Disabilità e servizi. Rischi di re-istituzionalizzazione? In "Appunti sulle politiche sociali", n. 3/2017 (221) - Per abbonarsi. Marco Bollani, Direttore Cooperativa Sociale Anffas COME Noi, Mortara, PV, Tecnico Fiduciario Fondazione Nazionale Anffas, Dopo di NOI, Disabilità e servizi. Rischi di re-istituzionalizzazione? Riflessioni su presa in carico, personalizzazione, “dopo di noi” Siamo davvero di fronte al rischio che i servizi pensati e sviluppati all’interno delle comunità, dei territori, siano a rischio di re-istituzionalizzazione? Se è così, occorre chiedersi perché ciò stia accadendo. Una riflessione che si muove tra modelli organizzativi, prestazionismo, ruolo degli operatori, qualità di vita, progetti di vita (intervista a cura di Fabio Ragaini). Vorrei riprendere e approfondire alcuni dei contenuti della tua intervista, in www.lombardiasociale.it, Sanitarizzazione la responsabilita è anche nei servizi?. Lo faccio non solo e non tanto per la condivisione di ciò che dici, ma perché mi sembra che descrivi una situazione che moltissimi territori si trovano a vivere. Una situazione che produce al tempo stesso sofferenza e rischia di generare impotenza in chi quei servizi li ha immaginati, pensati, aiutati a realizzarsi. La citazione è lunga ma credo sia utile. Tu dici “i servizi per la disabilità sono nati come proposte territoriali de-istituzionalizzanti ed oggi rischiano di essere soffocati da modelli organizzativi che ri-alimentano spinte re-istituzionalizzanti. I servizi per la disabilità sono stati concepiti per sostenere le famiglie a fronteggiare la convivenza con le disabilità più o meno complesse e si sono organizzati per sostenere le persone con disabilità a stare dentro la comunità. Servizi nati per accogliere le persone in strutture pensate per contrastare l’isolamento e l’esclusione sociale del vivere relegati in casa, per spezzare la simbiosi con le mamme ma anche la negazione totale dell’identità tipica dell’istituto. Servizi nati per sostenere percorsi di rafforzamento identitari della persona con disabilità. Servizi quindi concepiti e strutturatisi con una mission ed un’impronta educativa, psico-sociale che cercava di affermarsi come intervento professionale su base psico-pedagogica. Servizi che hanno aiutato le famiglie a tenere i figli a casa senza essere costretti ad istituzionalizzarli ed aiutato i figli a non vivere isolati, frequentando laboratori sociali che hanno inventato un modo nuovo per le comunità di porsi di fronte alla disabilità, tenendola dentro il perimetro comunitario. Tali servizi tuttavia, oggi appaiono in affanno a tener viva la propulsione ideativa a costruire nuovi mondi vitali dentro la comunità per favorire il benessere delle persone, tipica della loro prima stagione. Perché sono ridotti ed appiattiti su logiche di appropriatezza con-fuse in quanto prive di riferimenti scientifici, per nulla orientate a valutare gli esiti degli interventi, ed in molti casi mutuate da comparti organizzativi e gestionali per nulla omogenei al lavoro con la disabilità (perlopiù da ospedali e case di riposo)”. L’impressione è che di fronte a questo dato di realtà ci sia, soprattutto all’interno dei servizi, scarsa consapevolezza di una situazione che rischia di riportarci indietro con approcci e modelli che ritornano alla prestazione e si allontanano dalla prospettiva della qualità di vita. Condivido molto l’immagine dell’elastico che “ci tira indietro” verso approcci prestazionali e credo si tratti eminentemente di un problema di cultura e di pratica organizzativa. E mi spiego. Molti servizi sono stati anche incubatori di organizzazioni. Molte associazioni e molte cooperative sono nate dai servizi concepiti per sostenere persone e famiglie. Poi con il passare del tempo il consolidamento di questi servizi, in alcuni casi anche il loro sviluppo, il loro farsi più grandi, con maggiori responsabilità, con accordi pubblici, con ingenti risorse da amministrare, ha dovuto tener conto delle logiche delle organizzazioni che si sono strutturate per tenerli in piedi. E nella maggior parte dei casi le organizzazioni, anche quelle piccole, hanno optato per la via più facile: industrializzare la produzione dei servizi sulla base degli standard normativi istituzionali via via emanati dalle singole Regioni. Hanno industrializzato l’unità produttiva di base del servizio, l’intervento diretto alla persona, ri-ducendolo a prestazione standardizzabile e replicabile. E questo è avvenuto fisiologicamente perché le organizzazioni nel lungo periodo funzionano così. Tendono a minimizzare costi e fatiche spingendo, per così dire, verso il basso gli sforzi di con-tenimento della pressione esogena che devono affrontare quotidianamente. Agiscono, in primis, in chiave difensiva. Proteggono i confini, irrobustiscono le mura. Non è solo o tanto un problema culturale, ideologico, di interessi più o meno manifesti da perseguire. E’ un fatto quasi naturale tipico delle organizzazioni. Quindi, nel percorso di crescita dei servizi è successo che da un lato le Regioni a fronte di crescenti domande e di crescenti investimenti hanno dovuto incrementare finanziamenti e regole. E le organizzazioni nate dai servizi hanno semplicemente finito per dover rispettare le regole imposte dalle istituzioni. Istituzionalizzando il loro agire organizzato. Personalmente ritengo che oggi i tempi siano maturi per ripensare il sistema dei servizi attraverso una riconversione di questo processo di industrializzazione. Che non significa tornare allo stato nascente della spontaneità organizzativa priva di regole. Esattamente il contrario. Significa industrializzare le organizzazioni, farle crescere sul piano culturale per consentir loro di sviluppare gli anticorpi necessari a non ridursi fisiologicamente ai minimi termini e quindi a ri-produrre logiche istituzionalizzanti che mortificano le prestazioni. Significa portare un po’ di pressione del confronto con il mondo esterno dai “confini organizzativi” verso le zone di comando delle organizzazioni, per aprirle a nuovi scenari di confronto, a nuove mete e forse ad un vero e proprio ripensamento delle stesse ragioni per cui sono nate. L’obiettivo dev’essere quello di aiutare le organizzazioni a tutelare e valorizzare le prestazioni da cui sono nate, man-tenendo o riscoprendo il livello di umanità, di libertà di pensiero e di freschezza di quando sono nate. Il problema non è l’atto della prestazione in quanto azione finalizzata. E’ ciò da cui essa muove, come si compie e il risultato che produce. Se noi prevediamo norme regolative dei servizi in cui basta che ci siano delle prestazioni classificabili e codificabili e rintracciabili e diamo per scontato (e quindi non apprezzabile e valutabile) ciò che viene prima (la motiv-azione), il suo compiersi (inter-azione) e il suo esito, mandiamo in corto circuito la relazione di aiuto che è sempre un atto bilaterale e mai unilaterale. Mortifichiamo l’esperienza (da ex-perientia = stare dentro la vita) del suo compiersi privandole del senso e del significato che matura nella relazione. Bisogna invece che gli operatori dei servizi tornino ad essere liberi di inventare e di re-inventarsi oltre i perimetri delle norme; riformulando i significati del loro agire e ri-valutando esiti e risultati in funzione del senso che le persone, gli operatori e la comunità riusciranno ad attribuire ai prodotti ed alle prestazioni di questi interventi. E’ un’operazione di “sottrazione di peso” (rubando le parole a Calvino) che serve ai servizi per tornare ad essere luoghi caldi pieni di umanità con attenzioni e interventi che siano insieme su misura per la persona e in qualche modo ri-generatori di comunità e generatori di benessere. La parola d’ordine delle organizzazioni dovrebbe diventare, oltre gli standard, verso nuove mete e nuovi risultati alla ricerca del benessere delle persone fragili e di ci le sostiene. La chiave di questa trasformazione è lo spostamento dell’investimento “industrializzante”, dalla prestazione di base del servizio, la relazione d’aiuto, alla sua “costituzione” organizzativa. Se fosse un organismo umano potremmo dire che non basta “corazzare” la pelle ma occorre far funzionare bene la circolazione del sangue nel nostro corpo. Solo alzando il loro livello di competenza progettuale, di studio, di ricerca, di valutazione degli esiti e degli impatti sociali, le organizzazioni potranno ritrovare all’interno del loro agire la spinta necessaria per cambiare un po’ il mondo in cui operano (in quanto, assunto di base ogni organizzazione è costitutivamente quello di cambiare le cose nel mondo in cui opera). E quindi questo significa che le organizzazioni devono trovare risorse da immettere non solo sulla prima linea ma anche a supporto di chi sostiene le prime linee. Le organizzazioni sociali devono quindi promuovere studi sulla comunità, sugli esiti dei loro interventi, sul benessere che realizzano, attraverso partnership qualificate. E se tali attività non sono remunerate ed i servizi non generano margini sufficienti per sostenerle, le organizzazioni dovranno allearsi tra loro e generare questi studi e queste attività di ricerca facendoli insieme, alleandosi, collaborando, condividendo energie e risorse. E dovranno farlo cambiando il loro modo di organizzarsi. Comprando insieme energia elettrica tra diverse organizzazioni si possono risparmiare soldi da investire in formazione. Condividendo lo psicologo o il direttore amministrativo tra diverse piccole organizzazioni che operano tutte nel raggio di 40 km si può far crescere il livello organizzativo di diverse realtà con-dividendo i costi invece di lasciare alcune realtà molto avanti ed altre realtà molto indietro. Nella parte finale del tuo scritto riprendi la questione del “mandato professionale degli educatori”, introduci la questione dei percorsi formativi e li inviti a pensarsi come “operatori sociali militanti, impegnati a ri-progettare i contesti di vita delle comunità, per promuovere il benessere delle persone”. Mi sembra che se da un lato ci sia un problema di “rivitalizzazione” o meglio di “coscientizzazione” degli operatori, dall’altro ciò che si respira all’interno di molti soggetti gestori, in particolare, ma non solo, quelli meno legati ai territori è una scarsissima progettualità e la volontà, se il servizio è in affidamento, di allentare ogni minimo conflitto con i “committenti”. La militanza dell’operatore sociale è condizione necessaria ma non sufficiente. L’operatore sociale a cui non frega niente di come va il mondo e di come sta il prossimo suo è fuori posto. L’educatore e l’operatore sociale non possono agire senza inserire il loro mandato all’interno di un orizzonte di senso più ampio (come sta e come funziona la persona nell’ambiente in cui vive e come questo ambiente favorisce il benessere della persona e come la comunità vede, riconosce, percepisce, prende parte ai percorsi trasformativi necessari ad abbassare il tasso di esclusione e di malessere dei suoi abitanti). Ma questo interesse non deve essere per forza solo valoriale, morale o ideale. Il giacimento di questo interesse non deve stare solo dentro l’operatore. Anche l’organizzazione in quanto tale deve assumere come prioritario il compito di alimentare, sostenere e tenere in vita questo orizzonte di senso. Non può ridursi a contare solo sulla “militanza” dell’operatore, altrimenti lo manda “fuori giri, fuori squadra”. Per questo sostengo sopra la necessità che le organizzazioni tornino a pensare e ritengo che debbano essere spesi soldi anche per pensare e sperimentare. Proprio perché siamo pieni di contingenze in cui ci troviamo di fronte a dilemmi apparentemente non risolvibili: tipo aumentare gli interventi per le persone con disabilità in assenza di risorse aggiuntive o addirittura in presenza di contrazioni di risorse. Altro tema fondamentale è quello della presa in carico, condizione per la costruzione di progetti personalizzati (peraltro fulcro dei progetti della legge 112/2016 sul cosiddetto “dopo di noi”). Rifletto a partire dalla mia esperienza. Mi sembra che tanto più se ne enfatizza l’importanza tanto più si è di fronte ad una realtà lontana (croniche carenze di personale insieme a modelli organizzativi spesso antiquati), ma nello stesso tempo quando si riescono ad individuare percorsi adeguati ci si trovi con una rigidità e standardizzazione dell’offerta di servizi territoriali che rende difficile percorsi effettivamente rispondenti alle esigenze delle persone. In pratica, se non ho capito male, sostieni che quando si parla del Dopo di NOI se ne parla da molto lontano (magari aggiungo io osservandolo con il cannocchiale) e quando si agisce lo si fa attraverso modelli pesanti, ingessati (e, aggiungo sempre io, spesso inefficaci e inefficienti) e infine poni il problema di ri-declinare il legame tra personalizzazione degli interventi e architettura della presa in carico. Questa tua considerazione meriterebbe un intero testo di approfondimento che riguarda a mio parere l’intero corpus delle scienze sociali. Perché quando le scienze sociali cercano la forza del proprio statuto nei saperi, secondo me si indeboliscono. Nei fenomeni sociali il rapporto tra azione e conoscenza infatti non è necessariamente mediato dal sapere; ma è spesso mediato dall’esperienza, e dalla riflessione che essa produce rispetto all’agire che in essa si è finalizzato. Se estromettiamo dalle nostre pratiche la capacità di un agire riflessivo che contempli anche la “capacità negativa” (G. Lanzara, Il Mulino) dell’essere umano di abbandonarsi alla perdita momentanea di riferimenti che è tipica delle esplorazioni, ri-duciamo il nostro ruolo a meri e-rogatori di prestazioni in cambio di corrispettivi (esecutori) rinunciando alla funzione di “portatori di interessi” nella sua accezione più ampia di interessi che vanno oltre lo scambio monetario, il pagamento della prestazione e riguardano il funzionamento della società ed il ruolo che vogliamo assumere al suo interno. E qui la responsabilità sta soprattutto nelle istituzioni che, non per colpa loro ma, parere personale, per deficit di pensiero da parte del corpo elettorale, hanno smesso di essere governate da politici. Quando le istituzioni sono amministrate da contabili non investono più sulla loro capacità di modificare le regole del gioco e quindi in presenza di riduzioni di risorse economiche non ci resta che ridurre gli interventi, anche se il mondo oggi è molto più ricco di quanto gli interventi sociali sono nati e sono stati concepiti. Bisogna da questo punto di vista invertire la rotta. Bisogna che le istituzioni premino e incentivino le organizzazioni che pensano e che danno prova di saper progettare oltre gli standard anche e soprattutto a partire da condizioni di emergenza delle persone più fragili. E questo vale soprattutto per il dopo di NOI. Le attuali 600 e oltre esperienze di Dopo di NOI già realizzate in Lombardia ben prima dell’approvazione della legge 112/2016 e oggi (grazie alla legge) censite dalla Regione, non sono nate dall’afflato e dal respiro ideale della convenzione ONU. Sono nate dall’ostinazione di persone con disabilità e famiglie in emergenza che hanno saputo spingere associazioni e cooperative a disegnare percorsi nuovi che andassero oltre i perimetri e gli standard dei servizi istituzionali. Quando si parla da lontano, con il cannocchiale del dopo di NOI è perché non si conoscono queste esperienze e perché non se ne comprende il senso; oppure perché si utilizza la legge come una clava per corroborare, in positivo o in negativo, le proprie idee (o ideologie) su come sostenere (e in alcuni casi “risolvere”) il problema della disabilità; oppure ancora perché si cerca per forza di “vendere” qualche modello secondo lo schema classico del marketing, cioè attraverso la pubblicità. In realtà moltissime delle esperienze di dopo di NOI già realizzatesi e coerenti con il dettato della legge, costituiscono solo un esempio banale del fatto che si possono aiutare persone con disabilità anche molto diverse, a staccarsi dai genitori, ad emanciparsi da essi, realizzando dei percorsi di vita che non sono estranei ed alternativi ai servizi, ma semplicemente vanno un po’ oltre i perimetri delle regole dei servizi e soprattutto oltre la frammentazione e le segmentazione tra un servizio e l’altro. La legge ha tolto molti alibi ed ha messo a nudo molte inefficienze e molte incapacità anche all’interno del mondo del terzo settore. Ed oggi si assiste alla fatica di molte realtà che devono rincorrere la legge in assenza di esperienza sul tema. Oppure a molte persone e molte associazioni che ne parlano ma senza esperienza, solo per convinzioni (legittime e sacrosante ma, come dicevi bene tu, viste dal cannocchiale…). Per quanto riguarda invece il rapporto tra personalizzazione degli interventi e architettura della presa in carico il problema sta semplicemente nel fatto che troppo spesso nei servizi per la disabilità (ma non solo) abbiamo finito per ribaltare il rapporto tra mezzi e fini. Il servizio è uno strumento e non il fine dell’organizzazione che lo produce. La standardizzazione serve per dare sostanzialmente uniformità e omogeneità di quantità e qualità di prestazioni e interventi alla platea dei beneficiari. L’obiettivo di standardizzare è più “livellare” e garantire uniformità di trattamenti che non migliorare le condizioni di vita e di benessere delle persone. Lo standard è uno strumento per gestire al meglio le risorse affidate ed anche governare mandati complessi che devono garantire l’impiego e l’allocazione ottimale di risorse “scarse” (nel senso di non infinite). Lo standard di trattamento però non ci dice nulla rispetto al risultato dell’intervento, all’esito del percorso di presa in carico. Se costruiamo un sistema di offerta di servizi e interventi che presuppone implicitamente che attraverso l’impiego “X” di risorse il servizio e l’intervento siano ben fatti (cioè efficaci ed efficienti), finisce che lo strumento dello standard si incorpora anche il risultato ed il fine del servizio (“lo standard si mangia l’esito”). Se, al contrario, stabiliamo che il servizio funziona ed è fatto bene in funzione non tanto delle caratteristiche del suo processo erogativo, quanto in funzione dei risultati (positivi o negativi) che esso produce, allarghiamo il perimetro della nostra valutazione, della nostra performance e del nostro impegno, mettendoci nelle condizioni di poter misurare e apprezzare gli esiti e gli impatti dei nostri interventi. Gli indicatori più evidenti di questo fenomeno discorsivo sono essenzialmente due: la qualità e l’appropriatezza degli interventi. I sistemi sanitari e socio-sanitari oggi tendono a spostare l’attenzione valutativa dal misurare i risultati al misurare il rispetto delle procedure e lo fanno sostituendo sempre più spesso alla parola: risultato le parole: qualità e appropriatezza. E nell’ambito degli interventi rivolti alla disabilità questo processo (che è inscritto dentro il più ampio problema della sanitarizzazione) avviene per lo più perché facciamo ancora troppa fatica a dare dignità, rilevanza e traduzione pratica a concetti come benessere e soprattutto perché non riconosciamo dignità ai risultati esistenziali dei nostri interventi. Il benessere riusciamo a pensarlo ed a rilevarlo solo attraverso il concetto di salute come assenza di malattia e quindi come condizione che non prevede cure. E questo ci porta a non vedere (o meglio a mis-conoscere) che l’educatore che affianca una persona con autismo o con una disabilità intellettiva profonda è elemento essenziale e irrinunciabile per la salute di quella persona in quanto incide sul suo benessere anche se non è una cura o una medicina o una prestazione sanitaria in senso stretto. Ha valenza sanitaria (e quindi un onere che non può non ricadere sui costi della sanità) in quanto incide direttamente sullo star bene della persona e quindi vale quanto la cura (ad esempio) della cardio-aspirina per un malato cronico cardiopatico, che viene curato appunto con un farmaco fondamentale per il suo benessere. Questo assunto del resto è stato affermato già da oltre 20 anni dall’organizzazione mondiale della sanità che ha sancito che la salute non è l’assenza di malattia ma è il benessere bio-psico-sociale. L’altra questione ancora più interessante e sfidante è quella di dare dignità, valore e evidenza ai risultati in termini esistenziali. Perché così come ognuno di noi quando accede alle cure dell’ospedale perché malato si aspetta di superare l’evento “morboso” e di uscire dall’ospedale quanto meno guarito, o comunque in condizioni più stabili e sostenibili di quando è entrato, è “appropriato” (nel senso di coerente e ragionevole) pensare che quando una persona con disabilità non è più in condizioni di vivere a casa sua e occorre che sia inserita in una struttura residenziale, è importante capire e valutare non solo che esista la struttura (condizione necessaria), ma anche quanto questa persona si senta almeno bene come a casa sua (condizione sufficiente di risultato dell’intervento); quali e quanti spazi di libertà la struttura le garantisce (di più o di meno) rispetto alla vita a casa. E questo vale bi-direzionalmente. Anche per stabilire se e quando sussistono le condizioni per consentire ad una persona di emanciparsi da un servizio residenziale. Perché per stabilire se è bene o meno ricorrere ad un servizio residenziale ed a quale servizio eventualmente far ricorso, il punto di partenza e di arrivo dovrebbe proprio essere questo: a parità di risorse X quanto benessere riusciamo a garantire a Mario, in struttura o a casa? Oggi ad esempio diciamo che per le persone con disabilità che necessitano di sostegni più elevati non è perseguibile la presa in carico al domicilio in quanto ciò comporterebbe dei costi troppo elevati. Io obietto da sempre l’aporia ed anche la stupidità di questo ragionamento. I costi sono troppo elevati in quanto si prendono come riferimento, guarda caso, gli standard delle strutture sanitarie e socio-sanitarie. E quindi succede un corto circuito di ragionevolezza. Perché è logico e ragionevole che dove risiedono o ruotano 20, 40, 100 persone al giorno da assistere e da curare è normale che anche per somministrare un’aspirina si debba ricorrere alla prestazione di un infermiere professionale ed al rispetto di rigide procedure attentamente monitorate. E’ una questione di sicurezza e di responsabilità. Come avviene nel traffico, dove ci sono regole, vigili e semafori. E figuriamoci poi per operazioni più complesse come ad esempio per un’aspirazione delle persone con cannula trecheostomica. Però allo stesso tempo, in un progetto di vita per il dopo di noi in cui quattro genitori insieme a due operatori anch’essi soci della cooperativa fondata insieme ai genitori proprio per mettere in piedi la convivenza di questi quattro figli con gravi disabilità, siamo sicuri che la somministrazione dell’aspirina e l’aspirazione attraverso la cannula non possano essere fatte come ho sempre fatto a casa mia quando aiutavo il mio papà negli ultimi mesi della sua vita? Io non sono un infermiere; all’epoca in cui aiutavo mio padre non ero neanche un suo convivente … Eppure, a casa sua, facevo cose che dentro un ospedale o una struttura socio-sanitaria devono essere fatte da personale qualificato. Pena la denuncia. Ma a casa di mio papà, mia mamma o l’ordine dei medici avrebbero potuto denunciarmi per esercizio abusivo della professione medica? E quindi avrei dovuto incaricare un infermiere? Serve il vigile, il semaforo anche in casa? Tutto questo ragionamento ci serve a mio avviso per allargare il ragionamento su personalizzazione e presa in carico ri-mettendo in gioco, il senso, la finalità e le mete dei nostri interventi, rivedendone gli assetti regolativi soprattutto in funzione dei risultati e degli esiti e degli impatti sul benessere esistenziale delle persone che beneficiano dei nostri interventi. La qualità, l’appropriatezza, le procedure e le linee guida per la presa in carico, devono sempre confrontarsi con i risultati a cui vogliamo tendere a partire da condizioni date e dai bisogni e dalle aspettative della persona all’interno del suo contesto di vita. Oggi si parla tanto di livelli essenziali di assistenza ma siamo in grado di ragionare sui livelli “esistenziali” di assistenza? Siamo in grado di misurare i miglioramenti del benessere esistenziale e della qualità della vita delle persone? In Anffas ci abbiamo provato attraverso due ambiziose e importanti ricerche; la prima su Inclusione Sociale e Disabilità per valutare se e quanto riusciamo a promuovere attraverso i nostri servizi, autodeterminazione e inclusione sociale; la seconda per costruire uno strumento che ci consenta di progettare e gestire al meglio interventi che possano migliorare la qualità della vita. E i risultati ci hanno detto che sostanzialmente dobbiamo cambiare; con le dovute gradualità dobbiamo metterci a ripensare i nostri interventi che sostengono le persone. Perché siamo bravissimi a non far mancare niente sui bisogni di assistenza in senso stretto ma facciamo ancora troppa fatica a promuovere benessere esistenziale e condizioni di vita desiderabili. E questa penso sia una bella sfida per le scienze umane, sociali, per la sanità e per la politica, a prescindere dalle condizioni di funzionamento delle persone e quindi a prescindere dalle condizioni di età, sesso, ceto sociale, eventuale tipologia di disagio o di disabilità. Vengo infine alla legge sul dopo di noi e alle “applicazioni regionali”. Anche su questa questioni hai lavorato molto. Riesci ad esprimere una valutazione a partire da quanto fin qui prodotto dalle Regioni? Secondo te quali rimangono i principali nodi di tipo culturale con cui dobbiamo fare i conti? Uno dei rischi, direi abbastanza grave, che mi pare si corre è quello di tenere staccata questa progettualità da quella “ordinaria”. Quindi tre domande in una: cos’hanno prodotto le Regioni e cosa mi convince di più? Quali nodi culturali occorre “sciogliere” per rendere tale prospettiva più fruibile. Come evitare che i progetti di vita del dopo di NOI siano cosa altra, separata e staccata dai servizi attuali? Intanto premetto che il mio lavoro sul dopo di NOI altro non è stato che raccontare gli elementi di contingenza che avevano reso possibile nella nostra piccola esperienza cooperativa Anffas di Mortara (in provincia di Pavia), la realizzazione di percorsi e progetti di vita per il dopo di NOI integrati con i servizi diurni e residenziali e già sostenuti dalle amministrazioni locali ben prima della nascita della legge. Ho avuto la possibilità di raccontare quest’esperienza all’interno del circuito Anffas in qualità di referente tecnico della Fondazione Nazionale Anffas Dopo di NOI e di quello della confcooperative, in qualità di consigliere regionale di Federsolidarietà a partire dal 2016, e in più per tutto il 2017 e negli ultimi mesi ho portato il mio contributo all’interno del confronto istituzionale tra Regione Lombardia e Forum del Terzo Settore avviatosi per la predisposizione del piano operativo attuativo di Regione Lombardia. Evidenzio queste appartenenze per dire che il mio punto di vista è quello di un operatore sociale con esperienza diretta e sul campo maturata proprio all’interno dei contesti organizzativi ingessati e di servizi standardizzati che spesso vengono additati come il problema verso l’innovazione. Nel nostro caso i servizi diurni e residenziali, al contrario, hanno costituito il volano per generare risposte nuove oltre gli standard, e questo vale per la maggior parte delle risposte innovative di questo tipo oggi già realizzatesi, in Lombardia e nelle altre regioni. Quindi per entrare nel merito delle risposte alle tue domande, la cosa che ho apprezzato di più in generale della Legge 112 è la scelta precisa di aver riconosciuto il movimento di esperienze concrete già realizzatesi e di “aver portato a casa” anche grazie al lavoro del mondo associativo, un testo definitivo di legge ed un decreto attuativo in tempi rapidi, risorse aggiuntive (anche se pochissime) ed un’idea generale di intervento e di presa in carico che si sforza di andare oltre la risposta emergenziale, ma anche oltre la mera prestazione. Tanto per capirci, sarebbe stato molto più facile per il legislatore individuare risorse aggiuntive da destinare ai servizi residenziali esistenti per garantire accesso a tutte quelle persone che oggi hanno bisogno di sostegno residenziale ma sono prive di risposte. Il legislatore ha preso un’altra strada. Non era la via più facile. La politica ha dato prova di coraggio e di lungimiranza. E, forse per capirci ancora di più, coloro che al contrario la reputano una legge priva di coraggio perché non ha trovato la forza di “abolire” i servizi esistenti, beh, secondo me stanno osservando il fenomeno da troppo lontano usando un cannocchiale poco potente ed hanno anche un po’ il sole in faccia; o forse è solo l’abitudine da sempre facile a pensare che basta buttar via qualcosa per fare passi avanti… Facendo l’operatore sociale ho poca dimestichezza con i processi di rottamazione e di formattazione ed anche con la guida delle ruspe, metafore politiche recenti e inquietanti che identificano la politica con il fare pulizia. Ma avendo anche un passato da agricoltore ritengo che portare acqua e la giusta attenzione a qualcosa che è germogliato bene anche intersecandosi con le altre piante, mi sembra una prospettiva più difficile ma più promettente. Se posso consentirmi una divagazione, potremmo dire che oggi il sentore di mora nel vino tanto caro ai palati dei nuovi eno-consumatori responsabili, competenti e in cerca di esperienze sensoriali innovative, può essere iniettato nel vino attraverso operazioni standardizzate grazie al miglioramento continuo dei processi di lavorazione in cantina che hanno migliorato la qualità di ciò che si vinifica e si beve. L’origine di questo sentore tuttavia nasce dalla promiscuità caotica della natura e soprattutto dalla sua forza ridondante a generare dei rovi a ridosso degli scorrimenti d’acqua che delimitano i filari e attraversano le colline dei vigneti. Con il risultato che nei campi dove si fa l’uva si raccoglievano spesso anche le more; ma anche le ciliegie o le amarene le cui piante crescevano selvatiche ma venivano spesso conservate dagli agricoltori perché servivano ad ombreggiare. Nelle campagne dei vigneti di oggi, a coltura massicciamente e tipicamente intensiva, ci sono sempre meno rovi pieni di more e sono sparite le piante di ciliegie e di amarene. Per fare passare i trattori. In compenso ci sono sempre più agenti chimici nell’uva e quindi nel vino che beviamo, che è sempre meno diverso da una stagione all’altra. Credo che fare l’operatore sociale richieda la capacità di stare nei processi di crescita e di cambiamento delle comunità con la stessa attenzione di quei produttori di vino che oggi stanno cominciando ad abbandonare la coltura intensiva ed a ridurre all’osso l’introduzione di agenti chimici nel vino. O di quei bravi meccanici che sanno riparare quasi tutto o di quei bravi informatici che sanno riparare i pc senza perder memoria di quasi niente. E quindi, fuor di metafora e venendo ai programmi attuativi regionali posso segnalare i punti che più mi convincono di più dei due programmi regionali che, tra quelli attualmente letti e studiati, ritengo siano i adeguati: quello della Lombardia e quello dell’Emilia Romagna. Lombardia. Ho molto apprezzato la mappatura e le ricognizioni che La Regione ha avviato per censire tutte le esperienze di dopo di NOI già realizzatesi prima della legge. In secondo luogo ho apprezzato in Lombardia e sto apprezzando anche in diverse parti d’Italia il coraggio con cui molte Regioni avviano dei confronti veri con il mondo delle associazioni e del terzo settore che ha concreta esperienza sul campo; aprendosi alla difficile prospettiva di mettere in discussione molti approcci tra quelli oggi esistenti. Emilia Romagna. Ho apprezzato l’esplicitazione dell’inserimento dell’educatore professionale tra gli specialisti che dovranno redigere le valutazioni multidimensionali ed anche tra gli operatori che dovranno assumere il ruolo di case manager. Ho molto apprezzato il riconoscimento da parte della Regione, della necessità di sostenere la formazione degli operatori e la conseguente assunzione di oneri. Per quanto riguarda i nodi culturali mi limito ad osservare la difficoltà a sciogliere quello che mi sembra sia il più ostacolante … la barriera più consistente a com-prendere il cambiamento della 112. Il nodo concettuale del rapporto tra autonomia e dipendenza o tra indipendenza e sostegni. La legge orienta le persone verso la casa e verso la con-vivenza proprio perché assume la prospettiva esistenziale del diritto di scelta a vivere e con-vivere a casa propria per tutte le persone con disabilità. Lo fa, riconoscendo il valore delle esperienze di convivenza a casa loro tra diverse persone con disabilità già in atto. Nel fare ciò la legge, in coerenza con la Convenzione ONU, orienta il sistema a superare il concetto di vita indipendente intesa come vita da solo e soprattutto come vita senza sostegni. Per questo motivo quando sento dire che questa legge non c’entra nulla con la vita indipendente penso che chi parla in questo modo abbia una visione limitata e riduttiva di cos’è oggi la vita indipendente, soprattutto per le persone con disabilità. Penso al contrario che questa legge favorisca più opportunità di vita indipendente, intesa come percorso di emancipazione dalla famiglia di origine attraverso la scelta di dove vivere e con chi vivere, per molte più persone con disabilità rispetto ai destinatari fino ad oggi “standard” dei provvedimenti mirati per la vita indipendente. Perché l’asse portante della vita indipendente non è la prestazione di servizio che la sostiene (la “prestazionalizzazione” purtroppo non è un male solo dei servizi organizzati e degli istituti, così come la segregazione e le negazione della dignità personale) ma la possibilità di scegliere dove e con chi vivere. E la 112 è stata concepita per aumentare tali opportunità di scelta e non per diminuirle. Spesso invece emerge ancora con forza, anche nel dibattito tra associazioni, la difficoltà a riconoscere che anche le persone con elevate necessità di sostegno e con disabilità intellettive abbiano bisogno di sostegni e opportunità per poter effettuare la scelta tra la vita da soli, la vita con i genitori, la con-vivenza e la vita nei servizi. E’ un bisogno, quello di poter scegliere dove vivere che ci accomuna tutti. Oltre che un diritto che non può essere negato a nessuno, in base all’art 19 della legge 18 del 2009. Pertanto, come ho già ribadito sopra parlando di personalizzazione e architettura della presa in carico, il tema posto dalla Legge 112 che impone la costruzione di un progetto personalizzato e di un budget di progetto, elimina finalmente una serie di contraddizioni e di posizioni oggi non più sostenibili e ci impone di ribaltare alcuni luoghi comuni. Provo ad evidenziarne i più ricorrenti: 1) Vivere a casa propria e quindi assistere a casa propria le persone con gravi disabilità non si può fare perché costa troppo! Dobbiamo ribaltare il problema: con le stesse risorse con cui assisto una persona all’interno di una struttura socio-sanitaria, posso assumere la sfida di provare a migliorare la qualità della vita e il benessere di questa persona cambiando le regole del gioco? 2) La 112 con la vita indipendente non c’entra nulla perché vita indipendente significa assumere un’assistente personale che risponda solo alla persona con disabilità, vivere da soli e avere un lavoro ed essere in grado di partecipare alla vita della comunità; Dobbiamo ribaltare il problema in questo modo: la possibilità di scegliere tra più opzioni di vita, a casa con i genitori, in una struttura, da solo con un’assistente personale o convivendo in appartamento tra più persone che si conoscono, quanto può aiutare le persone con disabilità ad emanciparsi dai genitori e ad avviare un percorso di vita adulta più dignitoso, gratificante e meno dipendente da mamma e papà o da altri familiari o dai servizi residenziali… 3) E’ assurdo affrontare il problema dei gravi parlando di de-istituzionalizzazione ed associando il dopo di noi alla vita indipendente perché i gravi non avranno mai le necessarie autonomie per poter vivere a casa … Dobbiamo ribaltare il problema in questo modo: attraverso quali progetti di vita e quali sostegni personali ed ambientali possiamo riuscire in ogni singola situazione a promuovere ben-essere e qualità di vita per ciascuna persona? 4) La Legge 112/2016 va bene solo per le persone con lievi disabilità perché orienta gli interventi verso la vita a casa ed a forme di residenza rivolte a non più di 5 persone e quindi è un contro-senso che si rivolga alle persone con grave disabilità. Dobbiamo ribaltare il problema in questo modo: a partire dall’orizzonte tracciato dalla Convenzione ONU, il ripensamento degli interventi in un’ottica di personalizzazione, miglioramento della qualità della vita, incremento dei processi di autodeterminazione, contrasto all’istituzionalizzazione ed alla segregazione anche familiare è più urgente per le persone con lievi disabilità o per quelle a maggior intensità di sostegno? E’ più urgente per chi già beneficia di sostegni come i servizi diurni o per chi non accede neanche ai servizi diurni ? E infine rispondo sul come evitare che i progetti di vita del dopo di NOI siano cosa altra, separata e staccata dai servizi attuali … E’ molto semplice, occorre che tutti i servizi assumano la sfida del dopo di NOI come opportunità per sostenere le persone con disabilità ad emanciparsi dai genitori in quanto persone adulte e non in quanto i genitori non ce la fanno più. I centri diurni devono orientare le famiglie e le persone a percorsi e obiettivi di reciproca emancipazione e di indipendenza ed i servizi residenziali devono concepirsi come strutture di sostegno per la riprogettazione di percorsi di vita sempre più personalizzabili e funzionali alle scelte di ogni singola persona. I servizi sappiano coltivare il seme di cambiamento che sta nella 112. Non si chiudano a riccio. E le istituzioni e le associazioni e le imprese sociali siano consapevoli di questa necessità. La Legge potremo dire che l’abbiamo attuata bene se produrrà tantissimi progetti in più di quelli che riesce a finanziare perché significa riconoscere che ha bisogno di più risorse. Potremo dire che l’abbiamo applicata bene se saprà rinnovare molti servizi diurni e residenziali aprendo per loro nuove possibilità di intervento educativo sociale e di presa in carico. Ma si tratta di una sfida che non può essere demandata alle sole persone con disabilità o ai loro genitori o ai singoli operatori sociali. Occorrono ulteriori spinte normative adeguate e cioè leggi dotate di risorse anche se poche (come quella della Legge 112) a partire dal programma di azione biennale per l’attuazione della convenzione ONU che dopo il fallimento della prima edizione si appresta a fallire per la seconda volta se non sarà dotato di risorse e se non saprà assumere una prospettiva pratica, concreta; investimenti istituzionali ed anche privati di singole persone e di loro genitori; investimenti accompagnati da una visione forte de-istituzionalizzazione come opportunità sfidante per cambiare la comunità in cui viviamo ed anche forse per impedire o quanto meno contrastare il ritorno di una concezione antropologica e di una visione dell’uomo in cui la dignità della persona la si riconosce solo in base ai livelli di funzionamento e di performance. Per approfondire DISABILITA’ E PROGETTO DI VITA DISABILITA’ COMPLESSA E SERVIZI news LE STORIE DI VITA INSEGNANO (Moie di Maiolati, 25 ottobre e 6 dicembre 2019) FIRMA LA PETIZIONE! La proposta sui requisiti dei servizi sociosanitari va cambiata