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Integrazione socio sanitaria e diritti alle cure*
L’esperienza di intervento sulle persone anziane e disabili nell’area di Collegno e Grugliasco (TO)

Mauro Perino, direttore CISAP

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Sarebbero molte le cose da dire sul tema dell’integrazione socio sanitaria. Proverò a proporre alcune riflessioni che traggono spunto dalle esperienze condotte in Regione Piemonte ed in particolare nell’ambito dei Comuni di Collegno e Grugliasco. Questi Comuni rappresentano infatti un osservatorio particolarmente interessante – con riferimento alla tematica dell’integrazione – in quanto sono stati entrambi sedi di due grandi Ospedali Psichiatrici. Quello più noto di Collegno e l’altro - quello di Grugliasco – che, per fortuna, non venne mai completamente occupato in tutta la sua capienza.

La tesi che proverò a sviluppare è che – attraverso la strumentalizzazione del concetto di integrazione tra sanità ed assistenza – si è da tempo avviato un processo di lesione dei diritti alle cure per le componenti più deboli della popolazione. I presupposti di questo processo sono innanzitutto culturali: nei primi anni ’80 si dava al concetto di salute una valenza di “benessere fisico e psichico complessivo della persona”; successivamente si è purtroppo tornati ad un concetto di salute come “non malattia”. Ma si sta facendo di peggio: si tende cioè a considerare prerogativa del servizio sanitario solamente la malattia nelle sue fasi acute e si cerca di espellere dalla pienezza del diritto alle cure la cronicità in tutte le sue manifestazioni.

In sintesi si può dire che vengono considerate “sanitarie” solamente le prestazioni “mediche” e non il complesso degli interventi – forse complementari, ma indispensabili - finalizzati ad assicurare la salute complessiva del paziente. E’ un messaggio che sta passando tra gli operatori e nei servizi anche perché trova supporto nella normativa più recente: inclusa la 328/2000 della quale non è possibile trattare – per ragioni di tempo - nell’ambito di questo intervento.

Forse è opportuno cogliere il monito di Tocqueville e ricordare che: “Quando il passato non rischiara più l’avvenire, la mente cammina nelle tenebre”! Noi tutti sappiamo che lo stato di salute e le condizioni sociali sono tra loro connesse e si determinano l’un l’altra. Sulla base di questa considerazione si è sviluppato – negli anni ’70 ed a partire dalle fabbriche – un forte movimento che ha imposto l’approvazione della legge 833/1978 istitutiva del servizio sanitario nazionale. Con la legge di riforma sanitaria, per la prima volta, si mette davvero in pratica il disposto – contenuto nell’articolo 32 della Costituzione – secondo il quale “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.

Giova infatti ricordare che l’articolo 1 della legge 833 - che a differenza della più recente legge di riforma dell’assistenza nasce attraverso un forte movimento “dal basso” che coinvolge, tra gli altri, gli stessi operatori dei servizi – assegna al servizio sanitario compiti di promozione, mantenimento e recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione, senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza (concetto oggi considerato obsoleto) dei cittadini nei confronti del servizio.

Nonostante le modifiche apportate al Titolo V° della Costituzione, in materia di sanità vige ancora il principio della “legislazione concorrente”. Spetta cioè ancora alla Stato dettare i principi generali ai quali la normativa regionale deve attenersi. Da ciò consegue che i principi dettati dalla legge 833 hanno a tutt’oggi forza di legge e vanno, pertanto, applicati!

Sulla base dell’individuazione delle competenze sanitarie definite nella legge di riforma si è sviluppato – a partire dai primi anni ’80 – un processo virtuoso che costituisce la “fase nobile” dell’integrazione tra sanità ed assistenza. In molte regioni – e tra queste il Piemonte – si legifera al fine di consentire una integrazione istituzionale e gestionale dei servizi socio assistenziali di competenza comunale e dei servizi sanitari attraverso la delega di funzioni alle unità socio sanitarie locali (allora governate dai comuni).

Con le unità socio sanitarie locali al cittadino è data la possibilità di avere un unico interlocutore istituzionale ed un’unica struttura organizzativa di servizi sociali e sanitari articolata a livello territoriale nei distretti socio sanitari di base. Per la prima volta al cittadino viene fornita la possibilità di rivendicare il proprio diritto alle cure nei confronti di un’unica istituzione e di interloquire con un unico apparato tecnico professionale. Finalmente si delinea la possibilità di non costringere il cittadino al “gioca dell’oca dell’assistenza”. Di obbligare cioè le persone – già gravate di problemi – ad assumersi l’onere di connettere e di ricomporre gli interventi e le prestazioni sociali e/o sanitarie delle quali necessitano.


I Grazie allo strumento rappresentato dall’integrazione delle competenze si aspira a socializzare e a demedicalizzare la sanità, alla quale si richiede l’assunzione diretta di tutte le valenze umane, relazionali e sociali nell’ambito delle attività di prevenzione cura e riabilitazione proprie del sistema sanitario post riforma. Si opera inoltre per lo sviluppo di quei servizi alternativi all’istituzionalizzazione che non possono venire attivati se non attraverso l’utilizzo delle risorse (umane e finanziarie) del comparto sanitario, in quegli anni decisamente più consistenti di quelle disponibili per il comparto assistenziale.

Nella nostra realtà questo ha significato la concreta possibilità di superare l’istituzionalizzazione in manicomio di persone – malate e quindi in carico ai servizi sanitari – per le quali il processo di cura richiedeva non solo l’erogazione di prestazioni “mediche” ma anche di interventi di riabilitazione che comportavano l’utilizzo di competenze “sociali”: dalle attività ludico – ricreative – culturali alle attività di inserimento lavorativo ed abitativo. Il tutto veniva però linearmente ricondotto al concetto di “promozione della salute” e, conseguentemente, era il comparto sanitario ad assumere la responsabilità primaria degli interventi e degli oneri finanziari che da essi conseguivano.

Purtroppo la “fase nobile” dell’integrazione non dura a lungo e viene messa in crisi – non a caso, vista l’esigenza di contrarre la spesa sanitaria – dalla legge finanziaria del 1984 (Legge 730/83, art. 30) con la quale si inventano “le attività di rilievo sanitario connesse con quelle - assistenziali” demandando ad apposito decreto il compito di individuarle all’interno del complesso delle attività sanitarie e sociali svolte dai servizi integrati.

A “definire” la nuova tipologia di attività interviene, nel 1985, il D.P.C.M. conosciuto come “decreto Craxi” che, all’articolo 1, recita: “Le attività di rilievo sanitario connesse con quelle assistenziali di cui all’art.30 della legge 27 dicembre 1983, n.730 sono le attività che richiedono personale e tipologie di intervento propri dei servizi socio – assistenziali, purché siano dirette immediatamente e in via prevalente alla tutela della salute del cittadino e si estrinsechino in interventi a sostegno dell’attività sanitaria di prevenzione, cura e/o riabilitazione fisica e psichica del medesimo, in assenza dei quali l’attività sanitaria non può svolgersi o produrre effetti”. Per questa tipologia di attività le regioni (destinatarie del decreto) possono riconoscere una compartecipazione sanitaria alla spesa mentre “le attività direttamente ed esclusivamente socio - assistenziali, comunque estrinsecantesi, anche se indirettamente finalizzate alla tutela della salute del cittadino” devono gravare esclusivamente sui bilanci dei comuni. L’obiettivo è, chiaramente, di ricondurre al nuovo regime di finanziamento (compartecipato) le prestazioni sino ad allora attribuite (o comunque attribuibili) per intero al fondo sanitario realizzando, in tal modo, un risparmio di spesa a scapito degli utenti e/o dei comuni.
Grazie al decreto si arresta il processo di estensione dei diritti alle prestazioni sanitarie avviato nella primissima fase di attuazione della legge 833 innescando un meccanismo di espulsione degli anziani cronici non autosufficienti, dei dementi senili e dei malati di Alzheimer, dei pazienti psichiatrici e dei disabili dal diritto ad usufruire pienamente delle prestazioni che il servizio sanitario fornisce alla generalità dei propri assistiti. In buona sostanza si opera una distinzione tra situazioni di cronicità “improduttiva” e situazioni di acuzie ed alle prime si applica un meccanismo di compartecipazione alla spesa.

Con il decreto si creano quei presupposti “culturali” – di cui dicevo all’inizio - con i quali si motiva e giustifica il periodico tentativo di espulsione dei pazienti ex O.P e dei malati di mente in generale, dalla tutela rappresentata dal sistema sanitario. Anche su questo versante si opera a colpi di leggi finanziarie , utilizzando lo strumento della penalizzazione nell’erogazione dei fondi alle Regioni. Con la finanziaria del ’95 viene stabilita la definitiva chiusura degli Ospedali Psichiatrici da realizzare entro il 31.12.1996. La successiva legge finanziaria del’97 riconferma la decisione di procedere alla chiusura e stabilisce una penalizzazione per le Regioni inadempienti. Con la finanziaria del ’98 vengono riconfermate le sanzioni per le Regioni responsabili della mancata attuazione (entro il 31 marzo 1998) dei provvedimenti necessari alla chiusura degli O.P.
Al fine di dare adempimento alle disposizioni normative nazionali la Giunta della Regione Piemonte, con deliberazione n.489/1996, adotta le linee guida per la chiusura definitiva degli ex O.P prevedendo che questa avvenga tramite rivalutazione clinica dei pazienti . La rivalutazione si concretizza nell’inserimento dei pazienti ex O.P e di quelli “territoriali – ricoverati dai Servizi di salute mentale in strutture residenziali socio assistenziali con oneri a carico del Servizio Sanitario – nelle nuove “categorie” degli adulti portatori di handicap (rivalutati di tipo A) e dei non autosufficienti anziani e non (rivalutati di tipo B). A queste due fattispecie si aggiungono le persone rivalutate di tipo C che rimangono di esclusiva competenza psichiatrica. A tutela degli Enti Gestori socio assistenziali – che senza alcuna competenza specifica si trovano a dover avallare “guarigioni” determinate dall’invecchiamento (tipo B) o a recepire le diagnosi di handicap (tipo A) formulate dagli psichiatri – la Legge regionale n.61/1997: stabilisce che “la Regione interviene finanziariamente a favore degli Enti gestori dei servizi socio assistenziali a copertura degli oneri derivanti dall’organizzazione e dall’erogazione delle prestazioni destinate ai soggetti con patologie psichiatriche in carico anche ai servizi socio – assistenziali e ai soggetti rivalutati ..”.
Ancora una volta si è costretti a barattare i diritti con le risorse. In Regione Piemonte gli Ospedali Psichiatrici erano infatti già superati ma gli oneri degli interventi alternativi al ricovero – almeno formalmente esigibili in quanto prestazioni sanitarie - continuavano a gravare sul comparto sanitario. Con l’applicazione delle disposizioni regionali si sgrava la sanità di una notevole quota di spesa attingendo ai già esigui fondi socio - assistenziali.

Intanto – mentre tutto ciò accade – alle Unità Socio - Sanitarie istituite in Piemonte sulla base della legge 833 subentrano, in applicazione dei decreti legislativi di riordino della disciplina sanitaria 502/1992 e 517/1993, le Aziende Regionali USL individuate con la L.R 39/1994. Nel 1995 la Regione Piemonte approva la L. R. 62/1995 di riordino dei servizi socio assistenziali che incentiva i Comuni a riassumere le funzioni socio - assistenziali ed a gestirle in forma associata attraverso la costituzione di consorzi tra i Comuni. L’effetto di tali scelte (indotte dalla “aziendalizzazione” del sistema sanitario nazionale) è l’estromissione sostanziale degli amministratori comunali dal governo dei servizi sanitari e socio sanitari e, in tema di integrazione socio sanitaria, il riproporsi della questione del rapporto fra funzioni e servizi delle Aziende Sanitarie e servizi dei Comuni, in ordine al problema - a tutt’oggi non felicemente risolto - dell’orientamento delle azioni ai cittadini (che dovrebbe rappresentare il primo dovere delle pubbliche amministrazioni).
E’ una situazione che deve far riflettere perché – a fronte del processo in atto di limitazione del diritto dei cittadini all’eguaglianza nell’accesso alle prestazioni sanitarie – ad essi viene anche sottratta la possibilità di una tutela efficace da parte dei rappresentanti eletti delle comunità locali. Credo – per concludere – che il problema dell’integrazione socio sanitaria possa essere risolto in due modi:
superando l’artificiosa separazione tra sanità ed assistenza e tra malattie croniche ed acute assicurando a tutti la fruizione di un sistema sanitario finanziato con la fiscalità generale;
oppure estendendo – in nome dell’equità – il principio della partecipazione alla spesa da parte degli assistiti al complesso del sistema sanitario nazionale.
Nella seconda ipotesi si applicherebbe il cosiddetto “universalismo selettivo” – introdotto nel sistema dei servizi sociali dalla legge 328/2000 – al sistema sanitario pubblico che la prima legge di riforma voleva fondato su un universalismo senza aggettivi. In ogni caso è doveroso prendere atto del fatto che un processo di selezione all’interno del sistema sanitario si è purtroppo già realizzato e che alle persone più deboli, collocate ai margini del sistema, è necessario ed urgente garantire una tutela più efficace da parte delle amministrazioni locali.



* Intervento al Convegno “Cittadinanza e diritti - Esperienze a confronto” Roma, Novembre 2004