Data di pubblicazione: 01/06/2016
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Riflessioni sul lavoro di cura

In "Appunti sulle politiche sociali", n. 6/2014

Mario Paolini, pedagogista e formatore, Treviso

Il mio primo giorno di servizio civile in un istituto per “handicappati gravi e gravissimi” non fu dei migliori, avrei voluto andarmene da quella situazione che mi creava un enorme disagio. Guardavo le operatrici e cercavo di trovare qualcosa che risolvesse i miei problemi, bisogno prioritario rispetto allo star bene delle persone che mi erano affidate e con cui avrei dovuto condividere diversi mesi. Non fui “accolto”; ero semplicemente lì e nessuno dei presenti aveva voce in capitolo, anche loro erano lì, costrette a perder tempo per spiegarmi le cose. Le descrizioni che mi vennero fatte degli ospiti si stampavano nella mia mente in modo indelebile, qualsiasi informazione andava bene perché io mi sentivo a disagio nello stare lì con persone che si aspettavano qualcosa da me, e a disagio con me stesso, preoccupato dai primi sguardi che avevo dato a quel mondo estraneo e ai suoi abitanti: qualsiasi cosa arrivasse mi andava bene perché almeno era qualcosa rispetto al vuoto. Genny, alta poco più di un metro e tanto instabile nel camminare quanto veloce nel prendermi in giro, mi era stata descritta con una serie lunghissima di brutte cose a cui avrei dovuto stare attento. Però lei mi era risultata subito simpatica e dopo un po’ mi sembravano esagerate le cose che avevo sentito dire dalla persona che mi aveva fornito l’elenco. C’è un particolare non secondario: quella persona mi stava antipatica e che la cosa fosse reciproca si rese subito evidente. Forse per questo, quando Genny dietro di me cadde battendo pesantemente la testa  sul pavimento, mi sentii morire dalla paura ma forse più ancora mi sentii colpevole perché mi avevano avvisato che aveva crisi epilettiche, ero arrabbiato con quella là perché non sapevo che cos’era una crisi epilettica e avrei preferito saperlo in altro modo. Già dal giorno dopo Genny mi fece capire che quando si sedeva per terra e diceva “me ciapa mal”[1] era perché sapeva quel che stava arrivando. Mi ricordo perfettamente la sua voce e il modo con cui mi chiamava per nome quando riconosceva la mia voce, perché non vedeva quasi niente. Ho rivisto Genny trent’anni dopo; avrei voluto andar via subito dal posto in cui era perché non mi piaceva quel che vedevo fare dalle persone che la seguivano, il modo con cui le si rivolgevano. Io la conoscevo, anche dopo tanti anni l’avevo riconosciuta, non era più un’estranea, una somma di sintomi e di problemi. Avrei ri-cominciato in modo diverso: perché allora vedevo fare le stesse cose, sbagliate, che avevo fatto anche io al mio inizio?

Il processo di inclusione

L’imprinting è un apprendimento ma non serve studiare: ognuno di noi decide che una cosa è giusta o sbagliata in base a quel che vede fare da qualcuno di cui si fida. Cambiare idea è un processo molto più lento e complesso, si può imparare che esistono comportamenti diversi da quelli appresi in  quel modo, però si tratta di conoscenze acquisite con l’esperienza, lo studio, con frequentazioni di determinati ambienti. La ragione contro il cervello antico, il pensiero contro l’agire istintivo: un duello in cui è difficile sapere in anticipo chi vince. Ogni volta che imparo qualcosa che non  conosco, ogni volta che il fidarsi sembra la soluzione a molti malesseri del corpo o dell’animo umano, si è in una condizione di fragilità e di esposizione a scelte che ci arrivano da altri, da altro.

Quale può essere la relazione tra i meccanismi dell’imprinting e quelli che contribuiscono a determinare un atteggiamento di accettazione, integrazione, inclusione oppure di rifiuto, esclusione, violenza? L’inclusione è un processo delicato e complesso da costruire e ri-costruire ogni giorno che si realizza non solo attraverso le cose che vengono fatte ma anche dalle reazioni degli altri, delle persone che appartengono all’ambiente e risentono degli effetti di ciò che si fa. L’esclusione è un processo più rozzo e a volte affatto delicato: ma i principi sono gli stessi. Ci troviamo di fronte a comportamenti agiti certamente in base alle conoscenze, al piano cognitivo, ma anche a ciò che ciascuno pensa sia giusto fare in base ai propri pensieri, al piano emozionale.

La cultura dell’inclusione a cui facciamo riferimento nel nostro paese è cultura di minoranza. Certo, tutti ne parlano e non perdono occasione per mostrare comprensione al riguardo ma penso sia importante tenere conto che è minoritaria, così forse ci si attrezza per apprezzare meglio le cose belle che si realizzano ed essere meno pessimisti di fronte alle tante che non funzionano mantenendo una giusta misura che favorisce il costruire: perché se è vero che i risultati dell’inclusione delle persone con disabilità sono mediamente buoni e, soprattutto quelli riferibili alla scuola, offrono ad altri paesi dei dati importanti per superare la logica della separazione e degli istituti ancora presente, è anche vero che sono risultati freschi, più appartenenti a “buone prassi” che al sistema, continuamente ribaltabili se si smette di lavorare e di pensare in modo inclusivo. Vale per la scuola e per tutti gli altri ambienti: ogni giorno lo vediamo e siamo coinvolti in situazioni che sottendono, evidenziano, processi di umanizzazione o di disumanizzazione, come spiega bene Andrea Canevaro che sempre più mette questa riflessione al centro del suo pensiero. Quindi, quella dell’inclusione è cultura di minoranza ma è cultura, un meccanismo complesso che richiede tempo per attecchire e che necessita  dell’attivazione di diverse aree del cervello ben collegate tra loro da sinapsi efficienti: ma sono aree evolute, più vicine alla neocorteccia che al cervello antico; l’imprinting invece è collegato alla pelle, alla pancia, viaggia più veloce del ragionamento e della comprensione razionale, e lascia il segno in modo molto più evidente perché arriva prima, nei primi momenti. Paura e ignoranza sono elementi facilmente reperibili e quando sono insieme basta un piccolo innesco per sviluppare un incendio di cui non sono prevedibili a priori le conseguenze, cosa e chi brucerà. La cultura, la conoscenza e la coscienza, sono sempre stati dei potenti antincendio di cui è bene avere una adeguata riserva, insieme a buoni piani antincendio, per saperli usare adeguatamente.

Questa è una delle ragioni per cui credo che nel lavoro educativo e nella cura è necessario dare maggiore attenzione a ciò che accade nei primi momenti: vanno progettati con cura[2] e va mantenuta verso di essi una memoria attiva che deve tradursi in metodo di lavoro. Mi riferisco anche all’attenzione ai primi momenti per una persona che inizia un lavoro: è necessaria una cura attenta a questa seconda nascita, parafrasando Pontiggia[3]; è importante tenere presente che ciò che sta accadendo ad altri è qualcosa che è già successo anche a chi oggi è divenuto “esperto”. Proprio qui serve la memoria attiva, questa attenzione deve essere un elemento fondante del progetto, dell’agire per progetti. Penso alla memoria di se stesso in primo luogo: il bravo educatore (insegnante, operatore..) dovrebbe sempre ricordarsi quanto tempo e quanto lavoro ci ha messo per arrivare dove è ora, dovrebbe ricordarsi che anche per lui all’inizio c’erano paure e pregiudizi. Ogni persona ha la responsabilità di quale segno lascia nell’altro per ciò che fa e come lo fa, perché l’altro, quando non sa, si fida di chi pensa sia “esperto”: a prescindere da ciò che fa e come lo fa. Quando in una struttura entra un volontario oppure un ragazzo per un tirocinio, nei primi minuti si fissa qualcosa di analogo all’imprinting. L’odore che uno sente entrando la prima volta in una casa è diverso da quello che sente chi vi abita. Gli sguardi, il modo di toccare, la velocità o la lentezza, i toni di voce, sono segni e lasciano segni. 

Nella relazione di aiuto

Ogni persona che comincia a lavorare nella relazione di aiuto è animata da buone intenzioni, cerca di fare del proprio meglio. Cerca nel rispecchiamento con chi ha di fronte conferme di sé in quel contesto. Chi se lo ricorda il proprio primo incontro con una persona disabile, con una persona diversa? Chi si ricorda del primo giorno di lavoro? Uno dei ricordi che più mi son sentito dire è la sensazione di non saper cosa fare, il disagio e la preoccupazione nel sentirsi osservati e giudicati dagli altri.  Ci sono anche risvolti comici: facendo incontri di formazione più di una volta è successo che qualcuno ha confessato di non aver capito subito, nel primo giorno, se quella tal persona che gli era andata incontro era un operatore o un “abitante” di quel luogo, e chi ha un po’ di memoria sa che a volte è proprio così. Tutti quelli che in circostanze simili hanno avuto un aiuto, una persona che gli è stata a fianco, che li ha accolti e accompagnati, se ne ricordano perfettamente anche dopo anni; allo stesso modo ci si ricorda bene se i primi giorni si è stati lasciati da soli, se ci si è sentiti soli, persi: in molti se ne ricordano, però fa fatica a diventare “metodo”; più spesso queste storie finiscono in quel cestone indistinto dove si accumulano molti pezzi importanti del lavoro in relazione di aiuto. Pezzi indispensabili, poco valorizzati e a cui viene data poca antiruggine, eppure lo sappiamo che sono importanti, ma è come per il codice della strada: lo si conosce e lo si è studiato ma si guida come si può e come si vede fare. Avere memoria del proprio “primo giorno” significa avere ben presente la strada che si è fatta, strada che ogni persona che comincia deve fare, deve poter fare, con le proprie gambe. Non posso chiedere all’ambiente, alle altre persone, di condividere e accettare velocemente ciò che io stesso ho elaborato in anni di conoscenza, esperienza e fatica; sarebbe un intollerabile errore di valutazione e potrebbe compromettere il buon esito di un progetto. Una educatrice mi raccontava tempo fa la sua rabbia verso i residenti vicino al centro diurno dove lavora e in particolare rispetto al barista e a quelli che frequentano il bar vicino al centro. Ogni volta che lei entrava con il suo gruppo di persone disabili in uscita e si fermavano a fare colazione sentiva commenti ironici e a volte palesemente offensivi a voce non tanto bassa. Mi chiedo: e perché avrebbero dovuto fare commenti diversi? Entrare in un bar con un gruppo di persone disabili che magari esibiscono comportamenti non del tutto “sociali” è un dato a cui tutti si debbono adeguare o non dovrebbe essere piuttosto l’esito di un lungo e progettato percorso? Quale effetto si ottiene se non si tengono in debito conto queste componenti del progetto? Il contesto si modella con e come i neuroni specchio. Non si deve solo fare, si deve far vedere e altri debbono poter vedere con i propri occhi ed essere facilitati ad apprendere. Anche questo è imprinting. Che errore lasciare senza un adeguato sostegno il nuovo collega, il volontario, il tirocinante, perché a prescindere da ciò che si è studiato, le cose che si vedono fare diventano il “si fa così”: qualcosa che va bene solo se fatto in quel modo visto fare dagli altri, perché loro sono più esperti di me! È importante curare l’inserimento, offrire spazi di confronto e utilizzare il punto di vista di chi è meno “contaminato” per una riflessione metavalutativa condivisa; è importante avere qualcuno che chiede “come va?” perché così si costruisce un clima a-valutativo, indispensabile condizione per l’agire in equipe. L’errore a volte è l’autoreferenzialità, ritenere che quello giusto sia il proprio modello e che gli altri devono solo apprenderlo e applicarlo. È un rischio particolarmente presente in questa fase storica, con servizi che compiono trent’anni (qualcuno ben di più) e si fatica a trovare un ricambio, di generazione e di orizzonti, tra vecchi schemi non più attuali e logorati e nuovi tecnicismi, attraenti a volte ma pericolosamente devianti rispetto alla storia e al senso costruito fin qui. Altre volte è stanchezza, distrazione, le mille altre cose da dover fare: il risultato non cambia. Di fronte alla medesima situazione, a seconda di ciò che riteniamo più giusto in base alle nostre idee e conoscenze, il risultato può essere un processo che va verso l’inclusione oppure verso la discriminazione e nella definizione del risultato pesa tutto quello a cui siamo esposti: se è così, la responsabilità personale di ciascuno nel contribuire a costruire un mondo inclusivo è determinante, non c’è neutralità possibile, si è comunque coinvolti. Davanti a un ragazzino che ha comportamenti disturbanti in classe, solamente con un buon lavoro di tutti si può avviare un processo che partendo dall’accettazione proverà a sviluppare integrazione e costruire inclusione. Non basta un bravo insegnante di sostegno e non basta nemmeno la scuola nel suo insieme, se non è aperta a ciò che sta intorno. Ma di fronte allo stesso ragazzino potrebbe avviarsi un processo innescato da incomprensioni, fatiche, che determinerebbe un rifiuto, più o meno esplicitato, sviluppando inevitabilmente un atteggiamento di esclusione che si manifesta attraverso comportamenti di  violenza: perché è violenza ogni volta che ad una persona sono sottratte delle possibilità in base ai giudizi, ai pre-giudizi, che altri se ne fanno. “È troppo grave per stare qui! Non può venire in gita potrebbe farsi male! Non lo vogliamo perché picchia i nostri figli! Non lo vogliamo: perché non sappiamo cosa fare”. Sarebbe troppo facile pensare che ciò possa avvenire solo per errori o per malafede. A me preoccupano maggiormente queste situazioni quando sono agite da persone in buona fede, che pensano che sia giusto così. Se a queste persone si sommano quelle che pensano che tutto sommato queste cose non li riguardino, temo, come ho già detto, che i due insiemi siano ancora prevalenti rispetto a chi pensa diversamente. 

Quanta violenza nascosta?

Sono davvero troppi e troppo frequenti gli episodi di violenza, intolleranza e abuso che arrivano alle cronache; specchio distorto di realtà complesse ma comunque episodi che non possono essere ignorati e che vanno affrontati fino in fondo, resistendo alla tentazione di fare in fretta. Quanti sono i fatti di violenza tollerati e messi a tacere ogni giorno? Per un episodio che raggiunge le cronache dei giornali o della televisione, quanti ce ne sono che rimangono coperti? Chi sono le persone che vanno oltre i limiti? Come si diventa così? Sarebbe forse più facile, e in ogni caso non ne ho la competenza, puntare il dito addosso alle responsabilità delle organizzazioni nei loro diversi snodi, dalla politica all’amministrazione, ma credo che non sia sufficiente e soprattutto possa essere una pericolosa illusione che le responsabilità possano essere sempre e comunque di qualche “altro”. Rileggere quanto ho scritto nelle pagine precedenti a proposito della responsabilità dell’imprinting alla luce del tema degli abusi mi sembra possa già essere spunti per aprire delle riflessioni. Quando mi sono occupato della vicenda dello sterminio dei disabili durante il nazismo ho scritto, a proposito di Hadamar,[4] che non era tanto il fumo in sé a preoccuparmi quanto il fumo in me[5], la parte cattiva che vedo in altri ma che so abitare anche in me. L’esperimento Milgram del 1961 fornì oltre cinquant’anni fa alcune agghiaccianti spiegazioni possibili al fatto che le cose cattive non sono fatte solo dai “cattivi” ma che ogni brava persona può in determinate circostanze comportarsi in modo ignobile.  Forse vi sono altre spiegazioni più semplici da accettare: esiste il mostro come esiste la viltà, forse a qualcuno piace avere delle vittime a cui imporre le proprie miserie, forse in qualche caso ci vuole davvero un grande coraggio a ribellarsi: è facile dire che bisogna ribellarsi alla camorra se si abita in una tranquilla cittadina del Nord, ma se fossi nato a Scampìa? È facile dire che i vecchi non si devono legare al letto, ma se l’ho sempre visto fare fin dal mio primo giorno di lavoro? E se lo vedo fare e sto zitto o faccio finta di non avere visto perché ho paura di perdere il posto di lavoro se parlo o forse, semplicemente, perché penso che non sono cose che mi riguardano? Quanto tempo ci metto ad abituarmi a quel fumo? Come la mettiamo con la gente che prima dice e pensa “che bravi quelli che lavorano con gli handicappati o con i matti” e poi vede che non è proprio sempre così? Santi o bastardi?

L’età dei nostri servizi

I servizi diurni e residenziali che oggi vediamo non hanno una storia antica, sono aperti da una trentina di anni o poco più. È circa la stessa età degli SPDC, i servizi che hanno sostituito i manicomi dopo la Legge 180 di Franco Basaglia. Prima c’erano gli istituti e chi ci lavorava dentro non aveva preparazione, era già tanto che li “tenessero”. Pinel nel ‘800 sciolse i matti tenuti in catene legate al collo come i cani, ma troppe volte sono state sostituite dalle cinghie di contenzione, dall’onnipotente farmacologia. I servizi che accoglievano i “ragazzi” disabili trent’anni fa erano orientati a dare spazio ai casi meno gravi, perché gli altri per molto tempo ancora restarono nascosti in casa o in istituto. Quanti servizi oggi scoppiano perché incapaci di gestire i casi gravi, (incapaci?) di applicare i principi dell’integrazione e dell’inclusione nelle situazioni difficili? Quanti genitori di bambini con disturbi del comportamento si sentono rifiutati dalla scuola e cosa pensano quei bambini? Quant’è sottile il confine tra diventare tante piccole parti di un “manicomio diffuso”, dependaces in rete ma di un istituto , o essere qualcuno (qualcosa) che giorno dopo giorno prova per davvero a costruire futuro, senza eroismo ma con tenace civismo? Perché questo confine venga attraversato, senza rendersene conto, non servono oscure organizzazioni, basta un po’ di mediocrità in più. Credo che la cultura dell’integrazione non possa permettersi di cedere alla mediocrità da un lato e alla logica prestazionale dall’altro. La discussione in psichiatria tra chi ritiene giusto applicare la contenzione e chi no è meno vivace di quanto ci si potrebbe aspettare in un paese che ha rivoluzionato la psichiatria; mi chiedo quale sia il livello analogo di discussione nelle case di riposo e nelle strutture dove ci sono persone con disturbi del comportamento. Mi chiedo perché si stia zitti di fronte alla ripresa di un modello di esclusione anziché di inclusione, all’aumento di voci a sostegno di azioni escludenti “fatte per il bene della persona” si dice. Diminuisce il tempo in cui si sta ad ascoltare il disagio, si cerca di incontrare l’altro, si riflette su di sé nella relazione con l’altro. Segnali di guerra che stridono con la cultura e la conoscenza, alimentati da intolleranza che forse è figlia di un clima avvelenato prima da altri fattori, trascurati  e sottovalutati, come la precarizzazione, come la perdita di riferimenti, la drammatica perduta voglia di partecipare. Credo che la maggiore e più urgente priorità, per la scuola e per il mondo sociale se vuole sopravvivere, sia di intervenire sull’ambiente. Dobbiamo assolutamente recuperare la gente, quelle persone che non conoscono nulla del nostro lavoro, che non hanno idea e nemmeno l’intenzione di farsene una; abbiamo bisogno di quelle persone almeno quanto esse hanno bisogno di noi[6]: fare i conti con questo scenario non comporta il cambiare idea ma solo ridefinire cosa si può fare con un approccio pro-positivo che sa godere dei piccoli passi. Lo so che non è facile, però mi pare comunque una proposta. Devo essere solidale anche con l’operatore aguzzino che ha messo le mani addosso ai vecchi in una casa di riposo in Liguria perché ho bisogno di capire come si arriva ad essere così, a essere diventati come lui; devo cercare di capire anche come stavano gli altri che erano lì: che hanno visto e hanno taciuto. Devo essere solidale con l’insegnante e l’operatrice che hanno picchiato più volte un ragazzo autistico in una scuola del Veneto perché solo ascoltando anche le loro voci posso sperare di capire. Essere solidale non vuol dire essere complice o schierato dalla loro parte, non vuol dire neppure illudersi di essere neutrale: odio gli indifferenti, scrisse Antonio Gramsci e ripeteva don Gallo. Non posso essere solo accusatore o giudice che condanna, devo impedire che si ripeta, capire per prevenire. Massimiliano Verga è un professore universitario a cui la sfiga ha assegnato un figlio mal riuscito, Moreno. Zigulì è un libro duro da leggere e commovente come un paesaggio di montagna: si sente il bisogno di restare un po’ silenzio davanti a entrambi. In uno capitolo Verga scrive parole crude: “anche dei chiodi nelle mutande sono più piacevoli della tua voce. Quando urli così non ho scelta. O ti sbatto in camera e chiudo la porta, oppure ti prendo a sberle. Quasi sempre finisci in camera. La ritengo una conquista”. Un giorno stavo discutendo con dei genitori di bambini disabili in una scuola e avevo citato questo passo; una mamma, bellissima e senza sorriso, mi disse guardandomi fissa “ma guardi che è proprio così!” con semplicità quella donna mi svelava che i genitori lo conoscono bene il confine oltre il quale abita la violenza. Si comincia perdendo le staffe perché la situazione ti porta fuori di testa e tutte le belle parole dette da altri non contano un maledetto fico secco. Quel giorno ho capito che i genitori hanno sempre diffidenza delle persone a cui affidano i propri figli perché sanno a che fatiche andranno incontro e che a quelle fatiche è già capitato anche a loro di non saper far fronte. Hanno paura, e non hanno bisogno di essere rassicurati, sono obbligati a fidarsi per poter af-fidarci il loro figlio e poter avere qualche attimo per sé. Non la faccio facile, sono seduto in poltrona mentre sto scrivendo, ma  penso cosa farei se fossi un genitore a cui hanno detto che la maestra o l’educatore picchiava il figlio: se me lasciassero per due minuti? Ma questo pensiero da Far West non è forse quello che contribuisce a mantenere intatto il problema? Non è proprio il modello dell’esclusione, quello per cui siamo noi a non voler vedere e sapere cosa si fa di quelle persone che non sono adatte a stare insieme con gli altri e a pretendere che qualcuno se ne occupi. E poi ci scandalizziamo se alzano le mani? Lo scandalo è eludere il problema, e tagliare le risorse abbattendo le ore di formazione e di supervisione, inutili e improduttive. Di solito chi decide questi tagli non è mai stato dentro una di quelle situazioni: se ne dovrebbe parlare.

A maniche lunghe anche d’estate

Nel 1975 Marco Bellocchio e altri amici girarono un film documentario sulle colline di Parma. “Matti da slegare” è la storia di una esperienza che ha fatto scuola e nel film la prima scena riguarda proprio la scuola. Il protagonista è Paolo un ragazzino che non vuole andare alle elementari e che aveva già mandato una maestra all’ospedale. Non so bene in quale casella nosografica oggi sarebbe iscritto, sta di fatto che era un bel problema. Nel film la voce narrante chiede a Paolo perché non va a scuola; è bello vedere qualcuno che a un bambino così offre la possibilità di esprimersi e dandogli parola gli dà dignità, parola che aiuta a capirlo e permette a lui di provare a farsi capire. La scena successiva del documentario si svolge in classe: una assemblea in cui i compagni discutono con l’insegnante cosa fare con Paolo; lui prima non vuole entrare, poi lo fa e resta nella classe senza più scappare; e parla, con la voce e con il corpo. Tra compagni inizia un confronto, mediato dall’insegnante, si dicono delle cose, si ascoltano. Ci provano. Oggi siamo meno ideologizzati degli anni ’70 e l’approccio è più efficiente. Lo specialista prescrive il Ritalin, il sistema procura insegnanti specializzati, che dialogano con specialisti che redigono diagnosi. Troppo spesso questi piccoli Paolo hanno un’unica chance: adattare le loro performance a ciò che l’ambiente è disposto a tollerare, altrimenti quando i farmaci non funzionano più la strada diventa l’esclusione. Faceva parte della regia Stefano Rulli, sceneggiatore e grande uomo di cinema. Anni dopo ha realizzato un dolcissimo film autobiografico “Un silenzio particolare”[7] che racconta la storia di Matteo, suo figlio, nato molti anni dopo aver girato Matti da slegare, con una grave forma di psicosi, di autismo, chissà. Un ragazzo difficile, uno di quelli che aggrediscono e fanno male, uno di quelli che ha genitori che anche a ferragosto girano in maniche lunghe per non far vedere i graffi e i morsi. E come lui tante persone che nemmeno conosciamo, giorno dopo giorno hanno costruito e continuano a costruire cose per cui vale la pena vivere.

Non la faccio facile, so abbastanza bene quanto è semplice dire e anche sapere quali sono le cose giuste da fare quando non si è coinvolti, ma quanto invece cambia tutto se sei dentro. Chi ha a che fare con una delle 500.000 persone malate di Alzheimer che si stima oggi siano presenti, si fa per dire, in Italia sa che non è facile. Saprei cosa dire alla badante che vive in casa con la persona ammalata, saprei accorgermi di qualcosa che non va e qualche volta potrei indignarmi nel vedere qualcosa da non vedere: ma so in quanto poco tempo si perde la pazienza con casi del genere senza la dovuta preparazione e senza una adeguata rete di sostegno? È un caso che il turnover tra queste figure sia molto alto? Sono solo loro inadeguate? Mi scrive un amico: “quando arrivò, lei mi diceva, ma si, porta pazienza, è la malattia; riusciva a vedere le cose in modo meno negativo rispetto a me. Io ero bruciato, lei era fresca. Dopo un mese io mi ero rimesso un po’ in sesto, lei stava iniziando a bruciarsi. Unico rimedio possibile: eliminare il problema? Il pensiero viene, non poche volte.” Soprattutto quando vince la rabbia dell’impotenza, quando l’agire di pancia vince sulla riflessione, sul distanziarsi. Invece, se si riesce a diminuire il bisogno di dover fare qualcosa, a dare un posto alla rabbia del sentirsi impotente e impossibilitato a uscire da una situazione da cui si vorrebbe scappare via, si da un po’ di aria al patire, al sentire pathos. E c’è posto per tutti i sentimenti che hanno a che fare con il patire, compresa l’antipatia: ma non l’a-patia, perché è  quella che fa male (ne parlo più avanti a proposito del burn out), mentre le altre forme del patire stanno dentro qualcosa che si chiama vivere. Penso alle scene che ho visto in un video girato dalle forze dell’ordine di operatori, donne e uomini,  che malmenavano dei vecchi con l’Alzheimer in una casa di riposo. Non era un film. E se domani toccasse a me? cosa? Di perdere il controllo o di essere malmenato? In entrambi i casi meglio pensarci prima  e provare a continuare a costruire qualcosa di meglio: perché è possibile, perché c’è un sacco di gente e di posti dove si lavora bene. Ci sono SPDC dove non si lega la gente e le porte sono aperte; ci sono medici in nuclei Alzheimer che provano a far star bene quelle persone, diminuiscono i farmaci, discutono con gli operatori e ascoltano le loro stanchezze; ci sono insegnanti che le prendono qualche volta dai loro alunni pazzerelli, ma che non si sognano di fare altrettanto o di mandarli in qualche altrove. Non credo che costi di più lavorare così, ma se anche fosse è quel si deve fare, da quando nella scuola si è cominciato a parlare di integrazione, da quando nel 1978 nel nostro paese è passata la riforma della sanità, diventata diritto per tutti e non privilegio di pochi.

Tre uomini dal sud del mondo hanno detto parole che mi aiutano a trovare senso a ciò che penso e provo a dire: Ernesto Che Guevara ha detto che “bisogna essere duri ma senza mai perdere la tenerezza”. Nelson Mandela ha detto che “il coraggio non è l’assenza della paura ma il trionfo su di essa”. Papa Francesco ha detto che “non bisogna avere paura della tenerezza”. Se metto insieme queste tre cose mi torna in mente una canzone di Pierangelo Bertoli, A muso duro, e suona forte la voglia di cantarla insieme ad altri.

 

[1] “mi prende male”

[2] Non è un bisticcio di parole, il tema della “cura della cura” è un nodo.

[3] “Nati due volte”, di Giuseppe Pontiggia, Mondadori, 2000

[4] Hadamar fu uno dei principali centri di sterminio di persone disabili e malate di mente da 1939 al ’41, dove furono “collaudati” i forni crematori poi utilizzati nei campi. Una foto scattata da un abitante della cittadina ai piedi del castello evidenzia come il fumo dei forni era evidentissimo a tutti, assieme al puzzo insopportabile, eppure tutti tacquero.

[5] “Ausmerzen”, di Marco Paolini, Einaudi

[6] Andrea Canevaro ha scritto benissimo come possa essere una piccola rivoluzione quella di ritenere che la disabilità sia una condizione che insegna qualcosa alle persone normali, qualcosa sul limite, qualcosa sul relazionarsi per esempio, questione di drammatica urgenza vista la complessità del genere umano e i problemi crescenti tra le nazioni.

[7] Premio David di Donatello 2005 per il miglior documentario


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