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Dino Frisullo: non ‘casi’ ma persone. L'ultimo intervento sul ‘Regina Pacis’ (2003)

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[Dal sito www.stefanomencherini.org riprendiamo questo intervento di Dino Frisullo, scritto il 25 aprile 2003 sul letto d'ospedale in occasione di un convegno sui "Centri di permanenza temporanea" che si tenne a Lecce. Stefano Mencherini, dal cui sito abbiamo estratto il testo che segue, e' un giornalista free lance e regista della Rai che ha realizzato un film, "Mare nostrum", sui "Centri di permanenza temporanea" (in sigla: Cpt) ed e' impegnato per la loro abolizione.
Dino Frisullo (1952-2003), impegnato nel movimento antirazzista e per i diritti umani, per la pace e la liberazione dei popoli, fondatore delle associazioni "Senzaconfine" e "Azad", per il suo impegno di solidarieta' con il popolo kurdo e' stato detenuto in Turchia. E' deceduto il 6 giugno 2003 nel giorno del suo cinquantunesimo compleanno. Tra le opere di Dino Frisullo: L'utopia incarcerata, L'altritalia, Roma 1998; Se questa e' Europa, Odradek, Roma 1999; postumo e' apparso Sherildan, La citta' del sole, Napoli 2003. Alcune testimonianze in ricordo di Dino Frisullo sono nei nn. 577 e 1008 di questo foglio]

Comunque si concluda la duplice indagine giudiziaria per malversazioni e lesioni sul centro Regina Pacis, sara' ben difficile che qualcuno riproponga quest'esperienza a modello per fantasiosi premi Nobel per l'accoglienza, dopo che si sono levati i veli che ne occultavano il cinico funzionamento da istituzione totale. Non sono bastati gli anatemi di Fitto e dei politici salentini sugli antirazzisti "mistificatori, intolleranti, destabilizzatori delle strutture civili e religiose", ne' la difesa d'ufficio di Mantovano in parlamento. E non bastera' neppure il silenzio ipocrita di quella parte dell'attuale opposizione che condivide, e a quanto pare non rinnega, la responsabilita' della passata canonizzazione di mons. Ruppi e della sua creatura.

Dalla meta' degli anni '90, in totale solitudine, la Rete antirazzista a livello nazionale e poche strutture in Puglia, come il Comitato diritti degli immigrati e il circolo Iqbal Masih a Lecce e gli Osservatori di Brindisi e di Bari, avanzavano dubbi sugli enfatici allarmi, le invocazioni a "solidarieta' e fermezza", le grida d'invasione e le pelose premure di mons. Ruppi sull'immigrazione. Uno strano mix, le cui ambiguita'
pian piano si sono sciolte nel senso della logica custodiale e speculativa.
E' stato illuminante per me scoprire, in un documento degli antirazzisti pugliesi, la presenza di don Cesare Lodeserto, per la potente Curia salentina, al convegno convocato a Parigi da mons. Lustiger... per teorizzare la gestione religiosa dei centri di detenzione in Europa e di quelli di "contenimento" oltre le frontiere comunitarie. Che e' esattamente cio' che Ruppi ha realizzato in Salento e, in parallelo, in Moldavia.
Da molti punti di vista e' stata e rimane esemplare e paradigmatica l'esperienza del Regina Pacis, il primo Cpt in Italia e tuttora il piu' grande. Ma non da solo. Ha guidato l'involuzione della catena dei centri
d'accoglienza pugliesi, un tempo luoghi di sperimentazione aperta e ospitale, fino a farsi gangli della logistica scientifica del concentramento e della deportazione.

In un territorio militarizzato ben prima del "Piano di allerta e reazione rapida" varato in novembre nel Castello di Lecce, su coste trasformate in cimiteri marini dalle mafie e dal proibizionismo, i centri pugliesi sono stati e sono il laboratorio dell'appalto della custodia al "privato sociale", della gestione allegra delle relative convenzioni e appalti grazie allo "stato d'emergenza" (finche' poi i bubboni scoppiano, come per il
centro Lorizzonte), della detenzione dei richiedenti asilo e dei nuovi arrivati in centri "spuri" d'accoglienza o d'identificazione, della successiva dispersione sul territorio italiano ed europeo di decine di migliaia di poveri cristi. Ciascuno dei quali ha fruttato pero' milioni ai suoi "tutori".
Ma la sperimentazione principale, preziosa per i governi europei dopo le decisioni della Unione Europea sul "contenimento" dei profughi di guerra e sul "forced return" dei migranti, e' quella operata con le deportazioni di massa. Ricordo quando apprendemmo con orrore che nell'agosto 2001 dodici kurdi erano stati riconsegnati dal Regina Pacis, via Malpensa, ai loro torturatori turchi. Nella primavera successiva riuscimmo a fermare il
rimpatrio di altri cento kurdi, ma non di sessanta srilankesi respinti nell'inferno della guerra civile.
Ma quante altre vite sono passate dai centri di Lecce, Foggia, Bari e Brindisi per essere aggregate in un charter o su un traghetto e rispedite indietro, in violazione di leggi e convenzioni e spesso nel totale disprezzo del diritto alla vita? Di questi destini non decidono piu' i gestori dei centri, ridotti, cattolici o laici che siano, a passacarte del Dipartimento di Ps. Costretti, per non rinunciare alle prebende del governo, a riempire e svuotare i loro centri a comando di polizia, senza alcun rapporto con il territorio pugliese ma con l'andamento nazionale di sbarchi e rastrellamenti metropolitani, del mercato del lavoro. E, fuori, delle guerre.
Questo gioco e' stato infranto. Oggi l'intera struttura dei centri pugliesi e' sotto accusa, come quelli siciliani, anche se le istituzioni pugliesi si schierano compattamente a difesa mentre la Regione Sicilia promuove
un'indagine conoscitiva. Credo di poter dire che il merito e' stato della tenacia con cui, forti dell'esperienza del movimento nazionale e internazionale contro la globalizzazione economica, i Social forum e gli
antirazzisti leccesi e pugliesi hanno saputo uscire dalla logica della sporadica denuncia e dell'invettiva, e mettersi in contatto vero con le persone recluse.
Penso alle visite al Regina Pacis e a Lorizzonte, a Bari Palese o a Borgo Mezzanone, e prima e dopo, alla conquista degli ingressi periodici con medici e avvocati, al blocco dei rimpatri e delle ritorsioni, al sostegno a
chi ha sporto denuncia ed a chi ha chiesto asilo politico, alla ricostruzione delle loro storie, alla costruzione di un rapporto di fiducia e d'amicizia che inevitabilmente si trasferisce poi alla popolazione.
Per parlare solo del Regina Pacis, senza questa continuita' di relazione umana quasi sessanta pakistani del Kashmir sarebbero rimpatriati e non liberi, e quattordici maghrebini pestati non avrebbero potuto chiedere giustizia di la' dal mare. E senza la stessa tenacia, a Brindisi le famiglie dei superstiti della Kater i Radesh non avrebbero retto fino ad oggi un processo farsa, e centinaia di asilanti non sarebbero usciti da soli dalle roulotte degli aeroporti di Foggia e di Bari. Come a Trapani, dove la stessa caparbieta' ha consentito che non si perda ancora la memoria umana e giudiziaria della strage del '99.
Non numeri e nemmeno "casi", ma persone. E' in loro nome che avevamo il diritto di presidiare, quella notte, il Duomo di Lecce. Nel nome di Cristo "condannato a morte per sedizione", come scrisse il Social forum barese. Di quel Cristo in cui, credenti o no, ci potremmo riconoscere tutti noi e soprattutto tutti gli esclusi, i reclusi, gli offesi. Non coloro che li offendono e li recludono.