Da La nonviolenza è in
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– N. 1038 del 30 agosto 2005
Maria Grazia Giannichedda ricorda Franco
Basaglia
Dal quotidiano “Il manifesto” del 27 agosto 2005.
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In una conferenza a Rio de Janeiro nel 1979, pochi mesi prima di ammalarsi,
Franco Basaglia rispondeva così a una domanda sul significato del
suo lavoro: “la cosa più importante è che abbiamo
dimostrato che l'impossibile diventa possibile. Dieci, quindici anni fa
era impensabile che un manicomio potesse venire distrutto. Magari i manicomi
torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, ma noi abbiamo
dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo”.
Da quel pomeriggio di fine estate del 1961 a Gorizia, quando per la prima
volta nella sua vita era entrato in un manicomio, Basaglia si era tormentato
sulla forza di quell’istituzione, che lo aveva indignato e angosciato
al punto di indurlo alla tentazione di mollare l'impresa impossibile che
sarebbe consistita nel mettere a frutto, là dentro, ciò
che negli anni della clinica universitaria aveva studiato e tentato di
fare.
Fuori e dentro le mura Il lavoro di umanizzazione delle strutture e dei
rapporti che vi si intrattenevano gli aveva poi chiarito che il manicomio
in realtà non si limitava ai confini della istituzione storica
da lui diretta, ma, al fondo, coincideva con l'idea stessa di “internamento”,
cioè della custodia in nome della tutela, della riduzione della
libertà in nome della liberazione dalla malattia. Questo era il
nucleo del manicomio, lì stava la sua forza e la capacità
di riprodursi nelle istituzioni e nel corpo sociale, attraverso la legge,
l'amministrazione e la legittimazione non disinteressata degli operatori
psichiatrici.
Negli anni del grande movimento antistituzionale, Basaglia rimproverò
spesso a collaboratori e compagni di strada italiani ed europei la tendenza
a sottovalutare la potenza del manicomio, che per quanto lo riguardava
avrebbe dovuto essere smontato “pezzo per pezzo”, perchè
non rinascesse fuori dalle sue mura e dentro ciascuno di noi. Sono dunque
il prodotto di questa cultura le molte invenzioni nate per scomporre il
manicomio e spesso evolute nelle strutture nate a seguito della riforma,
“gli infiniti machiavelli istituzionali”, come Basaglia li
chiamava negli anni di Trieste: la prima cooperativa degli internati,
che avevano voluto chiamarsi “Lavoratori Uniti”; la trasformazione
dei ricoverati in “ospiti” per consentire loro libertà
e asilo; i centri di salute mentale aperti ventiquattro ore e organizzati
come spazi di vita; le abitazioni nei condomini del centro col sostegno
informale degli operatori. Tutto questo prendeva forma in mezzo a scontri
e negoziazioni, conflitti e compromessi tra gli operatori non meno che
con la città, in un clima allora tutt'altro che facile poiché
si camminava per una strada non ancora segnata, cercando un possibile
che fosse adeguato alla posta in gioco e che quel gioco riuscisse a mantenerlo
aperto e a governarlo.
Franco Basaglia era straordinariamente dotato di quel “senso della
possibilità“ di cui parla Robert Musil nelle prime pagine
dell'Uomo senza qualità, ossia della “capacità di
pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggior
importanza a quello che è, che a quello che non è“.
Tra aspirazioni e progetto politico A questo senso del possibile come
“volontà di costruire, come consapevole utopia che non si
sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e
un'invenzione”, Basaglia ha saputo dare spessore e valore politico,
riuscendo a coinvolgere istituzioni e persone nella costruzione di altri
orizzonti che si allargano tuttora sulla società italiana, e non
solo entro i suoi confini. È vero, però, che il senso della
possibilità oggi è più visibile come aspirazione
che non come progetto politico, e fa impressione il fatto che, quando
si parla di questione morale, tutto quanto è legittimo attendersi
- laddove quote rilevanti di potere siano nelle mani di persone e di istituti
della sinistra - sia limitato al rispetto delle regole. Ma se l'idea di
trasformare l'esercizio del potere per trasformare con esso pezzi di mondo
viene messa in ombra, o tutt’al più relegata in spazi residuali
e ideologici sarà molto difficile rendersi riconoscibili come alternativa
al presente e porre le premesse per un diverso futuro.
Quindici anni prima di quella conferenza a Rio, Basaglia aveva già
intuito che la distruzione dell'ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione
(come dice il titolo della sua comunicazione al primo congresso di psichiatria
sociale a Londra, nel 1964) era “un fatto urgentemente necessario,
se non semplicemente ovvio”. In quel testo ci sono già gli
elementi che avrebbero fatto evolvere il lavoro appena iniziato a Gorizia
in una direzione tutta diversa da quella su cui si erano incamminate le
esperienze innovative sorte nella psichiatria pubblica in Francia e Inghilterra.
Basaglia criticava il fatto di essersi limitati, in quei paesi, a creare
una psichiatria territoriale responsabile, in realtà, di continuare
a servirsi dei manicomi, che all'epoca internavano in Europa più
di ottocentomila persone.
Del resto, neppure gli premeva costruire “una nuova utopia”
che si sarebbe tramutata “in una nuova ideologia” il cui solo
valore sarebbe stato quello di “consentirci di sopportare il tipo
di vita che siamo costretti a vivere”, come scrisse in uno dei saggi
dell'Istituzione negata, il libro collettivo del 1968. A Basaglia non
interessava, perciò, rifugiarsi nell'esperimento, che elabora nuove
tecniche di interpretazione della malattia mentale e forme di trattamento
non oppressive al riparo dalla legge psichiatrica e dall'obbligo di accettare
qualunque tipo di paziente. In Europa e negli Stati Uniti, già
alla fine degli anni '60, cominciavano a diffondersi molte di queste utopie
in piccola scala, non poche delle quali si dimostravano efficaci con chi
vi approdava per caso o per denaro, e alcune di esse – come quelle
di Ronald Laing a Londra e quella di Felix Guattari a Laborde –
era contagiate dal fascino, dalla intelligenza e dalla radicalità
dei loro leader. Ma, allora come oggi, questi esperimenti non erano in
grado di scalfire l'apparato dei manicomi, nè la cultura psichiatrica
dominante veniva intaccata dalle nuove teorizzazioni, e tanto meno il
senso comune vacillava di fronte al senso del pericolo, dalla vergogna
e dalla scarsa intellegibilità che la follia portava con sè.
L'esperienza di Gorizia indicò una strada più ambiziosa
e al tempo stesso più politica che consisteva nel lavorare al centro
del potere psichiatrico, l'istituzione pubblica, per introdurvi una pratica
e un progetto alternativi al manicomio, al suo ruolo sociale e alla sua
cultura. Fu un progetto che incontrò in Italia un sistema istituzionale
dove il bisogno di innovazione era fortissimo e l'immobilismo dell'establishment
psichiatrico, culturalmente provinciale e concentrato sugli interessi
di scuola e di bottega, lasciò molto spazio a quelle che negli
anni '70 venivano chiamate “le esperienze esemplari”: esperienze
che egemonizzarono i processi di innovazione, sperimentando e mettendo
in circolo modelli di servizi che chiedevano e dimostravano possibile
la ridefinizione del trattamento psichiatrico nel quadro della Costituzione
democratica. Per questo Basaglia aveva voluto chiamare “psichiatria
democratica” il movimento per la riforma, intendendo indicare con
questo aggettivo l'intenzione di costruire una psichiatria che interiorizzasse
e rendesse vissuti i principi del patto democratico, così come
la psichiatria manicomiale si era sviluppata nel quadro di uno Stato liberale
che escludeva dalla cittadinanza più di “metà del
cielo”.
Oggi il sistema istituzionale nel quale Basaglia ha lavorato non c'è
più, e lo stesso campo psichiatrico è profondamente cambiato.
Basti pensare al protagonismo acquisito delle multinazionali del farmaco,
che dominano la ricerca, invadono la comunicazione di massa, conquistano
i medici; basti considerare la penetrazione del linguaggio psichiatrico
e psicologico nei media, nella vita quotidiana, nella scuola, nei servizi
sociali; e il diffondersi delle tecniche psichiatriche e psicologiche
- dall'uso degli psicofarmaci ai test - per il controllo dell'efficienza
e della vita delle persone.
Dunque oggi non è certo minore che trent'anni fa la necessità
di leggere il contesto che abbiamo di fronte in chiave politica. Eppure
la depoliticizzazione della società italiana, drammaticamente svelata
dal referendum sulla fecondazione assistita, si è resa lampante:
lo dimostrano i tecnici interessati a coltivare il proprio orto, a mettere
a punto la gestione di problemi e rischi o metodi di formazione nel grande
mercato per il controllo delle condotte che Basaglia aveva visto formarsi
negli Stati Uniti degli anni '70 e di cui scrisse in diversi saggi, dal
Malato artificiale a La maggioranza deviante a Condotte perturbate. Sembra
che solo una minoranza di operatori dei servizi pubblici, di ricercatori
e di intellettuali sia oggi interessata a esprimere la sua preoccupazione
per i caratteri dello scenario che abbiamo di fronte, e che si affanni
a studiarlo e a trovare i punti in cui potrebbe venire attaccato.
È un clima, questo, in cui l'opera di Basaglia può risultare
inattuale, o può magari suscitare più nostalgie che stimoli;
può forse indurre alla tentazione di una lettura accademica delle
sue idee, che invece sono legate a un forte senso etico della responsabilità
sociale, segnate come sono da un rapporto intenso, fondante, tra teoria
e pratica politica, la sola chiave in cui possono essere capite e spese.
Basaglia ha temuto che la riforma potesse essere l'inizio della fine della
trasformazione, e questo – come scrisse nella prefazione al Giardino
dei gelsi - proprio “nel momento in cui si potrebbe cominciare ad
affrontare i problemi in modo diverso, disarmati come siamo, privi di
strumenti che non siano un'esplicita difesa nostra di fronte all'angoscia
e alla sofferenza”. Come sempre, cercò di giocare sul terreno
della pratica la sfida della riforma, accettando la proposta della Regione
Lazio di riorganizzare le politiche di salute mentale.
Le sue interviste sulla 180 Lavorò a Roma pochi mesi, formulando
alcuni progetti: un concorso di idee rivolto a tutta la città per
il riuso del manicomio da chiudere; il riassetto del pronto soccorso di
uno degli ospedali più problematici del centro storico, per cercare
di trovare risposte diverse alle persone marginalizzate che là
avevano il loro punto di riferimento; il coinvolgimento di alcune cliniche
private in un programma di riorientamento delle strutture. Nello stesso
tempo, mise in piedi un'iniziativa curiosa e assai emblematica del suo
stile. Mentre le forze politiche, all'indomani della riforma già
ne prendevano le distanze, Basaglia decise di intervistare dirigenti politici
di spicco sulle ragioni che avevano spinto i partiti ad approvare la “180”
e sui mezzi con cui intendevano governarla: riuscì a fare parlare
due alti dirigenti della Democrazia Cristiana, Paolo Cabras e Bruno Orsini,
il vice-segretario del partito socialista Claudio Signorile e il segretario
del partito socialdemocratico Pietro Longo. Aveva avviato i contatti con
Enrico Berlinguer, ma non fece in tempo a incontrarlo. Da quelle interviste
fu ricavato, alcuni anni dopo, un film di mezz'ora, che testimonia quale
fosse il clima del tempo, quale la libertà di Basaglia da ogni
schema prefigurato, quale la sua capacità di mettersi in gioco
e, come lui diceva, di “tenere aperte le contraddizioni”.
Certo Basaglia non si è sottratto alle responsabilità di
governo ne ha sottovalutato il problema del consenso. Però ha agito
il suo ruolo di tecnico per spingere la politica, soprattutto gli amministratori,
ad andare oltre l'orizzonte dato, oltre gli assetti consolidati, che generalmente
fanno pagare ai più deboli il prezzo di una precaria o apparente
pace sociale. Così lui, uomo di sinistra, non è stato un
interlocutore facile neppure per la sinistra, che certo nella ormai lunga
vita della “legge 180” ha svolto un ruolo fondamentale in
parlamento nel bloccare le controriforme, sia con la scelta di candidare
al Senato Franca Ongaro Basaglia, sia nella fase di chiusura dei manicomi,
con Romano Prodi al governo e Rosi Bindi alla sanità. Ma gli amministratori
locali è ancora necessario conquistarli ad uno ad uno, anche quelli
di sinistra, per riuscire a dare aggettivi ai processi di innovazione,
a introdurvi una qualità diversa.
Il posto di chi non trova posto Il manifesto dell'ultimo convegno promosso
da Basaglia, Psichiatria e buongoverno (Arezzo 28 ottobre 1979), riportava,
accanto ad alcuni particolari dell'Allegoria del Buongoverno di Ambrogio
Lorenzetti, un commento che si concludeva così: “se ciascuno
sta al suo posto regnano l'ordine e il potere; e chi non trova posto in
questo ordine e in questo equilibrio?”. È un interrogativo
che vale sempre, ma oggi non ci sono persone altrettanto autorevoli a
difenderlo, ed è cresciuto il numero di chi non trova posto in
questo ordine delle cose, per la verità assai fragile; perciò
vale di più.
Postilla: Da Gorizia a Trieste Franco Basaglia era nato a Venezia l'11
marzo del 1924. Dopo tredici anni di lavoro all'università di Padova,
nel 1961 aveva vinto il concorso di direttore nell'ospedale psichiatrico
di Gorizia, dove avviò l'esperienza di apertura del manicomio divenuta
nota attraverso due libri, Che cos'è la psichiatria? (1967) e L'istituzione
negata (1968), pubblicati entrambi da Einaudi come il libro fotografico
Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati
e Gianni Berengo Gardin che Basaglia aveva curato con Franca Ongaro, sua
moglie dal 1953 e collaboratrice nel gruppo di Gorizia. Con lei Basaglia
scriverà gran parte dei lavori degli anni successivi e condividerà
l'impegno nei movimenti degli anni '70. Nel 1969 fu invitato come visiting
professor al Community Mental Health Centre del Maimonides Hospital di
New York, e da quella esperienza scrisse Lettera da New York. Il malato
artificiale (Einaudi 1969) e La maggioranza deviante (Einaudi, 1971).
Per un anno, nel 1970, diresse l'ospedale psichiatrico di Parma, ma l'esperienza
si chiuse tra difficoltà burocratiche e dissidi politici, e alla
fine dell'anno successivo andò a dirigere l'ospedale di Trieste,
dove riuscì a chiudere il manicomio e dare vita a un nuovo sistema
di servizi di salute mentale. Negli anni di Trieste scrisse molti saggi
e una ricerca collettiva, Crimini di pace, cui partecipano tra gli altri
Michel Foucault, Erving Goffman, Ronald Laing, Noam Chomsky e Robert Castel,
che testimonia dell'ampiezza del suo impegno intellettuale. Il 13 maggio
del 1978 il parlamento approvò la riforma psichiatrica, nota come
“legge 180”.
Basaglia era a Berlino, in uno dei suoi numerosi viaggi, quando si sentì
male la prima volta, dopo una conferenza nell'aula magna della Freie Universitaet.
Erano i segni della malattia che lo avrebbe portato alla morte il 29 agosto
nella sua casa di Venezia. I suoi Scritti sono stati raccolti da Franca
Ongaro e pubblicati in due volumi da Einaudi nel 1981 e '82.
Attualmente è in libreria una nuova antologia, L'utopia della realtà
(Einaudi, 327 pagine, 22 euro) che contiene saggi dal 1964 al 1979 con
un inedito in Italia, Condotte perturbate. Le funzioni delle relazioni
sociali, scritto con Franca Ongaro su commissione di Jean Piaget che curava,
per la Encyclopedie de la Pleiade, il volume Psychologie in cui il testo
è uscito nel 1987. L'antologia include anche la bibliografia completa
delle opere di Basaglia, una presentazione di Franca Ongaro e una introduzione
di Maria Grazia Giannichedda, L'utopia della realtà. Franco Basaglia
e l'impresa della sua vita. Negli ultimi anni sono stati riediti diversi
testi di Basaglia: Che cos'è la psichiatria? (Baldini e Castoldi,
Milano 1997), L'istituzione negata (Baldini e Castoldi, Milano 1998) Morire
di classe (Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998), e una nuova edizione di
Conferenze brasiliane (Raffaello Cortina, Milano 2000) con quattro conferenze
inedite.
Nel 2001 è stata pubblicata la monografia Franco Basaglia di Mario
Colucci e Pierangelo Di Vittorio (Bruno Mondadori) e nel 2004 il saggio
di Nico Pitrelli, L'uomo che restituì la parola ai matti. Franco
Basaglia, la comunicazione e la fine dei manicomi (Editori Riuniti).
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