché non piaciuti abbastanza.
Noi avremmo mangiato qualunque cosa. E parlavamo solo di cibo. E inventavamo
ricette succulente, e immaginavamo torte megagalattiche poste nel centro
del piazzale dove c’erano invece le forche. Avevamo una fame terribile
e diventavamo scheletro giorno dopo giorno.
All’alba venivamo svegliate da una bastonata, non avevamo orologio, non
avevamo radio, non sapevamo mai che giorno fosse, che ora fosse. Venivamo
inquadrate all’appello e poi portate al lavoro. Uscivamo dal campo e incontravamo
sulla strada per Auschwitz, per andare in fabbrica, quasi tutti i giorni,
ragazzi della Hitlerjugend: nostri coetanei, pasciuti che stavano
a casa propria. Ci vedevano passare e, non contenti di essere carnefici
e figli di carnefici, ci sputavano addosso e ci dicevano parolacce che
avrei capito solo in seguito e che mi sarebbero sembrate assurde e ingiuste.
Li odiavo allora, con tutte le mie forze, ed è stato liberatorio per me,
nella mia età matura, diventata la donna di pace che sono, rielaborare
quei ricordi, e avere pena di quegli adolescenti di allora e dei Naziskin
di oggi.
Proseguivamo la strada, arrivavamo in fabbrica, lavoravamo tutto il giorno.
Non c’erano sindacati e gli industriali tedeschi erano ben contenti di
avere manodopera schiava in grande quantità, subito sostituita dopo la
morte. Lavoravamo tutto il giorno, a sera tornavamo al campo. Eravamo
fortunati: è stata una delle ragioni per cui io sono sopravvissuta quella
di aver lavorato al chiuso, le mie compagne, infatti, che lavoravano all’aperto
in quei climi e senza mangiare non resistevano a lungo.
Jeanine, francese, andata al gas
In quell’anno che trascorsi ad Auschwitz, Birchenau, tre volte
passai la selezione. Non era quella della stazione. Era la selezione annunciata,
quando c’erano troppi nel campo e bisognava mandare a morte quelle che
non ce la facevano più a lavorare.
E io mi ricordo: nude, in fila indiana, nel locale delle docce, dovevamo
passare da un’uscita obbligata dove un piccolo tribunale di tre assassini
decideva con un sì o con un no se potevamo ancora lavorare. Come ci si
presenta davanti a questo tribunale di vita e di morte quando si è nudi
e inermi? Io sceglievo l’indifferenza, sceglievo di non essere lì. Il
cuore mi batteva come un pazzo dentro il mio petto scarno e macilento,
arrivavo davanti a quei tre, criminali. Mi guardavano davanti, dietro,
in bocca, i denti (se c’erano ancora) e poi con un gesto mi lasciavano
andare.
Mi ricordo la prima volta che passai la selezione. Il medico, sempre quello,
mi fermò e mi mise un dito sulla pancia lì dove ho la cicatrice dell’appendicite
per cui avevo subito un’operazione due anni prima. Il terrore, il panico:
«È il momento, ecco, adesso perché ho una cicatrice mi manda a morte».
No... lui tutto soddisfatto, prima mi chiese di dove fossi e quando risposi
tutta terrorizzata: «Italienerin» mi disse: «Che cane di chirurgo
italiano» – e mi indicava ai suoi compari – «Un cane. Una ragazza così
giovane! Le ha lasciato una brutta ferita che si porterà per tutta la
vita, invece io lascio un striscia sottilissima, così quando una donna
diventa adulta, anche se è nuda non si vede alcuna cicatrice».
E poi fece quel gesto, con cui indicava che avevo passato la selezione.
Ero viva, ero viva, ero viva, ero viva, e non mi importava del luogo dove
mi trovavo, della mia solitudine, della mia condizione psicofisica, ero
viva, ero felice, per quella volta ero felice, ero viva, ero viva, ero
felice, non mi voltavo, ero vigliacca... Non mi sono voltata – lo racconto
sempre, non posso fare a meno di raccontarlo – quando fermarono dietro
di me Jeanine, giovane francese che lavorava con me in fabbrica, non mi
sono voltata. La macchina in quei giorni le aveva tranciato due falangi.
Lei era nuda. Con uno straccio aveva cercato di coprire quella mano. Gli
assassini l’hanno vista. Ovviamente. E io ero appena passata e godevo
di questa felicità infinita di essere viva... Sentii che fermavano Jeanine
e che la scrivana, prigioniera anche lei, era obbligata a prendere il
numero, io non mi voltai, non fui come i detenuti di San Vittore. Non
le gridai: «Coraggio. Ti voglio bene». Qualche cosa, una parola qualunque!
Lavoravo con lei da mesi alla macchina e non sopportai altri distacchi.
Io non mi voltai, io volevo vivere. Descrivo Jeanine, perché devo espiare,
nel presente, una reazione così vigliacca e spaventosa che nessuno conoscerebbe
se io non la raccontassi. Jeanine è andata al gas per la colpa di essere
nata, e solo io sono testimone di me stessa e dell’abisso a cui ero arrivata.
Jeanine, per un attimo le rendo la vita, raccontando di lei alle intelligenze
e ai cuori di chi legge: Jeanine, francese, ventidue, ventitré anni, bionda,
due centimetri di ricciolini che erano ricresciuti, occhi celesti, voce
dolce, andata al gas, in quella mattina, ad Auschwitz, colpevole di essere
nata. Io non mi sono voltata. Io ero viva.
La marcia della morte
Dopo un anno di questa vita, ero diventata una prigioniera
dura, diversa da quella ragazzina tenera scesa dal treno, una prigioniera
scheletrita che non sentiva neanche più la fame, una quattordicenne –
li ho compiuti ad Auschwitz i miei 14 anni – che non voleva morire, ma
vivere a tutti i costi.
Il mio corpo non reclamava vita, la morte sarebbe stata una grande liberazione,
ma la mente voleva vita, vita, vita...
Improvvisamente cominciammo a sentire i rumori della guerra che si avvicinava.
Non sapevamo niente, ma sentimmo rumori, vedemmo aerei che passavano e
non capivamo che cosa stesse succedendo. Verso la fine di gennaio del
1945 i nostri persecutori fecero saltare gran parte del campo di Auschwitz,
come è così ben descritto ne La tregua da Primo Levi il quale racconta
l’arrivo di quattro soldati russi allucinati, che vedono le vestigia di
quella che fu una grande fabbrica di morte.
Quelli di noi, che stavano ancora in piedi, già da giorni erano stati
obbligati a cominciare la marcia, che fu giustamente chiamata Todesmarch,
la marcia della morte: cinquantottomila erano i prigionieri che come me
fecero la marcia della morte, dati che io certo allora non sapevo, perché
non sapevo niente. Non sapevo numeri, non sapevo dove fossi geograficamente.
Queste sono tutte informazioni che ho conosciuto in seguito...
Cominciò la marcia di evacuazione, perché i nostri persecutori avevano
i Russi alle costole e non volevano lasciare né prigionieri (non avevano
fatto in tempo a ucciderli tutti) né testimonianze di quell’orrore che
era Auschwitz.
Ma non fecero in tempo a farlo saltare completamente, perché i Russi ruppero
il fronte e arrivarono prima del previsto. Noi, avviati sulle strade della
Polonia e della Germania, fummo obbligati a marce sempre più forzate verso
il nord, man mano che i nostri aguzzini si sentivano sempre più in trappola.
Era una marcia allucinante. Non so, me lo chiedo tante volte vedendo quella
Liliana di allora nei miei ricordi, come abbiamo fatto a marciare. La
forza della disperazione.
Si camminava soprattutto di notte... Città e paesi deserti, i civili,
asserragliati nelle loro case, non uscivano, nessuno ci diede mai un pezzo
di pane o un bicchiere d’acqua.
Attraversammo città e paesi deserti.
Sono essenzialmente due le cose che mi ricordo di quella marcia: i bordi
della strada e gli immondezzai.
Nessuno poteva permettersi il lusso di cadere, non dovevano restare feriti
o persone stanche. Erano morti senza tomba quelli che sui bordi della
strada venivano uccisi, finiti dalle guardie della scorta e la neve era
rossa.
Sapevamo che non si doveva cadere, che nessuno poteva appoggiarsi all’altro.
Nessuno aveva la forza per camminare. Dopo mesi o magari un anno come
era nel caso mio di prigionia le forze fisiche erano allo stremo. Era
la forza del nostro desiderio di vivere e la forza delle nostre menti
che ci reggeva obbligandoci a camminare, camminare, camminare. Era una
strada con la neve rossa e questa è la cosa che dal punto di vista visivo
mi ricordo di più.
Gli immondezzai che incontravamo sulla strada, erano la nostra felicità.
Erano letamai, grandi nel mio ricordo, si stagliavano nelle notti terse
di gennaio e noi ci gettavamo come piranha, come pazze, sugli schifi che
c’erano nei letamai: bucce di patate crude, sporche di terra, torsoli
di cavolo marcio; tutti gli avanzi avariati dei civili tedeschi – che
avevano veramente poco in tempo di guerra e che tuttavia potevano buttare
– per noi erano la felicità. Ci riempivamo lo stomaco di questi orrori,
sapendo perfettamente che il giorno dopo puntuali vomito e diarrea ci
avrebbero servito, ma intanto, in quel momento, lo stomaco era pieno e
il cervello poteva comandare alle gambe: «Cammina, cammina, cammina, cammina...».
Non morite, la guerra sta per finire
Arrivammo poi in altri Lager: il Ravensbruck, lo Jugendlager.
Furono esperienze tutte diverse, tutte tragiche. Si perdevano anche quei
pochissimi contatti con le prigioniere di Auschwitz, si riduceva sempre
di più il numero delle superstiti, di quelle che erano scese dal treno
l’anno prima.
E fu poi l’ultimo campo in cui vissi nella primavera del 1945: Manschow,
era nel nord della Germania, un piccolo campo di cui si vedevano i confini.
Era una visione strana, perché ad Auschwitz e anche a Ravensbruck, finito
un lager, ne cominciava un altro, c’era quindi una visione praticamente
infinita di prigionia. Mentre a Manschow la sensazione era incredibile:
mentre noi eravamo dentro c’era un fuori. Dentro il lager, fuori i prati.
Vedevo i prati, perché anche lì era arrivata la primavera, questo miracolo
della natura che si ripete ogni anno, ma che io ho notato solo in quell’occasione
con lo stupore che merita: perché un filo d’erba diventava speciale, era
una creatura libera, su cui nessun uomo poteva comandare, nasceva liberamente,
perché era la primavera che era arrivata anche lì...
Noi da dentro, dal grigiore assoluto del lager, da quell’appiattimento
psicofisico che aveva colpito tutto e tutti, vedevamo l’erba, vedevamo
gli alberi con le prime foglie.
Nelle prime ore del pomeriggio in quest’ultimo lager non si lavorava,
c’era il permesso di uscire dietro la baracca, chi stava ancora in piedi
– io stranamente, con poche altre, anche se ormai ridotte a fantasmi senza
sesso e senza età – usciva in quel primo tiepido sole.
Guardavamo la natura, fuori, libera, mentre noi eravamo prigioniere. Sognavamo
di cogliere quell’erba, di metterci in bocca una foglia, di camminare
sul prato, sognavamo che avrebbero aperto quel cancello e che noi saremmo
uscite e avremmo camminato ancora come una volta.
Improvvisamente, un giorno, vedemmo passare in fondo al campo dei prigionieri,
ragazzi, che non indossavano né divisa dei lager, né stracci. Erano prigionieri,
però, sorvegliati da guardie, erano ragazzi francesi, soldati. Essendo
stati presi come prigionieri di guerra, lavoravano nelle cascine, nelle
fattorie tedesche, in un momento in cui gli uomini erano tutti in guerra,
era necessaria manovalanza nelle campagne. Passavano un giorno dopo l’altro
e si incuriosirono guardandoci, noi ectoplasmi, figure orrende dei lager.
Ci urlavano ogni giorno: «Mais qui êtes-vous?». Mi ricordo che, in coro,
perché non avevamo più voce, rispondevamo: «Siamo ragazze ebree». Ragazze?.
Eravamo personaggi di cui non si capiva né età né sesso... Ma quando quei
soldati capirono che eravamo veramente ragazze, perché ognuna gridava:
«Io ho 20 anni». «Io ho 25 anni». «Io ho 15 anni». «Io ho 18 anni», ebbero
pietà di noi.
Dopo i prigionieri detenuti di San Vittore furono i primi ad avere pietà
di noi.
Furono fratelli al di là del filo spinato e ci rassicurarono: «Non morite,
abbiate speranza, la guerra sta per finire!».
Noi non avevamo mai più avuto notizie, né letto un giornale, né sentito
la radio, spesso ci eravamo chieste fra noi: «Ma quanto andrà avanti?
Stiamo veramente per morire?» E la morte era sempre in agguato con tutte
le malattie del lager: la dissenteria, gli ascessi, le febbri non dal
termometro, ma talmente forti da togliere quel filo di forza che ancora
teneva in vita. «La guerra sta per finire». «I Tedeschi stanno perdendo
su due fronti». Era quasi impossibile da credere una notizia così bella,
quasi impossibile da sopportare, il cuore faceva male, eravamo troppo
deboli per crederci. I francesi ogni giorno ci davano il bollettino: «Gli
Americani sono a trenta chilometri». «I Russi sono a venti chilometri».
Rientravamo nella baracca e lo riferivamo a quelle che non si alzavano
più: «Non morite, non morite. Ci dicono di non morire, tenetevi forte».
Alcune ragazze morirono nei giorni seguenti la liberazione, perché eravamo
veramente arrivate alla soglia della morte...
In quei giorni cambiò qualcosa nella gestione del campo che era sempre
stata segnata dalla disciplina, da un ordine quasi maniacale: i nostri
persecutori innervositi, caricavano scrivanie, dossier, documenti, macchine
da scrivere su camion, camioncini, le famose motociclette col side-car.
E portavano via, mentre noi ci chiedevamo: «E di noi che cosa sarà? Ci
ammazzeranno tutte, perché adesso non vogliono certo farci trovare in
questo stato». Non fecero in tempo. I fronti si avvicinavano con una velocità
enorme, le armate naziste erano in rotta su due fronti, come ci raccontavano
tutti i giorni i ragazzi francesi, rasserenandoci: «No, non vi ammazzeranno,
abbiate fiducia!» Fu così infatti. Aprirono quel cancello che avevamo
sperato tante volte di vedere aperto e ci fecero uscire. Uscimmo tutte:
quelle che stavano ancora in piedi, e anche quelle che da giorni non stavano
più in piedi, si rialzarono... è l’enorme forza che c’è in ognuno di noi,
quando pensiamo di non farcela più, se vogliamo, siamo forti, fortissimi,
dobbiamo crederlo per costruire la vita.
Non ho raccolto quella pistola
Eravamo le larve di quello che eravamo state, eravamo ancora
prigioniere su quella strada, ma fummo testimoni del mondo che cambiava.
Fummo testimoni di qualcosa di incredibile: nelle ore che seguirono vedemmo
aprirsi le case, fuggivano i Tedeschi, quei civili che non avevano mai
aperto le loro porte e i loro cuori ai prigionieri se non rarissimi casi,
veramente eroici, fuggivano anche loro, volevano andare nella zona americana
perché sapevano che a Est stavano per arrivare i Russi. Si univano a noi,
si mescolavano a noi prigionieri, civili e guardie, terrorizzati, si mettevano
in mutande vicino a noi...
Esterrefatti li guardavamo buttare la divisa nel fosso che seguiva la
strada, allontanavano il cane, che era il distintivo delle SS, quel povero
cane che sarebbe stato buono per natura se il suo padrone non lo avesse
addestrato in modo crudele. In quel momento erano loro ad avere paura
e si mettevano in borghese, tornavano alle loro famiglie, tornavano a
essere padri affettuosi e avrebbero raccontato che la Shoah non era accaduta.
Nella nostra debolezza estrema, come ubriachi, su quella strada, vedevamo
il mondo cambiare davanti ai nostri occhi.
Io avevo odiato, per tutto il tempo della mia prigionia, i miei persecutori,
li avevo odiati con una forza enorme e in quel momento, quando vidi il
comandante di quell’ultimo campo vicino a me spogliarsi e buttare divisa
e rivoltella, ai miei piedi pensai: «Adesso, con grande fatica, vista
la mia debolezza, mi chino, prendo la pistola e lo uccido».
Mi sembrava il giusto finale per quello che avevo visto e sofferto, per
quello che avevo visto soffrire e morire intorno a me. Un attimo. Una
tentazione fortissima. Ma, in quell’attimo stesso in cui ebbi la tentazione
di uccidere, capii che io ero diversa dal mio assassino, che io non avrei
mai potuto uccidere nessuno per nessun motivo. Se avevo scelto la vita,
non potevo mettermi sullo stesso piano di chi aveva nutrito a tal punto
di odio la cultura del proprio Paese da collocare nei luoghi del potere
simboli di morte come le tibie incrociate e il teschio.
Io avevo scelto la vita quindi non avrei mai potuto uccidere nessuno.
Non ho raccolto quella pistola e da quel momento non solo sono stata libera
ma sono diventata donna di pace. Appartengo a una specie in via di estinzione:
i sopravvissuti della Shoah, sono nata nel 1930, sono oggi una delle più
giovani di quei 90 sopravvissuti che vivono in Italia che possono dire
come me: «Io c’ero». Quando vado a parlare nelle scuole, nelle università,
nei circoli, nelle parrocchie, ovunque mi invitino, vorrei prendere per
mano quelli che mi ascoltano, visto che la mia testimonianza non è né
un’elaborazione né uno studio teologico, critico, filosofico, storico,
psicanalitico, ma una storia personale. Vorrei prendere per mano le persone
e invitarle, mentre racconto, a non perdere nella vita nessun momento
di amore verso coloro che ci vogliono bene… Sono momenti preziosi, che
caricano per tutta la vita.
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