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Umberto Galimberti: Responsabili
Da “La Repubblica” del 4 novembre 1999 riprendiamo il seguente
articolo di Umberto Galimberti ivi pubblicato col titolo “Criminali
altamente responsabili”. Umberto Galimberti, filosofo, saggista,
docente universitario.
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Ogni tanto la psicologia batte un colpo e scrive un libro intelligente,
colto, documentato e di gradevolissima lettura. Ne è autore Adriano
Zamperini, ricercatore presso la facoltà di Psicologia dell’università
di Padova. Il libro, Psicologia sociale della responsabilità. Giustizia,
politica, etica e altri scenari (Utet, Torino, pp. 306, lire 32.000).
Indaga quel passaggio, che ha avuto luogo nel nostro secolo, dal principio
di obbedienza (dove un individuo, una volta accettata la volontà
dell’autorità, non si considera più responsabile delle
proprie azioni) al principio della responsabilità dove un individuo
è sollecitato a ritenersi responsabile delle proprie azioni, senza
però considerare se in società complesse, come oramai sono
diventate le nostre, l’assunzione di queste responsabilità
è davvero possibile.
Anche nella società dell’obbedienza, come ieri nella società
fascista, e oggi in quella ecclesiastica, in quella militare, in quella
gerarchica della scuola e del lavoro, in quella burocratica, la responsabilità
non è assente, ma è presente solo come responsabilità
di fronte al superiore, che è altra cosa della responsabilità
per le conseguenze delle proprie azioni. La prima si riferisce a chi dobbiamo
rispondere, la seconda riguarda
ciò che abbiamo o non abbiamo fatto.
Va da sè che chi si attiene alla prima forma di responsabilità,
quella di fronte al superiore, non si ritiene responsabile delle proprie
azioni. E questo non è solo il caso del criminale nazista, ma,
fatte le debite proporzioni, che però investono solo i contenuti
delle azioni e non la forma, riguarda il prete che si attiene alla dottrina
moral-sessuale enunciata dalla sua autorità prescindendo dalla
condizione particolare dei suoi fedeli, riguarda il giudice che si attiene
alla lettera della legge senza considerare le situazioni di volta in volta
diverse in cui ha luogo il reato, riguarda il professore che si attiene
ai programmi ministeriali, l’impiegato che si attiene alle norme
stabilite dall’organizzazione, il burocrate alle procedure. Tutti
costoro non si considerano responsabili delle proprie azioni, ma limitano
l’ambito della loro responsabilità all’autorità
che prescrive le azioni, collocandosi in una zona di neutralità
per non dire di irresponsabilità etica.
Se tutto ciò poteva funzionare nelle società autoritarie
o nelle società semplici, funziona molto meno nelle società
libere e per giunta complesse, a meno di non ipotizzare che la legge sia
in grado di prevedere in anticipo e coprire con i suoi dispositivi legislativi
tutti gli snodi della complessità. Ma siccome questo non è
possibile, quanti si attengono alla sola responsabilità di fronte
all’autorità, sono persone che, detto chiaro e tondo, non
vogliono assumersi delle responsabilità. Sono quindi dei bambini,
dei pavidi, e al limite degli immorali.
Immorali, certo, ma, e qui il problema si complica, rispetto a quale
etica? Nella nostra cultura abbiamo conosciuto fondamentalmente tre etiche:
l’etica cristiana che si limita a considerare la corretta coscienza
e la sua buona intenzione, per cui anche se le mie azioni hanno conseguenze
disastrose, se non ne avevo coscienza o intenzione, non ho fatto nulla
che mi sia moralmente imputabile. Esattamente come capitò un giorno
a coloro che hanno messo in croce Gesù Cristo e che da lui sono
stati perdonati: “Perchè non sanno quello che fanno”.
È evidente che in un mondo complesso e tecnologizzato come il nostro,
una morale di questo genere è improponibile, perchè gli
effetti sarebbero catastrofici e in molti casi addirittura irreversibili.
Quando nell’età moderna la società si laicizzò,
apparve un’etica laica che, messo sullo sfondo il riferimento a
Dio, con Kant formulò quel principio secondo cui: “L’uomo
va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo”. È questo
un principio che ancora attende di essere attuato, ma nelle società
complesse e tecnologicamente avanzate già rivela tutta la sua insufficienza.
Davvero, ad eccezione dell’uomo da trattare sempre come un fine,
tutti gli enti di natura sono un semplice mezzo che noi possiamo utilizzare
a piacimento? E qui penso agli animali, alle piante, all’aria, all’acqua.
Non sono questi, nell’età della tecnica, altrettanti fini
da salvaguardare, e non semplici mezzi da usare e da usurare?
Sia l’etica cristiana, sia l’etica laica sembra che si siano
limitate a regolare i rapporti tra gli uomini, senza avere nessuna sensibilità,
e quel che più conta senza disporre di alcuno strumento nè
teorico nè pratico per farci assumere una qualche responsabilità
nei confronti degli enti di natura il cui degrado è sotto gli occhi
di tutti. All’inizio del nostro secolo Max Weber formulò
l’etica della responsabilità, recentemente riproposta da
Hans Jonas ne Il principio responsabilità (Einaudi, Torino).
Secondo Weber chi agisce non può ritenersi responsabile solo delle
sue intenzioni, ma anche delle conseguenze delle sue azioni. Se non che,
subito dopo aggiunge: “Fin dove le conseguenze sono prevedibili”.
Questa aggiunta, peraltro corretta, ci riporta punto e a capo, perchè
è proprio della scienza e della tecnica avviare ricerche e promuovere
azioni i cui esiti finali non sono prevedibili. E, di fronte all’imprevedibilità,
non c’è responsabilità che tenga. Lo scenario dell’imprevedibile,
dischiuso dalla scienza e dalla tecnica, non è infatti imputabile,
come nell’antichità, a un difetto di conoscenza, ma a un
eccesso del nostro potere di fare enormemente maggiore rispetto al notro
potere di prevedere, e quindi di valutare e giudicare. L’imprevedibilità
delle conseguenze che possono scaturire dai processi tecnici rende quindi
non solo l’etica
dell’intenzione (il cristianesimo e Kant), ma anche l’etica
della responsabilità (Weber e Jonas) assolutamente inefficaci,
perchè la loro capacità di ordinamento è enormemente
inferiore all’ordine di grandezza di ciò che si vorrebbe
ordinare.
L’ideale platonico di un’etica che, congiuntamente alla politica,
regola le tecniche, è definitivamente tramontato, così come
è tramontata l’ideologia della neutralità della scienza
e della tecnica sotto il profilo etico. Là infatti dove il fare
tecnologico, crescendo su se stesso per autoproduzione, genera conseguenze
che sono indipendenti da qualsiasi intenzione diretta, e imprevedibili
quanto ai loro esiti ultimi, sia l’etica dell’intenzione,
sia l’etica della responsabilità assaporano una nuova impotenza,
che non è più quella tradizionale misurata dalla distanza
tra l’ideale e il reale, ma quella ben più radicale che si
incontra quando il massimo di capacità si accompagna al minimo
di conoscenza intorno agli scopi.
Leggo in una delle settanta interviste che Gitta Sereny fece a Franz Stangl,
direttore generale del campo di sterminio di Treblinka, oggi raccolte
in un libro che ha per titolo In quelle tenebre (Adelphi, Milano), che
alla domanda: “Che cosa provavate quando compivate quegli eccidi?”,
Franz Stangl risponde: “Quello era il nostro lavoro. Il lavoro di
uccidere con il gas e bruciare cinque e in alcuni campi fino a ventimila
persone in ventiquattro ore esigeva il massimo di efficienza. Nessun gesto
inutile, nessun attrito, niente complicazioni, niente accumulo. Arrivavano
e, tempo due ore, erano già morti. Questo era il sistema. L’
aveva escogitato Wirth. Funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile”.
Se prima di indignarci di fronte a una simile difesa riflettessimo sul
fatto che gli autori di quei crimini, o per lo meno molti di loro senza
i quali l’ente di gestione criminale non avrebbe potuto funzionare,
non si sono comportati nelle situazioni in cui commisero i loro crimini
molto diversamente da come erano abituati a comportarsi nell’esercizio
del loro lavoro, e come ciascuno di noi è invitato a comportarsi
quando inizia il suo lavoro in un’organizzazione, allora comprendiamo
quanto, nelle società tecnologicamente avanzate, sia difficile,
se non addirittura impossibile, creare condizioni perchè nasca
un’etica della responsabilità.
Infatti la divisione del lavoro che vigeva nell’apparato di sterminio
di Treblinka e che oggi vive in ogni struttura aziendale fa sì
che all’interno di un apparato produttivo tecnicizzato, l’operatore,
sia esso un lavoratore, un impiegato, un funzionario, un dirigente, non
ha più niente a che fare con il prodotto finale, anzi gli è
tecnicamente impedito, per la parcellizzazione dei processi lavorativi,
di intendere realmente l’esito ultimo a cui porterà la sua
azione.
In questo modo l’operatore non solo diventa irresponsabile, ma addirittura
gli è precluso anche il diritto alla cattiva coscienza, perchè
la sua competenza è limitata alla buona esecuzione di un compito
circoscritto, indipendentemente dal fatto che, concatenandosi con gli
altri compiti circoscritti previsti dall’apparato, la sua azione
approdi ad una produzione di armi o a una fornitura alimentare.
Limitando l’agire a quello che nella cultura tecnologica si chiama
button pushing (premere il bottone), la tecnica sottrae all’etica
il principio della responsabilità personale, che era poi il terreno
su cui tutte le etiche tradizionali erano cresciute. E questo perchè
chi preme il bottone lo preme all’interno di un apparato dove le
azioni sono a tal punto integrate e reciprocamente condizionate che è
difficile stabilire se chi compie un gesto è attivo o viene a sua
volta azionato.
In questo modo il singolo operatore è responsabile solo della modalità
del suo lavoro, non della sua finalità, e con questa riduzione
della sua competenza etica si sopprimono in lui le condizioni dell’agire,
per cui anche l’addetto al campo di sterminio con difficoltà
potrà dire di aver “agito”, ma per quanto orrendo ciò
possa sembrare, potrà dire di sì, che ha soltanto “lavorato”.
E questo vale ancora oggi sia per chi lavora nelle grandi fabbriche d’armi,
sia nei centri studio per la sperimentazione delle armi nucleari, sia
nelle modeste fabbriche di mine antiuomo che per anni e anni continueranno
a esplodere.
La mostruosità che l’apparato nazista ha inaugurato, e che
poi è diventato il paradigma di ogni produzione aziendale, è
la discrepanza tra la nostra capacità di produzione che è
illimitata e la nostra capacità di immaginazione che è limitata
per natura, e comunque tale da non consentirci più di comprendere
e al limite di considerare “nostri” gli effetti che l’inarrestabile
progresso tecnico è in grado di provocare.
Quel che si è detto per l’immaginazione vale anche per la
percezione: quanto più si complica l’apparato in cui siamo
incorporati, quanto più si ingigantiscono i suoi effetti, tanto
meno vediamo, e più ridotta si fa la nostra possibilità
di comprendere i procedimenti di cui noi siamo parti e condizioni.
Questo scarto tra produzione tecnica da un lato e immaginazione e percezione
umana dall’altro rende il nostro sentimento inadeguato rispetto
alle nostre azioni che, al servizio della tecnica, producono qualcosa
di così smisurato da rendere il nostro sentimento incapace di reagire.
Il troppo grande ci lascia freddi perchè il nostro meccanismo di
reazione si arresta appena supera una certa grandezza e allora, da analfabeti
emotivi, assistiamo oggi a milioni di trucidati nelle guerre locali sparse
per il mondo, a milioni di inermi che ogni anno muoiono di stenti e malattie,
come un giorno ai sei milioni di ebrei e zingari sterminati nei lager,
come scrive Guenther Anders in Noi figli di Eichmann (editrice La Giuntina,
Firenze).
Ma la categoria della responsabilità, come scrive Adriano Zamperini
nel suo bellissimo saggio, se da un lato è ciò “che
le organizzazioni tendono a sopprimere in quanto fonte di azione autonoma,
quindi imprevedibile per la stessa organizzazione e ostile all’ordine”,
dall’altro è la categoria che non si esita a impiegare quando
l’organizzazione vuole ridurre il carico dei suoi oneri. È
il caso delle assicurazioni a proposito degli incidenti, delle istituzioni
sociali a proposito della devianza, delle professioni a proposito degli
infortuni, persino delle relazioni di coppia dove, ricorrendo al criterio
della responsabilità, marito e moglie si improvvisano “giuristi
ingenui”, per non parlare della medicina preventiva che, più
va diffondendosi come pratica e come mentalità, più tende
a visualizzare i malati come “vittime responsabili” a causa
della loro
condotta di vita.
E allora inevitabile sorge il dubbio: non è che il principio di
responsabilità, da cui gli individui sono esonerati in quanto membri
di un’organizzazione, e di cui invece sono caricati in quanto singoli
individui, sia un magnifico espediente che consente alle organizzazioni
e agli apparati di muoversi al di fuori di ogni responsabilità,
per poi scaricare errori e inefficienze sui singoli individui, in questo
caso responsabili di non aver preso le giuste misure, per ignoranza delle
norme, per disattenzione, per scarsa prevenzione, o semplicemente perchè
la vita è così complicata che non si può prestare
attenzione a tutto?
Il problema resta aperto e ancora tutto da pensare. Quel che è
certo è che le etiche tradizionali, cristiane o laiche che siano,
nelle società complesse non servono più, e l’etica
della responsabilità, di cui si sente un gran bisogno, è
ancor oggi applicata con due pesi e due misure, se è vero che i
singoli individui ne sono esonerati in quanto membri di un’organizzazione,
e ne sono invece sommamente caricati come singoli quando devono vedersela
con le organizzazioni, siano esse politiche, amministrative, giudiziarie,
mediche, assistenziali, in una condizione di alta contraddizione che il
libro di Adriano Zamperini documenta con grande lucidità, e non
so dire se con drammatica o simpatica ironia.
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