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Umberto Galimberti. Smettiamo di crescere

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Che cosa prova la gente a diventare collettivamente piu' povera? Non parlo dei poveri che il fisco risparmia e neppure di quelli per i quali 200 milioni di euro equivalgono ai nostri 200 euro, ma di quella classe media
che, essendo diventata negli ultimi decenni la classe di tutti, ha finito per dissolvere perfino le rivendicazioni di classe, sostituendole con le rivendicazioni di categoria.
Si puo' sempre dire che un po' di poverta' non fa male, raddrizza i costumi che abbiamo spinto un po' all'eccesso, spopola i ristoranti dove la troppa gente non riesce piu' a scambiar parola, riduce il traffico che ha
trasformato le vie della nostra citta' in un unico grande parcheggio, allenta la morsa dei weekend forzati, assottiglia, nelle agenzie di viaggio, le folle di quanti pensano che basta cambiar cielo per cambiar animo.
Le discoteche chiuderanno qualche ora prima, alcuni giovani vedranno ridotte le loro chances di finire direttamente al cimitero, chances che purtroppo aumenteranno per quanti non riusciranno a tener dietro al costo dei farmaci, o piu' semplicemente alla qualita' degli alimenti a cui e' da addebitare quel prolungamento della vecchiaia che in Occidente siamo soliti chiamare allungamento della vita.
Eppure, nonostante questi vantaggi secondari, un senso di inquietudine pervade sia i singoli individui sia le imprese che si sentono impotenti a modificare l'andamento dell'economia la quale, per effetto della
globalizzazione e forse della supremazia dell'aspetto finanziario (e virtuale) su quello produttivo (e reale), sembra sia divenuta qualcosa di trascendente, qualcosa di governato da un dio ignoto, i cui disegni nessuno
davvero conosce.
Tutto cio' comportera', come dicono gli economisti, un rallentamento della crescita, quando non addirittura una crescita zero. E qui siamo a quella parola subdola: "crescita", che gli economisti applicano sia ai paesi
diseredati che raccolgono tra l'altro i quattro quinti dell'umanita', sia ai paesi gia' sviluppati che nonostante cio' "devono crescere". Fin dove? E a spese di chi? E a quali costi ambientali? Qui l'economia tace perche' il
problema non e' di sua competenza, e con l'economia tacciono anche le voci degli uomini che alle leggi dell'economia si devono piegare.
Quando dico "economia" non dico solo agricoltura, commercio, industria e finanza, ma dico soprattutto mentalita' diffusa, modo di sentire, categoria dello spirito del nostro tempo, perche' questo e' diventato, nel modo di pensare e di sentire di tutti, l'imperativo categorico della crescita.
Figli come siamo di padri, che a loro volta sono cresciuti sul lavoro dei nonni, siamo ormai alla terza o quarta generazione che cresce con un ritmo che la storia non ha mai conosciuto. La categoria della crescita e' cosi' diventata una forma mentis, uno stato d'animo, un rimedio all'angoscia, una garanzia per se' e per i propri figli, una caparra per il futuro, per cui, se per effetto di Maastricht, se per mettere in ordine i conti, se per una finanziaria dura questa speranza nella crescita si affievolisce accade una paralisi del pensiero, una confusione del sentimento, un'ansia per il futuro, un senso di inquietudine come quando sugli aerei si infila un vuoto d'aria e tutti composti ostentiamo quella tranquillita' smentita dai brividi del nostro ventre che pero' avvertiamo solo noi.
E cosi' ciascuno per se' sente il brivido della crescita zero a cui non sa con che strumenti reagire, soprattutto se ha il sospetto che la crescita zero sara' sempre piu' il nostro futuro, non solo perche' non possiamo
continuare a pensare che i quattro quinti dell'umanita' continuino a sacrificarsi per la nostra crescita, ma perche' quando la crescita non ha altro scopo che continuare a crescere, e' l'uomo stesso del mondo
privilegiato a divenire semplice "funzionario" di questa idea fissa che, se diventa lo scopo collettivo della vita di tutti, affossa e seppellisce il "senso" della vita, il suo sapore, il suo significato per noi.
Se in cambio dei soldi che toglie dalle nostre tasche, la crescita zero ci desse l'opportunita' concreta di incominciare a riflettere sull'assurdo ritmo che aveva acquistato la nostra esistenza, sulla qualita' della nostra
comunicazione ormai troppo mediata, sulla natura un po' ambigua del nostro amore fatto ormai di sole cose, e soprattutto sul fatto che regolare tutto sul modello di una crescita all'infinito ha parentela con l'assurdo, allora anche la crescita zero, che finora tocca solo i nostri soldi e non la nostra pelle o la dignita' dell'uomo come ancora accade in troppe parti del mondo, puo' essere accettata come una buona occasione per raddrizzare non solo il nostro costume, ma anche la qualita' del nostro sguardo sulla vita e sul mondo.
Cio' puo' avvenire incominciando magari a rinunciare all'individualismo sfrenato e aggressivo degli ultimi decenni, per privilegiare il "noi" rispetto all'"io". Il noi del volontariato, della reciproca assistenza,
della familiarita' del borgo rispetto all'anonimato della metropoli, il noi della convivialita', dei comportamenti virtuosi in ordine alla circolazione stradale, alla scelta e al consumo dei cibi, alle condotte a rischio, agli
stili di vita.
Valori non economici, dettati non dalla rassegnazione di chi e' consapevole di non poter controllare o modificare l'andamento dell'economia, ma dal rifiuto a sacrificare la propria esistenza al mito della crescita, che visualizza gli uomini solo come produttori e consumatori. Con l'aggravante che in una societa' che visualizza se stessa solo in termini di sviluppo e di crescita, il consumo non deve essere piu' considerato, come avveniva per le generazioni precedenti, esclusivamente come soddisfazione di un bisogno,
ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. La' infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci "hanno bisogno" di essere consumate, e se il bisogno non e' spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrera' che questo bisogno sia "prodotto".
In una societa' opulenta come la nostra, dove l'identita' di ciascuno e' sempre piu' consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sono sostituibili, ma "devono" essere sostituiti, puo' darsi che si cominci ad
avvertire, sotto quel mare di pubblicita' che ogni giorno ci viene rovesciato addosso, una sorta di appello alla distruzione, una forma di nichilismo dovuto al fatto, come scrive Guenther Anders, che: "L'umanita'
che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come un'umanita' da buttar via".
Se nel sottosuolo della nostra anima collettiva si fa strada questa sensazione che muta la gerarchia dei nostri pensieri e la forma dei nostri comportamenti, anche il profilo del lavoro potrebbe mutare.
Oggi, infatti,
come ci ricorda Franco Totaro nel suo bel libro Non di solo lavoro, sotto l'imperativo della crescita il lavoro e' visualizzato nel solo ambito dell'economia, e cio' vuol dire che solo l'economia e' in grado di dare
espressione all'uomo, il quale non avrebbe come suo riferimento altro orizzonte di senso se non quello determinato dal fare produttivo. A sua volta il lavoro, non avendo altra finalita' se non quella di
concorrere all'incremento infinito della produzione, non sarebbe piu' il luogo in cui l'uomo, realizzandosi, incontra se stesso, le sue capacita', le sue ideazioni, l'attuazione della sua progettualita', ma solo il luogo in
cui l'uomo tocca con mano la sua "strumentalita'", il suo essere semplice appendice delle macchine, che nel loro insieme compongono l'apparato tecnico-economico, interessato solo al proprio potenziamento e non alle
sorti dell'uomo.
Perche' allora non passare gradatamente dal "lavoro come produzione" (che ha in vista solo la sua crescita esponenziale senza ragione e senza perche') al "lavoro come servizio" dove la produzione non ha in vista solo beni e merci (di cui al limite non sappiamo neanche cosa farcene, se non fosse per i bisogni e i desideri indotti, cioe' a loro volta prodotti), ma anche erogazione di tempo, di cura, di relazione.
I profili lavorativi che potrebbero nascere da questa nuova visualizzazione del lavoro (di cui la societa' gia' sente a livello massiccio l'esigenza, se dobbiamo giudicare dal gran numero di persone che si dedicano al
volontariato) sarebbero profili lavorativi che potrebbero trovare non solo una reale e massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento economico, se l'economia, che pensa sempre e solo alla produzione, sapesse diversificare i suoi prodotti e incominciare a produrre non solo merci e sempre piu' merci, ma anche e in misura crescente servizi per la persona e per la relazione tra le persone.
Nel mondo dell'opulenza compriamo, in modo maniacale, merci e sempre piu' merci per compensare la depressione che ci deriva dalla mancanza di relazioni, che siano vere e non solo funzionali come esige la logica del lavoro. Non sarebbe impossibile invertire la tendenza, perche' la felicita', nonostante la pubblicita' vi alluda, non ci viene dall'ultima generazione di telefonini o di computer, e piu' in generale di "prodotti", ma da uno straccio di "relazione" in piu' che il lavoro come servizio (e non solo come produzione) potrebbe incominciare a garantire.