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Fabio Ragaini, Gruppo Solidarietà
Regione Marche. I servizi post-scuola per la disabilità grave*


Evitare di scindere le Politiche dai Servizi

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Ogni riflessione sui servizi non può fare a meno di affrontare il tema delle politiche. I Servizi non possono che essere una diretta conseguenza delle Politiche. Se la programmazione ad ogni livello non riesce a situare i secondi all’interno dei primi significa che la politica sociale di un territorio è in sofferenza. Occorre quindi:

- situare i servizi all’interno di politiche più complessive che non si limitano alla sola offerta dei servizi sociali o socio sanitari;
- a partire dalle esigenze delle persone individuare percorsi che offrano risposte avendo sempre come riferimento fondamentale la piena integrazione sociale. In questo senso va inteso il passaggio dai servizi alle politiche, intendendo la necessità di non ridurre ai soli interventi assistenziali o sociosanitari la risposta ai problemi che l’handicap pone, ma avendo presente che le politiche sociali in generale (trasporti, casa, tempo libero, ecc…) hanno il dovere di occuparsi di tutti i cittadini compresi quelli in maggiore difficoltà;
- che lo sviluppo dei servizi (sia dal versante quantitativo che qualitativo) vada di pari passo con la prospettiva di autonomia, emancipazione, abilitazione e piena integrazione nella società. In questa prospettiva gli interventi educativo-assistenziali-sociosanitari non possono o devono limitarsi ad offrire prestazioni ma debbono costantemente porsi l’obiettivo del miglioramento della qualità della vita della persona. Ogni nuova “abilità” di qualsiasi tipo deve essere finalizzata ad essere spesa per facilitare l’integrazione nella società. I Servizi, quindi, non possono esaurire, il loro intervento all’interno della durata dello stesso (penso ai centri diurni, all’educativa domiciliare) ma debbono essere proiettati in una dimensione che cerca di offrire il massimo delle opportunità alle persone. Per questo è importante che le relazioni della persona con handicap non siano confinate nel circuito famiglia-servizi, ma trovino, soprattutto nel tempo libero (generalmente troppo) occasione di costruzione di relazioni all’interno della comunità locale. Relazioni che dovrebbero avere sempre come riferimento la normalità (ovvero non qualcosa fatto esclusivamente per qualcuno, ma partecipazione alle attività di tutti).

In questo senso mi sembra che una questione essenziale sia quella della mobilità e del trasporto. Molto opportunamente le recenti Linee Guida regionali sui Piani di Zona (DGR 1688/2004) indicano tra in servizi da realizzare a livello di Ambito anche i “buoni trasporto”; se infatti, in genere, il trasporto viene garantito ai fini della frequenza di un Centro Diurno, molte difficoltà nei territori ci sono per garantire il diritto alla mobilità al di fuori dei servizi.

I Bisogni

Come dicevo farò riferimento ai servizi assistenziali e sociosanitari, ma è chiaro che se vogliamo evitare che il contenitore di questi servizi comprenda “indistintamente” tutte le situazioni di handicap di un territorio, dobbiamo fare in modo che in ogni Ambito non sia solo presente una rete (ed un auspicabile governo della stessa), ma che si attivino anche altri percorsi primo fra tutti quello finalizzato all’inserimento lavorativo (pieno o protetto); mi pare fondamentale - come indicato anche nelle Linee Guida sui Piani di Zona 2005-2007 - che all’interno di ogni Ambito si istituisca un servizio di inserimento lavorativo capace di mediare tra domanda e offerta di lavoro. La dove realizzati questi servizi hanno permesso a chi poteva di avviare un percorso di inserimento a lavoro (che rimane sempre un diritto) e ridotto la frequenza dei servizi assistenziali. Ovviamente fondamentali sono i percorsi di orientamento e formazione professionale e l’integrazione tra tutti gli attori (province, asl, comuni). L’offerta di una rete territoriale di servizi, dovrebbe garantire una appropriatezza di risposta a bisogni ed esigenze diversificate. Se - come ripeto - qui facciamo riferimento agli interventi sociosanitari, nei diversi ambiti (domiciliari, diurni e residenziali); a partire dalle diverse esigenze si dovrebbero costruire le risposte più adeguate; a partire dall’obiettivo prioritario del sostegno alla domiciliarità. Per favorire la permanenza al proprio domicilio, risulta evidente l’importanza della presenza di compiuti servizi domiciliari e diurni.
Dunque un primo punto essenziale è quello della costruzione della rete territoriale dei servizi. Questo è il punto di partenza; perché senza la Rete potremo solo avere servizi contenitori (ad es. un Centro diurno per un territorio, oppure per lo stesso solo assistenza educativa, ecc…). Ma per avere Reti di servizi occorrono bacini di popolazione, e dunque Ambiti territoriali che offrono servizi in maniera associata. Poi c’è il governo della rete, ma questa è altra cosa.
Seppur la legislazione regionale non prevede gestioni associate a livello di Ambito, nelle ultime Linee Guida almeno per i servizi residenziali si chiede che ogni 40.000-50.000 abitanti si realizzi una comunità residenziale di otto posti. E’ evidente che possono essere sole le valutazioni sui bisogni ad identificare il servizio più adeguato; anche se risulta evidente che i servizi a valenza educativa sia domiciliari e diurni fanno riferimento a soggetti con deficit intellettivo, mentre la cosiddetta assistenza domiciliare che preferirei chiamare Aiuto personale, ha come riferimento soggetti che hanno una limitazione dell’autonomia (in particolare per disabilità motoria).
Vorrei ora proporre alcune riflessioni che hanno come riferimento: la tipologia dei servizi, la modalità di erogazione, il rapporto tra i vari soggetti istituzionali, l’integrazione professionale tra operatori dei diversi enti, il quadro normativo regionale.

I Servizi

Non ritorno sul tema dell’appropriatezza, mi limito ad alcune considerazioni che potrebbero - insieme ad altre scaturire dal dibattito - essere oggetto di successiva riflessione.

Servizi Domiciliari. Qui faccio riferimento sia all’assistenza domestica che a quella educativa. Come dicevo prima mi sembra importante “ricollocare” anche nominalmente - e non è detto che in alcuni territori già non lo si faccia -, l’attuale assistenza domiciliare in aiuto alla persona o servizio di aiuto personale; un servizio con una chiara prospettiva di sviluppo dell’autonomia; un servizio - quello dell’assistenza domiciliare - che così come strutturato nella gran parte dei territori, è rigido e prefissato, e mal si concilia con le diverse esigenze del fruitore; un servizio che non sempre ha come riferimento i bisogni del destinatario. Qui si tratta anche di assumere - da parte dei servizi - una nuova mentalità, con un “fruitore” che non è tanto un destinatario passivo dell’intervento, quanto il principale protagonista del servizio sulla sua persona. Significa “formare” gli operatori in questa prospettiva di autonomia.
Il Servizio di educativa domiciliare, riserva opportunità e rischi allo stesso tempo; la principale opportunità può essere quella di progetti finalizzati per obiettivi (su questo grava la grossa ipoteca della formulazione della gara - oramai quasi tutti i servizi sono affidati ad enti gestori - che prevede un monte ore complessivo con il pagamento delle ore effettivamente prestate; ciò produce nel gestore la necessità di non perdere le ore. Ogni percorso “abilitativo”, che preveda lo sganciamento dell’operatore viene bruscamente frenato dalla prospettiva di perdere lavoro); il rischio, mi sembra, quello di mantenere una fissità del servizio, che può facilmente trasformarsi in badanza, attraverso una stanca ripetizione dell’assegnazione oraria. Servizi che presentano notevoli problemi organizzativi; il primo di origine finanziaria. In questi servizi - ai sensi dei criteri annuali di finanziamento della legge regionale 18/1996 gli enti locali non hanno la certezza del finanziamento regionale (come ad es. avviene per il Centro diurno con il pagamento del 50% del costo del personale); con un finanziamento annuale (in questi casi il contributo regionale è di anno in anno dato dalla quota regionale rimanente dopo l’assegnazione dei contributi per servizi aventi certezza di finanziamento, ad es. l’anno passato è stato del 10% per i Comuni singoli e del 17 per gli associati). Un meccanismo questo che induce gli enti locali verso interventi che hanno certezza di finanziamento e questo può avere forti connotati di inappropriatezza e comunque tende a ridurre interventi di forte rilievo a sostegno della domiciliarità. Penso che sia importante che questa norma venga rivista e che venga definita una quota fissa di finanziamento sulla quale i Comuni possono contare. Sull’educativa domiciliare c’è poi il vincolo - sempre con i criteri della legge 18 - del finanziamento regionale che fissa un tetto (35 anni) oltre il quale la regione non eroga il contributo. Ciò pare ingiusto perché se il progetto individuale prevede questo tipo di intervento non ci può essere un vincolo fissato autoritariamente a livello regionale.
Altro problemi per i servizi di educativa domiciliare è la qualificazione del personale; con il Regolamento n. 1/2004, della legge regionale 20/2002 “Disciplina in materia di autorizzazione e accreditamento delle strutture d ei servizi sociali a ciclo residenziale e semiresidenziale”, sono definiti i requisiti degli educatori dei servizi diurni e residenziali; rimane invece non definita la qualifica professionale dell’operatore dell’educativa domiciliare. I requisiti sono lasciati alle indicazioni contenute nelle gare di appalto dei servizi, spesso con l’inserimento di personale con diploma di scuola media superiore e nessuna esperienza nel settore. Questo mi pare un altro grosso problema che non può essere eluso.

Centri Diurni. Mi sembra che correttamente e opportunamente la Regione Marche, in particolare con il Regolamento applicativo della legge regionale 20/2002 che definisce gli standard dei servizi sociosanitari abbia chiarito in maniera inequivocabile la funzione; un servizio rivolto a soggetti con grave deficit psicofisico per i quali terminato l’obbligo scolastico non è prevedibile un percorso di inserimento; dunque un servizio a sostegno delle persone con grave disabilità psico fisica e ovviamente delle loro famiglie; Mi pare inoltre importante ribadire che per la normativa regionale il Centro Diurno deve prevedere: “prestazioni e attività educative, riabilitative, occupazionali, ludiche, culturali, formative, prestazioni di assistenza tutelare nonché sanitaria programmata a seconda delle esigenze dell’utenza, servizio mensa e trasporto. Così come previsto nella predetta deliberazione il Centro deve garantire un’apertura di almeno sette ore al giorno, nella fascia oraria 8/19, per un minimo di 5 giorni la settimana e per almeno 48 settimane all’anno. Nel periodo di chiusura programmata che, comunque, non può superare le due settimane consecutive, deve essere garantito per le persone con disabilità più grave servizi o prestazioni alternative che siano di sostegno per le famiglie. Per ciascun Centro deve essere adottata la carta dei servizi nonché il progetto generale di struttura. Per ogni utente ospite deve essere elaborato un progetto educativo riabilitato personalizzato nonché deve essere compilato ed aggiornato, in collaborazione con la competente unità multidisciplinare per l’età adulta ed in raccordo con la famiglia, il diario personale del disabile, già distribuito per ciascun utente frequentante i Centri di che trattasi. Particolare impegno dovrà essere dedicato, da parte delle competenti UMEA, in collaborazione con i Coordinatori dei Centri diurni nell’individuare percorsi personalizzati diversi nei riguardi di quegli ospiti che presentano una disabilità tale da consentire loro l‘uscita dal centro e l’inserimento in ambito lavorativo” (DGR 129-2004)

Queste indicazioni che riprendono quelle contenute nel Regolamento regionale sulle autorizzazioni delle strutture sociosanitarie, sono già operative a prescindere dalle autorizzazioni in quanto inserite all’interno della delibera regionale che determina il contributo della Regione Marche ai sensi della legge regionale 18. Mi sembra importante ricordare che ai fini del contributo regionale riguardante la legge 18 le strutture che non sono così configurate non hanno i requisiti per accedere ai finanziamenti. Anche le ultime Linee Guida sui PdZ che purtroppo non danno indicazioni ai territori circa l’obbligatorietà di realizzazione di questo servizio - ribadiscono l’indicazione di riorientare la funzione verso i soggetti più gravi.
Queste sottolineature sono importanti perché purtroppo nel territorio regionale ci sono stati e ci sono “servizi”, chiamati “Centri socio educativi”, con orari di apertura di mezza giornata o con frequenze part time obbligatorie, senza servizio mensa, con utenza indefinita, con attività marcatamente prelavorative che di fatto escludono, gli utenti per i quali i Centri si realizzano, senza un progetto di struttura.
Servizi che devono avere forti legami con il territorio, che possono prevedere attività al di fuori, che non possono mai dimenticare la prospettiva della integrazione con il territorio.
Ricollocare i Centri secondo le indicazioni sopra indicate diventa una priorità al fine di rispondere alle esigenze di soggetti con grave handicap e di sostenere contestualmente le famiglie, ritardando il più possibile il ricorso alle strutture residenziali.

Residenzialità. Un primo punto essenziale mi pare intanto quello di andare a realizzare quanto indicato dalle LG sui Pdz; per ogni 40.50.000 abitanti una Comunità socio educativa riabilitativa (8 posti, inserita nei normali contesti abitativi) in modo che in ogni territorio sia presente un modello di risposta residenziale il più vicino possibile al modello familiare. Credo sia importante - che da un lato si vada ad una verifica del funzionamento delle strutture attivate (in particolare le comunità alloggio), anche riguardo la tipologia di utenza ospitata; dall’altro non si può non riflettere sul fatto che paradossalmente - alcune strutture, hanno domande inferiori all’offerta, oppure difficoltà ad attivare inserimenti di utenti provenienti dal domicilio. Ecco credo che su questo ultimo aspetto dovremmo riflettere; sull’indispensabile accompagnamento ai fini dell’inserimento.

Faccio solo un accenno alla cosiddetta assistenza indiretta e alla recente delibera riguardante la Vita Indipendente. Entrambi riguardanti soggetti in situazione di gravità. Sul primo provvedimento ritengo, che oltre alla modifica di alcuni aspetti riguardanti la fruizione del contributo, che questo intervento debba essere inserito all’interno della programmazione dell’Ambito concependosi come un servizio (di natura economica) accanto agli altri realizzati dagli enti locali; e non dunque non secondo l’attuale modalità: a) criteri regione; b) domanda da parte delle famiglie; c) accertamento delle Commissioni; d) erogazione del contributo.
Il provvedimento sulla Vita indipendente - al di la del percorso attuativo ancora da identificare nel dettaglio - segni un importante passaggio verso un protagonismo degli utenti nella organizzazione della propria assistenza.

La partecipazione ai costi dei servizi. Un altro aspetto rilevante è il problema della partecipazione ai costi dei servizi da parte degli utenti; un tema assai spinoso; abbiamo una situazione assolutamente diversificata all’interno del territorio regionale e anche all’interno degli stessi Ambiti; ricordo che tale partecipazione - secondo la normativa vigente - per soggetti con handicap grave che fruiscono di servizi socio assistenziali e sociosanitari domiciliari, diurni e residenziali, va considerata secondo il solo reddito del richiedente la prestazione e non del nucleo familiare.

Assetti istituzionali. Nella organizzazione ed erogazione dei servizi l’integrazione professionale e istituzionale tra settore sociale e sanitario è di primaria importanza. Ricordo che la maggior parte dei servizi sopra indicati - nel territorio marchigiano sono a titolarità comunale; a parte le comunità alloggio (l. 162/1998 e 388/2000) per le quali la regione Marche ha definito le modalità di partecipazione economica tra enti; per gli altri servizi sì è ad un livello di contrattazione locale in mancanza di una definizione regionale con tutte le difficoltà e ricadute conseguenti sui fruitori dei servizi.

L’armonizzazione della normativa. Mi sembra in conclusione che proprio al fine di offrire le risposte più adeguate alle esigenze dei soggetti che necessitano di permanenti interventi sociosanitari, sia necessaria una “armonizzazione” della normativa regionale; in questo senso mi pare opportuno:
- garantire certezza di finanziamento ai Comuni e alle Zone per la realizzazione degli interventi;
- definire le quote di partecipazione tra gli enti;
- rivedere la legge di settore; in particolare per quanto riguarda gli interventi sociosanitari; alcuni dei quali sono ora normati dalla legge 20/2002 e dal Regolamento sui requisiti dei servizi;
- Predisporre un atto di programmazione regionale sulle politiche per la disabilità.


* Si riporta il testo della relazione, con alcune rielaborazioni ai fini della pubblicazione, svolta ad Ancona il 18 febbraio 2005 al Convengo promosso dalla Consulta regionale per l’handicap della Regione Marche su Disabilità e Pari Opportunità nelle Marche. Per ulteriori approfondimenti sui temi trattati si rimanda al quaderno “I soggetti deboli nelle politiche sociali della regione Marche”, Gruppo Solidarietà, 2003 e al sito del Gruppo Solidarietà www.grusol.it link Voce sul sociale. Si rimanda anche al recente documento predisposto dal Comitato associazioni Tutela (CAT) e sottoposto ai candidati presidenti della regione Marche. Anche questo al sito www.grusol.it