“Repubblica – Palermo” 26. 1. 05
Augusto Cavadi
Quel dialogo aperto fra ebrei e cristiani
(torna all'indice informazioni)
Quando usiamo olocausto (traduzione maldestra dell’ebraico
shoah) per denominare lo sterminio dei campi di concentramento
nazista, non capiamo bene cosa diciamo. Ebrei contemporanei lo fanno notare:
‘olocausto’ è un’offerta sacrificale col quale l’uomo crede di onorare
la maestà divina, ma un Dio che abbia potuto gradire simile omaggio o
non esiste o non merita di essere adorato.
Restituita alla laicità della storia, la tragedia del popolo ebraico non
appare meno orribile. Come può essere accaduto? Nessuno ha risposte esaurienti.
Ma almeno questo si può dire: eventi di questa portata non sono mai improvvisi
come uno tsunami. Ci son voluti venti secoli di incomprensioni,
maldicenze, persecuzioni perché – come per una china sinistra – la palla
di neve dell’anti-ebraismo diventasse la valanga del genocidio. Affinché
l’orrore non si ripeta – alcuni episodi di cronaca ci avvertono che niente
è troppo assurdo per essere rivissuto – possiamo solo sobbarcarci la via
lunga di una conversione culturale che rimetta in discussione pregiudizi
bimillenari .
La necessità di riprendere il dialogo fra cristiani ed ebrei - avvertita
in tante aree del pianeta – è particolarmente urgente nel Mediterraneo:
noi siciliani l’abbiamo interrotto sin dal XV secolo quando i cattolicissimi
regnanti spagnoli (da cui dipendevamo) hanno delicatamente offerto alle
comunità ebraiche la scelta fra convertirsi o emigrare.
Ed è per questo particolarmente significativo che proprio recentemente
l’aula magna del Centro educativo ignaziano (ex Istituto Gonzaga) si sia
gremita per ascoltare il vulcanico rabbino di Ferrara, Luciano Caro. Il
Centro pastorale diocesano per l’ecumenismo ed il Segretariato per le
attività ecumeniche hanno organizzato questo incontro nella consapevolezza
che cristianesimo ed ebraismo possono cessare di costituire coperture
ideologiche per tensioni politiche solo se ricominciano a parlarsi. E
ciò non è per nulla facile.
Vi si oppone - come è ovvio - l’atteggiamento regressivo dei fondamentalisti
di ogni confessione religiosa (ebrei, cristiani o islamici che siano)
che hanno paura di aprire gli occhi sulla storia e sulle ragioni degli
altri. Vi si oppone altresì – e questo è un po’ meno ovvio - l’atteggiamento,
solo apparentemente progressista, dei ‘laicisti’ che ostentano, con soddisfatta
sufficienza, totale ignoranza in campo teologico.
Invertire l’andazzo attuale – dunque contrastare l’analfabetismo galoppante
su tutto ciò che riguarda il fenomeno religioso – si scontra poi, in Italia,
con difficoltà specifiche. Sappiamo infatti che – a causa del Concordato
- alla libertà ‘formale’ di studiare ciò che si vuole corrisponde, nei
fatti, una drastica ristrettezza mentale: nelle università statali è impossibile
studiare teologia e nelle scuole - elementari e medie – si può studiare
(eccezion fatta per pochi docenti illuminati che non rispettano alla lettera
i programmi ufficiali) solo teologia cattolica. Anzi, in verità, neppure
questa perché dalla pratica didattica della stragrande maggioranza degli
insegnanti di religione (col pieno appoggio dei colleghi e dei dirigenti
scolastici) sono scomparse letture bibliche e chiarimenti dottrinari,
allegramente sostituiti da test psicologici sull’affettività e raccolta
di carta usata per i barboni.
Se la ricerca teologica fosse davvero ‘libera’ (dunque praticabile oltre
i recinti delle università pontificie - controllate dal papa - e degli
istituti di scienze religiose diocesani - controllati dai vescovi) e se
i suoi risultati potessero agevolmente arrivare ai docenti che occupano
le cattedre sparse sul territorio nazionale (attualmente insegnanti di
‘dottrina cattolica’ dipendenti direttamente dall’autorità religiosa locale;
in ipotesi insegnanti di ‘storia delle religioni’ dipendenti esclusivamente
dal Ministero dell’istruzione), avremmo le condizioni necessarie per rivedere
molti ‘luoghi comuni’ ormai radicati nell’immaginario collettivo.
Tra i pregiudizi che regnano indisturbati in proposito s’incontra la convinzione
che ebraismo e cristianesimo siano stati – sin dalle origini – due ‘religioni’
ben delineate e nettamente contrapposte. Per circa due millenni si sarebbe
sviluppata e consolidata la religione ebraica; poi sarebbe arrivato un
certo Gesù che – spiazzando discepoli e avversari – avrebbe dichiarato
di essere Dio in terra e di voler fondare una nuova religione. In pochi
anni gli astanti avrebbero preso posizione: alcuni tradizionalisti si
sarebbero confermati nelle loro posizioni ebraiche, altri più aperti avrebbero
abbracciato il cristianesimo e volto definitivamente le spalle alla religione
dei padri. Con tutte le conseguenze dolorose che, in venti lunghi secoli,
la storia ha abbondantemente testimoniato.
Ma le cose sono andate davvero così?
Come ho potuto apprendere, partecipando ad un seminario nazionale organizzato
a Napoli su iniziativa della Facoltà teologica dell’Italia Meridionale
e dell’Università “Federico II” , gli storici del cristianesimo sono arrivati
a conclusioni parecchio diverse. Per riprendere le parole di uno di loro,
Sergio Tanzarella, “l’idea tradizionale che individuava in Gesù il fondatore
del cristianesimo quale religione già sostanzialmente distinta dal giudaismo
oggi è decisamente revocata in dubbio. Quelle che venivano presentate
tendenzialmente come due realtà monolitiche, separate e contrapposte sin
dall’inizio, hanno rivelato un volto più pluralistico e un patrimonio
comune di gran lunga più ampio di quanto non si sospettasse. Oggi difficilmente
si può più dubitare che il variegato movimento messianico animato dalla
fede in Gesù di Nazareth abbia costituito una corrente interna al giudaismo”.
Se storicamente i fatti si sono svolti così, il cristiani non possono
guardare agli ebrei come a “deicidi” di cui diffidare: bensì come a fratelli
maggiori, forse meglio come ai genitori da cui hanno tratto origine. Essere
cristiani non può comportare il rinnegamento delle radici giudaiche perché
è uno dei modi (originale per quanto si voglia) di essere ebrei. Questa
consapevolezza non ha nulla a che fare con l’indulgenza nei confronti
dello Stato d’Israele attuale: se mai, legittima ulteriormente la protesta
contro comportamenti politici in contraddizione con la storia di un popolo
tanto a lungo – e tanto ingiustamente – perseguitato. E la stessa figura
del Maestro va rivisitata, anche a costo di ridimensionarne i tratti mitici
posteriori. Una sana demitizzazione non può che aprire spazi al dialogo
fra le religioni e, conseguentemente, fra le civiltà da esse profondamente
contrassegnate. Il futuro politico dell’umanità non può che guadagnarci.
E Dio, se c’è, altrettanto.
|