Il conflitto e' risorsa, la diversita' e' ricchezza. E' in questa ottica
che la disposizione al dialogo assume senso e prospettiva in quanto strumento
di conoscenza dell'altro.
Giuliano Pontara nel suo saggio su dieci caratteristiche della personalita'
nonviolenta ricorda che "ha grandissima importanza la disposizione ad
argomentare e ascoltare gli argomenti della parte opposta, e quindi lo
sforzo di tenere continuamente aperti canali di comunicazione con essa".
Nella tendenza generale all'evitamento del conflitto o al suo congelamento
in equilibri provvisoriamente composti sul pregiudizio o il non ascolto
dell'altro, parole come queste ci sollecitano ad ampliare lo sguardo e
a ricordare che solo attraverso l'incontro con la diversita' si cresce
e si cambia.
Proviamo a ricominciare da principio. Il conflitto e' risorsa, la diversita'
e' ricchezza: sacrosanto. E parziale. Chi frequenta ambienti formativi
o si occupa ad un qualunque titolo di gestione dei conflitti potra' forse
condividere una noia o un'impazienza di fronte a questi che rischiano
di restare ritornelli privi di spessore, se non provati da un affondo
personale e vero.
Il conflitto e' anche disagio, difficolta', sofferenza. Ci sono ambienti
dove c'e' da vergognarsi a ricordarlo. Chi solo ci prova - l'ingenuo!
- viene guardato con acuta disapprovazione dagli astanti, quasi avesse
osato
profanare un'acquisizione indiscutibile. E allora si potrebbe ripartire
proprio da qui, dalla disposizione al dialogo con se stessi, dall'ascolto
e accoglienza del proprio vissuto e del proprio limite, per non rischiare
di
ridurre la presenza nel conflitto a qualcosa di asettico e vuoto, colmo
di solitudine, irreale.
Il dialogo nel conflitto e' un passo necessario e difficile, nel quale
si cresce non senza fatica. Alla base di questa attitudine, scrive Giuliano
Pontara, "e' l'accettazione del principio del fallibilismo. Questo principio
ci dice che siamo tutti mortali con poteri di conoscenza limitati onde
nessuno puo' mai dirsi sicuro che quello che in un certo momento crede
essere vero, in effetti sia tale: puo' benissimo darsi che sia falso".
Come
puo' darsi - vorrei aggiungere - che non sia falso ma incompleto, cioe'
abbracci solo una parte di quello che puo' essere visto, perche' strettamente
legato al proprio punto di osservazione.
Il disegno di Sasha
La definizione che piu' mi piace di disposizione al dialogo mi viene dalle
"Sette regole dell'arte di ascoltare" di Marianella Sclavi, e precisamente
la terza: "Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere
che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi
dalla sua prospettiva".
Sasha ha disegnato una casa in mezzo al bosco e su quel foglio continua
ad aggiungere segni e a cancellarli. Siamo in quarta elementare, nel pieno
di un laboratorio di scrittura collettiva, e Sasha e' un bambino bielorusso
adottato da una famiglia italiana dopo alcuni anni di vita in un orfanotrofio.
Non ha ancora dimestichezza con la nostra lingua e, per questo, ha faticato
a prendere parte al dialogo da cui e' scaturita la
storia che ora stiamo per scrivere. Sasha che non parla bene l'italiano,
tutti si aspettano che si dedichi alle illustrazioni, non che cincischi
su di un foglio per due ore. "L'ho visto subito", conclude l'insegnante.
"Non
fa niente, non ha voglia di far niente...".
Un po' di attenzione e di ascolto per capire quello che sta facendo Sasha.
Ha disegnato su un grande foglio l'ambientazione della storia e ora sottovoce
la sta raccontando. I segni che traccia e cancella continuamente
sono i personaggi che escono dalla casa o si muovono nel bosco. Ogni volta
che si spostano Sasha li cancella per disegnarli nuovamente nella nuova
collocazione. Sasha ha capito perfettamente la storia, e' dentro al lavoro
quanto gli altri, semplicemente sta procedendo secondo una logica diversa
da quella dell'insegnante. E lei, che pure e' davvero un'ottima insegnante,
presa dall'impegno di tenere a bada venticinque bambini, e forse dalla
stanchezza, si sta perdendo un fatto meraviglioso e potente dal punto
di vista educativo. Glielo faccio notare e quasi si commuove: "Chissa'
se mai qualcuno gli ha raccontato una favola prima che arrivasse qui...".
Vedo spesso, nella scuola, questa fatica degli adulti di decentrarsi,
di ammettere che un bambino o un ragazzo proceda secondo una strada diversa
da quella prefigurata. Mi pare che l'errore della maestra stia nel "subito".
L'insegnante "ha visto subito", cioe' si e' tolta la possibilita' di guardare
davvero.
Ancora Marianella - e' la regola numero uno: "Non avere fretta di arrivare
a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte piu' effimera della
ricerca".
Trasformare le ferite
Si raccontano storie per farsi compagnia, per superare le attese, per
sciogliere nodi, per colmare distanze. Si raccontano storie - purche'
qualcuno le ascolti - per sopportare un'assenza amata, o la mancanza di
una
soluzione. "Quello che non ha una spiegazione ha pero' una storia", ha
detto qualcuno che non so.
"One by One", uno ad uno, e' l'associazione che promuove il dialogo tra
sopravvissuti dei lager nazisti, e i loro figli e nipoti, ed ex-nazisti,
e i loro figli e nipoti. L'orrore ha radici profonde, travalica le generazioni.
In questi incontri, che a Berlino annualmente si ripetono, tutto quello
che fanno, queste persone insieme, e' raccontarsi la loro storia personale,
mettere in comune la sofferenza in un cammino di liberazione che trasforma
le ferite senza negarle o cancellarle. Esperienze come queste sono un'alternativa
possibile, praticata, meravigliosa, durissima, alla vendetta e alla lacerazione.
Ritorna nei percorsi di verita' e riconciliazione come in "Parents' circle",
l'associazione che riunisce i parenti delle vittime israeliane e palestinesi,
o nel libro La storia dell'altro, che giustappone la storia del
conflitto mediorientale nelle due versioni, di giovani israeliani e di
coetanei palestinesi, o in molto altro ancora... E' l'opposto di qualunque
muro e non ha niente di rassicurante perche' e' fragile, continuamente
minato dal ribollire della violenza. Da' l'idea di una giustizia che per
un attimo mette da parte pesi e misure e percorre la via del dialogo.
La partecipazione che vorrei
"Ascoltare e parlare, mai l'uno senza l'altro", mi ricorda un amico il
motto dei Cos di Aldo Capitini, che ha un corollario di grande saggezza:
"Chi puo' parlare ascolta con piu' attenzione".
I Cos, Centri di orientamento sociale, corrispondevano nel pensiero
capitiniano all'antidoto contro l'inevitabile distanziamento dei partiti
e delle istituzioni democratiche dalla gente. E' commovente rileggere
oggi gli argomenti in discussione: si va dal prezzo del latte ai dogmi
del cattolicesimo, dalla difficolta' di trovare, alla bisogna, un idraulico,
alle modalita' di riapertura delle scuole o del teatro comunale,
all'obiezione di coscienza. "Patate e ideali", raccomandava Capitini.
Assistiamo ora ad una ripresa di attenzione delle istituzioni verso la
partecipazione: agende 21, bilanci partecipati, piani di zona... Assemblee
di tanti generi per sostenere, confermare, rimpolpare la legittimita'
di scelte gia' prese o - qualche volta - per suggerirne di altre.
Alcuni percorsi li vedo dall'interno. Si considera un successo che la
sala sia piena e la gente prenda parte al dibattito. Se si teme un flop
si sceglie una sala piu' piccola. Se si parla di giovani ci si incontra
di
mattina, coartando classi scolastiche per assicurarsi di riempire le sedie.
Poca importanza alla qualita' del processo, alla rappresentativita' delle
persone riunite, alla competenza con cui si interviene. Ho visto rappresentanti
sindacali forzati nel gruppo sull'aggregazione giovanile perche' quello
sull'occupazione era gia' troppo numeroso e educatori discutere di politiche
del lavoro di cui non avevano conoscenza. C'e' sempre la scusa delle competenze
diffuse, naturali, trasversali. Intanto un gruppo
di ragazzi inventava un servizio di informazione e si dispiaceva di scoprire
che gli Informagiovani esistono gia', e da tempo. "Ma se avete inventato
tutto, cosa volete da noi?", sembravano dirci. Poi il tempo scade e i
gruppi devono sciogliersi, a qualunque punto siano arrivati.
Resta il dubbio intorno ad una partecipazione senza competenza, che non
sa cio' di cui si parla e, dunque, ha poco margine per portare un'aggiunta.
E il dubbio e' anche sulla partecipazione forzata, coartata appunto, perche'
se un'istituzione apre le sue porte, non e' affatto detto che i cittadini
si mettano in fila per entrare - e' molto piu' probabile, e scoraggiante,
incontrare laghi di passivita', assenza di richieste -, e se e' l'istituzione
a spingerli dentro probabilmente non sara' poi veramente interessata ad
ascoltarli, ne' loro ad esprimersi.
L'urgenza del dialogo, dove il conflitto non c'e'
Parla, Pontara, di "disposizione al dialogo" come attenzione nonviolenta
da praticare nelle situazioni di conflitto. Ma se davvero il dialogo e'
"ascoltare e parlare", bisognera' reclamarne l'urgenza dove il conflitto
non c'e' e al suo posto regna l'indifferenza. In una cultura televisiva
dove la comunicazione procede da una sola direzione lasciando poco piu'
che la possibilita' di assistere, si spaccia per rivoluzionario tutto
cio' che
ribalta questo modello senza modificarlo. Avviene allora che si inventino
spazi nei quali tutti possano dirsi artisti o opinionisti o altro, e che
l'accento non vada posto su che cosa viene detto o su chi e' stato ad
ascoltare, ma sul fatto che si e' avuta la possibilita' di prendere la
parola. Come dire: stavolta tocca a me. Che poi le parole cadano nel vuoto,
questo e' del tutto indifferente. Penso a volte: siamo troppo mediamente
benestanti, mediamente comodi, mediamente foderati di fronte alla sofferenza
nostra o altrui, siamo troppo al sicuro da una qualunque urgenza perche'
nascano idee, politica, curiosita', arte davvero.