Da La nonviolenza è in
cammino, Centro di ricerca per la pace di Viterbo Redazione: strada
S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
Umberto Galimberti. Smettiamo di crescere
(torna all'indice informazioni)
Che cosa prova la gente a diventare collettivamente piu' povera? Non
parlo dei poveri che il fisco risparmia e neppure di quelli per i quali
200 milioni di euro equivalgono ai nostri 200 euro, ma di quella classe
media
che, essendo diventata negli ultimi decenni la classe di tutti, ha finito
per dissolvere perfino le rivendicazioni di classe, sostituendole con
le rivendicazioni di categoria.
Si puo' sempre dire che un po' di poverta' non fa male, raddrizza i costumi
che abbiamo spinto un po' all'eccesso, spopola i ristoranti dove la troppa
gente non riesce piu' a scambiar parola, riduce il traffico che ha
trasformato le vie della nostra citta' in un unico grande parcheggio,
allenta la morsa dei weekend forzati, assottiglia, nelle agenzie di viaggio,
le folle di quanti pensano che basta cambiar cielo per cambiar animo.
Le discoteche chiuderanno qualche ora prima, alcuni giovani vedranno ridotte
le loro chances di finire direttamente al cimitero, chances che purtroppo
aumenteranno per quanti non riusciranno a tener dietro al costo dei farmaci,
o piu' semplicemente alla qualita' degli alimenti a cui e' da addebitare
quel prolungamento della vecchiaia che in Occidente siamo soliti chiamare
allungamento della vita.
Eppure, nonostante questi vantaggi secondari, un senso di inquietudine
pervade sia i singoli individui sia le imprese che si sentono impotenti
a modificare l'andamento dell'economia la quale, per effetto della
globalizzazione e forse della supremazia dell'aspetto finanziario (e virtuale)
su quello produttivo (e reale), sembra sia divenuta qualcosa di trascendente,
qualcosa di governato da un dio ignoto, i cui disegni nessuno
davvero conosce.
Tutto cio' comportera', come dicono gli economisti, un rallentamento della
crescita, quando non addirittura una crescita zero. E qui siamo a quella
parola subdola: "crescita", che gli economisti applicano sia
ai paesi
diseredati che raccolgono tra l'altro i quattro quinti dell'umanita',
sia ai paesi gia' sviluppati che nonostante cio' "devono crescere".
Fin dove? E a spese di chi? E a quali costi ambientali? Qui l'economia
tace perche' il
problema non e' di sua competenza, e con l'economia tacciono anche le
voci degli uomini che alle leggi dell'economia si devono piegare.
Quando dico "economia" non dico solo agricoltura, commercio,
industria e finanza, ma dico soprattutto mentalita' diffusa, modo di sentire,
categoria dello spirito del nostro tempo, perche' questo e' diventato,
nel modo di pensare e di sentire di tutti, l'imperativo categorico della
crescita.
Figli come siamo di padri, che a loro volta sono cresciuti sul lavoro
dei nonni, siamo ormai alla terza o quarta generazione che cresce con
un ritmo che la storia non ha mai conosciuto. La categoria della crescita
e' cosi' diventata una forma mentis, uno stato d'animo, un rimedio all'angoscia,
una garanzia per se' e per i propri figli, una caparra per il futuro,
per cui, se per effetto di Maastricht, se per mettere in ordine i conti,
se per una finanziaria dura questa speranza nella crescita si affievolisce
accade una paralisi del pensiero, una confusione del sentimento, un'ansia
per il futuro, un senso di inquietudine come quando sugli aerei si infila
un vuoto d'aria e tutti composti ostentiamo quella tranquillita' smentita
dai brividi del nostro ventre che pero' avvertiamo solo noi.
E cosi' ciascuno per se' sente il brivido della crescita zero a cui non
sa con che strumenti reagire, soprattutto se ha il sospetto che la crescita
zero sara' sempre piu' il nostro futuro, non solo perche' non possiamo
continuare a pensare che i quattro quinti dell'umanita' continuino a sacrificarsi
per la nostra crescita, ma perche' quando la crescita non ha altro scopo
che continuare a crescere, e' l'uomo stesso del mondo
privilegiato a divenire semplice "funzionario" di questa idea
fissa che, se diventa lo scopo collettivo della vita di tutti, affossa
e seppellisce il "senso" della vita, il suo sapore, il suo significato
per noi.
Se in cambio dei soldi che toglie dalle nostre tasche, la crescita zero
ci desse l'opportunita' concreta di incominciare a riflettere sull'assurdo
ritmo che aveva acquistato la nostra esistenza, sulla qualita' della nostra
comunicazione ormai troppo mediata, sulla natura un po' ambigua del nostro
amore fatto ormai di sole cose, e soprattutto sul fatto che regolare tutto
sul modello di una crescita all'infinito ha parentela con l'assurdo, allora
anche la crescita zero, che finora tocca solo i nostri soldi e non la
nostra pelle o la dignita' dell'uomo come ancora accade in troppe parti
del mondo, puo' essere accettata come una buona occasione per raddrizzare
non solo il nostro costume, ma anche la qualita' del nostro sguardo sulla
vita e sul mondo.
Cio' puo' avvenire incominciando magari a rinunciare all'individualismo
sfrenato e aggressivo degli ultimi decenni, per privilegiare il "noi"
rispetto all'"io". Il noi del volontariato, della reciproca
assistenza,
della familiarita' del borgo rispetto all'anonimato della metropoli, il
noi della convivialita', dei comportamenti virtuosi in ordine alla circolazione
stradale, alla scelta e al consumo dei cibi, alle condotte a rischio,
agli
stili di vita.
Valori non economici, dettati non dalla rassegnazione di chi e' consapevole
di non poter controllare o modificare l'andamento dell'economia, ma dal
rifiuto a sacrificare la propria esistenza al mito della crescita, che
visualizza gli uomini solo come produttori e consumatori. Con l'aggravante
che in una societa' che visualizza se stessa solo in termini di sviluppo
e di crescita, il consumo non deve essere piu' considerato, come avveniva
per le generazioni precedenti, esclusivamente come soddisfazione di un
bisogno,
ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. La' infatti dove
la produzione non tollera interruzioni, le merci "hanno bisogno"
di essere consumate, e se il bisogno non e' spontaneo, se di queste merci
non si sente il bisogno, occorrera' che questo bisogno sia "prodotto".
In una societa' opulenta come la nostra, dove l'identita' di ciascuno
e' sempre piu' consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo
sono sostituibili, ma "devono" essere sostituiti, puo' darsi
che si cominci ad
avvertire, sotto quel mare di pubblicita' che ogni giorno ci viene rovesciato
addosso, una sorta di appello alla distruzione, una forma di nichilismo
dovuto al fatto, come scrive Guenther Anders, che: "L'umanita'
che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa
come un'umanita' da buttar via".
Se nel sottosuolo della nostra anima collettiva si fa strada questa sensazione
che muta la gerarchia dei nostri pensieri e la forma dei nostri comportamenti,
anche il profilo del lavoro potrebbe mutare.
Oggi, infatti,
come ci ricorda Franco Totaro nel suo bel libro Non di solo lavoro, sotto
l'imperativo della crescita il lavoro e' visualizzato nel solo ambito
dell'economia, e cio' vuol dire che solo l'economia e' in grado di dare
espressione all'uomo, il quale non avrebbe come suo riferimento altro
orizzonte di senso se non quello determinato dal fare produttivo. A sua
volta il lavoro, non avendo altra finalita' se non quella di
concorrere all'incremento infinito della produzione, non sarebbe piu'
il luogo in cui l'uomo, realizzandosi, incontra se stesso, le sue capacita',
le sue ideazioni, l'attuazione della sua progettualita', ma solo il luogo
in
cui l'uomo tocca con mano la sua "strumentalita'", il suo essere
semplice appendice delle macchine, che nel loro insieme compongono l'apparato
tecnico-economico, interessato solo al proprio potenziamento e non alle
sorti dell'uomo.
Perche' allora non passare gradatamente dal "lavoro come produzione"
(che ha in vista solo la sua crescita esponenziale senza ragione e senza
perche') al "lavoro come servizio" dove la produzione non ha
in vista solo beni e merci (di cui al limite non sappiamo neanche cosa
farcene, se non fosse per i bisogni e i desideri indotti, cioe' a loro
volta prodotti), ma anche erogazione di tempo, di cura, di relazione.
I profili lavorativi che potrebbero nascere da questa nuova visualizzazione
del lavoro (di cui la societa' gia' sente a livello massiccio l'esigenza,
se dobbiamo giudicare dal gran numero di persone che si dedicano al
volontariato) sarebbero profili lavorativi che potrebbero trovare non
solo una reale e massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento
economico, se l'economia, che pensa sempre e solo alla produzione, sapesse
diversificare i suoi prodotti e incominciare a produrre non solo merci
e sempre piu' merci, ma anche e in misura crescente servizi per la persona
e per la relazione tra le persone.
Nel mondo dell'opulenza compriamo, in modo maniacale, merci e sempre piu'
merci per compensare la depressione che ci deriva dalla mancanza di relazioni,
che siano vere e non solo funzionali come esige la logica del lavoro.
Non sarebbe impossibile invertire la tendenza, perche' la felicita', nonostante
la pubblicita' vi alluda, non ci viene dall'ultima generazione di telefonini
o di computer, e piu' in generale di "prodotti", ma da uno straccio
di "relazione" in piu' che il lavoro come servizio (e non solo
come produzione) potrebbe incominciare a garantire.
|