LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA, Supplemento
domenicale de "La nonviolenza e' in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E,
01100. Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it - Numero 57 del
22 gennaio 2006
Ripreso dalla rivista telematica "Deportate, esuli, profughe. Rivista
telematica di studi sulla memoria femminile", nel sito: http://venus.unive.it/rtsmf,
Mi chiamo Liliana Segre, sono nata a Milano nel 1930 e a Milano ho sempre
vissuto. La mia famiglia era ebraica agnostica, cioe' non frequentavamo
il Tempio o ambienti ebraici. Io ero una bambina amatissima, vivevo in
una bella casa della piccola borghesia, insieme a mio padre e ai miei
nonni paterni, in quanto la mia mamma era morta poco dopo la mia nascita.
Mi ricordo la sera di fine estate del 1938: avevo fatto la prima e la
seconda elementare in una scuola pubblica del mio quartiere, quando mio
padre cerco' di spiegarmi che siccome eravamo ebrei, non sarei piu' potuta
andare a scuola. Quel momento ha segnato una cesura tra il prima e il
dopo; era difficile per mio padre, con un sorriso commosso, spiegarmi
quel fatto:
io che mi sentivo cosi' uguale a tutte le altre bambine, invece ero considerata
diversa.
Mi ricordo la fatica di dover cambiare scuola e di non dover dire mai
niente nei primi giorni nella nuova scuola di quella che io ero al di
fuori delle mura scolastiche. Le bambine con le quali ero stata a scuola
nei primi due anni, quando le incontravo per strada, mi segnavano e dicevano
che io non potevo piu' andare nella loro scuola in quanto ero ebrea. Io
sentivo e vedevo quelle risatine e non capivo perche' facessero cosi'.
Mi ricordo come cambio' la nostra vita: ad esempio suonavano alla porta,
mia nonna andava ad aprire ed io dietro di lei; erano dei poliziotti che
venivano a controllare i documenti. Mia nonna, piemontese, li faceva
accomodare in salotto e offriva loro dei dolcetti e questi rimanevano
spiazzati, in quanto dovevano trattarci da "nemici della patria";
noi che nella nostra famiglia avevamo avuto mio zio e mio padre ufficiali
nella
prima guerra mondiale, loro che si ritenevano italiani, patrioti. Loro
non sapevano cosa fare con una signora cosi' affabile e gentile; mia nonna
mi mandava fuori della stanza, ma io stavo dietro la porta ad origliare
per
sentire cosa dicevano questi poliziotti, ma avevo anche molta paura.
Gli anni di persecuzione si snodarono uno dopo l'altro, le leggi razziali
fasciste erano cosi' umilianti, perche' avevano deciso che questa minoranza
(35.000-37.000 ebrei italiani di allora) fosse declassata a cittadini
di
serie B. Era difficile essere cittadini di serie B, in una zona grigia
come la nostra; la solitudine si faceva tangibile vedendo coloro che finora
erano stati amici, allontanarsi da noi, perche' e' sempre facile essere
amici di chi e' sulla cresta dell'onda, ma non di quelli che sprofondano
inesorabilmente.
Mi ricordo che non venivo piu' invitata alle festicciole delle amiche,
alcuni genitori dicevano alle figlie di non invitarmi alle loro feste,
a casa loro.
Mi ricordo che queste cose che vedevo, le leggevo con una maturita' inadatta
alla mia eta'; mi ricordo che non potevamo piu' ascoltare la radio, dovevamo
chiedere il permesso per fare tutto; la cameriera che seguiva mio nonno,
che era ammalato del morbo di Parkinson, non potevamo piu' tenerla.
Erano molte le cose che non potevamo fare, proibite, e ci venivano indicate
in un modo sottile, sotterraneo e universalmente accettato. Ho letto poi
da adulta tante cose che allora non sapevo, per esempio del silenzio colpevole
di tutto il popolo universitario italiano: quando i professori dell'universita'
italiana di allora videro mandare via dei professori ebrei per la colpa
di essere nati ebrei, invece di scendere in strada a gridare il
loro disgusto (molti di questi ebrei furono poi chiamati in America, tanta
era la loro professionalita' ed esperienza), nessuno fece sentire la propria
voce, anzi fu molto interessante prendere i posti lasciati liberi; ci
fu questo silenzio-assenso che faceva parte del grande trionfo del fascismo
di quegli anni; e non importa se, finita la guerra, tutti quelli che incontravo
per strada mi venivano a dire: "Noi eravamo antifascisti, noi abbiamo
fatto scappare molti ebrei...", ci fu qualcuno antifascista, e qualcuno
ha fatto scappare molti ebrei, ma la maggior parte andava in piazza Venezia
ad applaudire quello che gridava piu' forte.
Questo silenzio colpevole intorno a noi fu la cosa piu' grave di tutte:
perche' davanti a delle leggi cosi' discriminanti, un popolo che sa ragionare
con la propria testa, non fa come le pecore che vanno dietro il
gregge, anche se questo va a finire in un fosso.
Allo scoppio della guerra, gli italiani vivevano in una situazione precaria,
gli ebrei italiani in una situazione ancora piu' difficile. Mi ricordo
che quando nell'ottobre del 1942 iniziarono i bombardamenti su Milano,
tutti i milanesi cercarono di fuggire, come noi che ci rifugiammo in un
paese della Brianza, dove non c'era una scuola adatta a me, in quanto
c'era solo una scuola pubblica: a dodici anni ho smesso di andare a scuola.
Quindi stavo sempre a casa, curavo mio nonno che adoravo, mio nonno che
era ammalato (quando vedo il papa che in tv trema con la sua debole mano,
mi viene in mente mio nonno). Mio nonno non era piu' autosufficiente ed
io vivevo vicino a lui: piangeva, non aveva piu' le forze per riprendersi,
lui
che era stato attivissimo, aveva portato il benessere alla nostra famiglia,
si rendeva conto dello sfacelo che stava succedendo intorno a se'. Io
inventavo storie fantastiche, gli facevo da infermiera e sentivo la radio
e
capivo quello che stava succedendo in tutta Europa: ero diventata una
esperta dei bollettini di guerra.
Capivo come l'esercito nazista stava mettendo in ginocchio tutta l'Europa
e stava avanzando e che quindi gli ebrei venivano trattati in quel modo
disumano che ancora noi non conoscevamo. Nell'estate del 1943, subito
dopo la caduta del fascismo (l'8 settembre), i nazisti divennero padroni
dell'Italia del nord, e alle leggi razziali fasciste severe si sovrapposero
le leggi di Norimberga che avevano nel loro testo quelle due paroline
"soluzione finale", di cui ancora nessuno capiva il significato.
Mi ricordo che mio padre decise che avremmo dovuto cambiare identita',
compro' una carta d'identita' falsa; mi ricordo lo strazio di una famiglia
onesta e normale che si recuperava una carta d'identita' falsa. Mi ricordo
che dovevo imparare il mio nuovo nome e cognome, le mie nuove generalita'
che avrebbero potuto essere la mia salvezza... ma il mio cervello si rifiutava
di impararle. Non riuscivo a memorizzare quei dati che non erano i miei
e che mi facevano nata a Palermo, con un altro cognome. Con quella carta
falsa fui ospite di due famiglie cattoliche eroiche che mi nascosero.
Mio padre, con quella carta falsa, ogni tanto mi veniva a trovare ed era
sempre piu' disperato perche' non sapeva cosa fare: era stanco, esaurito
da cinque anni di persecuzione con la responsabilita' di una ragazzina
di 13 anni e di vecchi genitori, mia nonna stava diventando pazza, e mio
nonno stava sempre peggio. Ad un certo punto riusci' dalla questura di
Como,
pagando un funzionario, ad avere per i propri genitori un permesso che
diceva che Olga e Giuseppe Segre, visto il loro stato fisico, potevano
risiedere nella loro casa sotto la custodia di gente cattolica, perche'
impossibilitati a nuocere al grande Reich tedesco. Evidentemente non erano
impossibilitati a nuocere al grande Reich tedesco, perche' nel mese di
maggio, quando gia' noi eravamo ad Auschwitz, furono denunciati, arrestati,
deportati e uccisi per la colpa di essere nati ebrei.
Avuto questo permesso al quale ancora si credeva, perche' era stato rilasciato
dalla questura di Como, mio padre, aiutato da alcuni amici, decise che
io e lui saremmo fuggiti in Svizzera. Eravamo non lontani dal
confine svizzero e tentammo questa fuga grottesca e per certi versi nata
male fin dall'inizio. Era il 7 dicembre 1943, quando noi tentammo questa
fuga verso la Svizzera.
Mi ricordo come fuggivo nella notte, correndo e tenendo la mano di mio
padre su quelle montagne. Era una fuga in cui mi sentivo una eroina...
mi sembrava una avventura fantastica sulla montagna, con i contrabbandieri
che ci dicevano di andare piu' veloci se non volevamo essere presi; ma
io ero
fiduciosa, con la mia mano nella mano di mio padre, a due passi dalla
Svizzera, dove ci sarebbe stata la liberta'.
All'alba del 7 dicembre passammo il confine e ci sembrava impossibile
avercela fatta e quando fummo al di la' su questa cava di sassi, guardavamo
la montagna ed eravamo felici, ci abbracciavamo, io, mio padre e due cugini
che si erano uniti a noi. Ma la sentinella che ci prese in custodia in
quel boschetto, ci accompagno' al comando di polizia del paese piu' vicino
del Canton Ticino (esiste ancora adesso e si chiama Arzo), e dopo una
lunga attesa dentro il comando, senza un bicchiere d'acqua, senza una
parola da parte di nessuno, ci ricevette nel suo ufficio un ufficiale
svizzero e ci disse, con disprezzo: "Ebrei impostori, non e' vero
che succede tutto quello che accade in Italia, in Svizzera non c'e' posto
per voi" e ci rimando' indietro con le guardie armate che ci scortavano.
E' stato quell'ufficiale svizzero a condannare a morte quattro persone,
delle quali solo io mi sono salvata. Seppi dopo che 28.000 persone che
avevano chiesto ospitalita' in
Svizzera furono respinte, rimandate indietro.
Nel pomeriggio di quella giornata interminabile, sotto una pioggerellina
battente, noi tentammo di tornare in Italia passando per quella rete che
delimita la terra di nessuno tra due stati; appena toccai la rete suono'
l'allarme, vennero dei finanzieri italiani in camicia nera e fummo arrestati.
Il giorno dopo entrai da sola nel carcere femminile di Varese, avevo 13
anni e ho subito quell'iter consueto che subisce un arrestato:
fotografie, impronte digitali, e mi ricordo i miei passi tra le lacrime
in quel corridoio lungo con quella secondina gelida alle spalle che poi
mi spinse malamente nella cella a me destinata. Era una cella grande dove
c'erano altre donne ebree. Sono stata sei giorni dentro il carcere di
Varese e piangevo disperata, perche' non sapevo quello che mi sarebbe
successo; poi nel carcere di Como e poi tutte le famiglie furono riunite
nel grande carcere di Milano che si chiama San Vittore. E' fatto come
una stella: un corpo centrale con dei raggi; uno di questi era adibito
agli ebrei. Non c'erano divisioni tra uomini e donne, io e mio padre potevamo
stare insieme nella stessa cella; rimanemmo li' 40 giorni. Ero felice
di stare a San Vittore, in una cella nuda e spoglia, ma insieme a mio
padre. Ogni quattro o cinque giorni la Gestapo chiamava tutti gli uomini
per degli interrogatori e io rimanevo sola nella mia cella a piangere
senza una spalla sulla quale appoggiarmi: sapevo che li picchiavano e
li torturavano.
Furono giorni speciali, ma un pomeriggio entro' un tedesco nel raggio
ed elenco' 605 nomi: eravamo uno dei tanti trasporti che partivano dall'Italia.
Era la deportazione a cui non avevamo creduto fino all'ultimo momento:
la gente diceva non e' possibile che mandino degli italiani fuori dal
paese. Mi
ricordo una lunga fila che usciva dal carcere con le nostre poche cose,
urlavano parole d'incoraggiamento: Dio vi benedica, Non avete fatto niente
di male. Furono straordinari gli altri detenuti comuni che ci vedevano
dalle loro celle e ci lanciavano arance, biscotti, guanti, di tutto, e
noi uscimmo dal carcere con questo grande scoppio, bagno di umanita',
furono gli ultimi uomini... poi incontrammo solo mostri. Saranno stati
anche ladri e assassini, ma erano uomini che hanno provato pieta' per
noi.
Portati alla stazione centrale, nei sotterranei erano preparati dei vagoni:
a calci e pugni fummo caricati dalle SS e dai loro servi. Come si sta
dentro un vagone? Il viaggio e' un momento importantissimo -
chiave della prigionia; il viaggio duro' una settimana; eravamo sprangati
dentro un vagone dove non c'era niente, con un secchio per i nostri bisogni,
che ben presto si riempi'; non c'era luce, non c'era acqua, c'eravamo
solo noi con la nostra umanita' dolente.
Io, insieme agli altri, vissi tre fasi: la fase del pianto; la seconda
fase, quella surreale: gli uomini pii si riunivano al centro del vagone,
pregavano e lodavano Dio; era un momento di tensione fortissima che ci
teneva uniti, mentre altri uomini ci portavano a morire. La terza fase
e' quella del silenzio: persone coscienti che andavano a morire; noi lo
sentivamo che sarebbe stato cosi'. Non c'era piu' niente da dire. Gli
occhi che
comunicavano al vicino: "Sono qui con te, ti voglio bene!",
ma non c'era piu' niente da dire, non c'era piu' bisogno di parlare.
Furono gli ultimi miei giorni con mio padre, e devo dire che la fase del
silenzio e' quella che e' stata di massima trasmissione tra noi; poi a
questo silenzio cosi' importante, c'e' quel rumore osceno e assordante
degli assassini intorno a noi, quando arrivati a quella stazione preparata
per noi, dai nostri assassini, gia' da anni, Birkenau-Auschwitz: la porta
si apri' e con grande violenza fummo tirati fuori tutti.
C'era una folla immensa: scendevamo dai vagoni, smarriti, non sapevamo
cosa fare, perche' c'erano le SS con i loro cani, i prigionieri adibiti
a dividerci, ad ammucchiare i nostri bagagli; le SS con i loro occhi gelidi
e
i loro sorrisini ( straordinari i loro sorrisini), avevano un ghigno con
il quale ci dicevano: "State calmi, calmi, adesso vi dobbiamo solo
registrare e poi le famiglie saranno riunite". Le donne con i bambini
da una parte, e gli uomini dall'altra. Lasciai per sempre la mano di mio
padre e non lo rividi mai piu', e fui messa in fila con le altre donne.
Certo non lo sapevo che non l'avrei piu' rivisto, che era un momento cosi'
determinante della mia vita.
Ed ecco che i nostri assassini perpetrarono il delitto massimo del momento,
cioe' facevano l'atroce selezione, perche' cosi' feroce non la facevano
piu'. Loro nella loro organizzazione teutonica, avevano in mano la lista
del numero dei deportati, sapevano quanti uomini e donne contenevano i
vagoni appena arrivati, sapevano quanta forza lavoro desideravano far
rimanere nei lager, e decisero quel giorno che sarebbero rimaste una trentina
di donne e una sessantina di uomini.
Io fui scelta, non so perche', mentre tante donne, ragazze andarono direttamente
al gas. Noi scelte guardavamo con una certa invidia quelle che andavano
via con i camion; c'erano dei camion dove venivano caricate tutte le persone
che da li' andavano direttamente al gas. Noi in quel momento, stravolte
dal viaggio, con i piedi sulla neve, non potevamo sapere cosa intendevano
fare di noi, e ci sembrava una grande fortuna per quelle che venivano
portate via con i camion.
Io, con le altre donne, fui avviata a piedi nella sezione femminile del
campo di concentramento di Birkenau ad Auschwitz: una citta' immensa dove
c'erano 60.000 donne di tutte le nazionalita', era una babele di linguaggi,
in quanto c'erano le polacche, le ungheresi, le cecoslovacche, le greche,
le francesi, le olandesi, le belghe, pochissime italiane. La' dove erano
passati i nazisti avevano fatto queste retate spaventose, portando i
prigionieri ad Auschwitz.
Ci guardavamo intorno, noi ragazze scese da quel treno dove ancora qualcuno
ci chiamava amore, tesoro, guardavamo quel posto con muri grigiastri,
fili spinati elettrizzati e ci chiedevamo ma dove siamo, quale posto e',
stiamo sognando, e' un incubo da cui ci sveglieremo, non e' possibile.
Poi il dramma nella prima baracca: fummo denudate, mentre i soldati passavano
sghignazzando, questi non ci guardavano come donne, perche' per le leggi
di Norimberga gli ariani puri non si dovevano accoppiare con donne di
razze inferiori, per cui non ci trattavano come donne, ma come pezzi,
delle persone schiave delle quali prendersi gioco. Fummo denudate, ci
portarono via tutto, della nostra vita precedente non ci rimase nulla;
la' venivamo rasate dappertutto sempre davanti ai soldati sghignazzanti
e poi ci tatuarono un numero: il mio e' 75190 e io lo porto con grandissimo
onore perche' e' una vergogna per chi lo ha fatto. Se voi pensate che
tre anni fa il sindaco di Milano ha invitato i padroni dei cani, che amano
le loro bestie, a tatuare sulla zampa un numero, cosi' qualora il cane
si perdesse, il padrone lo potrebbe ritrovare. Beh, anche allora i nostri
padroni ci volevano tenere sott'occhio e questo numero che fa parte di
noi sopravvissuti e' piu' importante del nostro nome. In questo sono riusciti
i nostri assassini, perche', mentre in quel momento con quel numero volevano
sostituire la nostra identita' di persone e farci diventare dei numeri,
sono riusciti a far si' che questo numero sia cosi' profondamente inciso
nella nostra carne da essere diventato simbolo di noi stessi: noi siamo
essenzialmente quel numero, perche' chi ricorda Auschwitz perche' c'e'
stato, non dimentica mai.
Rivestite di stracci con un fazzoletto in testa, con gli zoccoli ai piedi,
ci guardavamo l'una con l'altra: non eravamo gia' piu' quelle scese dal
treno due ore prima, eravamo gia' delle cose diverse, eravamo gia' quelle
nullita' che loro volevano noi fossimo.
Il dramma della prima baracca non fu nulla rispetto alla seconda dove
delle ragazze francesi che erano li' da quindici giorni ci spiegarono
dove eravamo arrivate: ci spiegarono cos'era quell'odore di bruciato che
permeava sul campo: e' l'odore della carne bruciata, perche' qui gasano
e poi bruciano nei forni. Noi ci guardavamo l'una con l'altra e tra noi
pensavamo che quelle erano pazze, ma che cosa stanno dicendo che qui bruciano
le persone. Ci mostrarono la ciminiera in fondo al campo dicendoci che
la' bruciavano le
persone e dicendoci che si chiamava crematorio. Noi non volevamo credere
loro, ma poi ci spiegarono perche' la neve era grigia e c'era la cenere,
che eravamo diventate schiave e che per un si' o per un no potevamo andare
anche noi al gas, che non dovevamo mai guardare in faccia i nostri assassini,
che
dovevamo imparare in tedesco il nostro numero il piu' in fretta possibile,
solo cosi' potevamo sopravvivere.
Come si fa a vivere in queste condizioni? Sopportare tutto questo? Perche'
l'uomo e' fortissimo e questo io l'ho sperimentato. Io ero una ragazzina
di 13 anni, non avevo nessuna particolarita', semmai ero una ragazzina
viziata, cresciuta in una famiglia che aveva fatto in modo di preservarmi
da tutti i problemi della vita; la forza che c'e' in ognuno di noi e'
grandissima, ed e' di questa che noi dobbiamo far tesoro. Tutti i ragazzi
devono credere in questa forza, perche' se loro crederanno di avere questa
grandissima forza
psichica piu' che fisica, allora non diranno male di nessuno, della famiglia,
della scuola, della societa' se non riescono a fare qualcosa. Ognuno di
noi e' un mondo e se si impegna puo' assolutamente fare della sua
vita o un capolavoro o anche una piccola vita normale che se sara' onesta
e per bene sara' comunque un capolavoro.
Noi abbiamo scelto la vita: certamente chi ha scelto la vita e soprattutto
di non farsi abbattere da queste disgrazie terribili, e' stato aiutato
a mantenersi con la mente sveglia, perche' da quel momento e per mesi
il corpo e' diventato scheletro, per mesi abbiamo visto morire le nostre
compagne, per mesi abbiamo visto calare le nostre forze, abbiamo visto
i nostri assassini torturare, fare esperimenti e trattare con un'inumanita'
che non credevamo possibile al mondo (che degli esseri umani fossero capaci
di fare delle cose del genere ad esseri simili, colpevoli solo di essere
nati). Abbiamo scelto la vita. Io avevo scelto, senza avere una spalla
su cui piangere o qualcuno che mi consigliasse, avevo scelto di non essere
li', di estraniarmi, si' il mio corpo era li', veniva picchiato e torturato,
aveva fame, era dimagrito, aveva freddo, aveva paura, ma il mio spirito
no, la mia mente no: io ero quella di prima, quando correvo sulla spiaggia,
quando coglievo un fiore sul prato, quando ero seduta nella mia casa con
le persone care vicino a me. Io non volevo essere li', mi rendevo invisibile,
cercavo di non guardare in faccia i miei persecutori e vigliaccamente
non mi voltavo
mai a guardare indietro tutti i cadaveri, gli scheletri fuori, pronti
per essere bruciati, non guardavo le compagne in punizione, non guardavo
la fiamma del forno che bruciava, io guardavo solo i miei zoccoli, li
potrei disegnare anche adesso; guardavo i miei piedi perche' non volevo
assolutamente guardarmi intorno, non volevo essere li', non volevo che
i miei persecutori si impadronissero anche del mio spirito.
Nel campo tra le prigioniere amicizia e fratellanza erano morte quasi
subito, perche' quando non si ha nulla e' molto difficile essere fratelli
ed essere amici.
Parlavamo solo di mangiare, eravamo delle ragazze affamate, che avevamo
inventato delle ricette che oggi si chiamerebbero virtuali e soprattutto
avevamo inventato una torta enorme, straordinaria, grande come una casa,
che avrebbe potuto stare sul piazzale dove avvenivano le esecuzioni, le
impiccagioni, e che avrebbe sfamato con la sua panna, con il suo cioccolato,
con la sua crema, tutte le prigioniere e tutte avremmo scavato questa
torta. Questi erano i nostri discorsi legati al pensiero fisso di mangiare.
Noi per essere diventati scheletri mangiavamo delle cose che facevano
parte di una dieta ben studiata per ridurci cosi', e per una sopravvivenza
di pochi mesi.
Alla mattina, con la frustata e con l'appello, ci veniva dato sulla scodella
senza cucchiaio che dovevamo condividere in cinque o sei, con l'ammalata,
con quella con le croste, un sorso di una bevanda che non sapeva ne' di
te', ne' di caffe', era una cosa strana, forse una specie di tisana, indescrivibile
perche', per fortuna, non ho mai piu' sentito una cosa del genere nella
mia vita. Era una cosa molto voluta, perche' era calda; poi
uscivamo, nel gelo della Polonia d'inverno, vestite di stracci e stavamo
in piedi una o due ore per l'appello, a seconda di quello che volevano
i nostri aguzzini.
Poi uscivamo dal campo, io ero stata fortunata ad essere scelta per diventare
operaia-schiava in una fabbrica dove si costruivano munizioni; una fabbrica
che esiste ancora che si chiama Union, e che in tempo di pace
faceva automobili, in tempo di guerra munizioni per mitragliatrici. Io
ebbi la grande fortuna di essere scelta per quel lavoro, nonostante non
sapessi fare nulla; fui scelta per un lavoro di fatica che mi permise
pero' di
lavorare al coperto. Eravamo 700 ragazze di tutte le nazionalita' (700
del turno di giorno, 700 del turno di notte). Uscivamo la mattina dal
campo, dopo l'appello e raggiungevamo a piedi la fabbrica che si trovava
nella citta' di Auschwitz.
Mi ricordo le ragazze violiniste, prigioniere nel lager, facenti parte
della famosa orchestrina ed erano obbligate a suonare delle allegre marcette
sia che il comando uscisse per andare a morte oppure per andare a lavorare.
Era strano vedere queste violiniste suonare delle marcette allegre piangendo.
Noi facevamo questo tragitto con le guardie vicine che ci obbligavano
a marciare, cantando canzoni tedesche.
Incrociavamo dei ragazzi tutti i giorni, erano bei ragazzi su delle biciclette
(io avevo lasciato la mia bicicletta a Milano, e quando compii 14 anni
mi venne in mente la mia bella bicicletta lasciata a casa piu' di ogni
altra cosa), io li guardavo questi ragazzi che ci sputavano addosso e
ci dicevano delle parolacce che quando iniziai a capire, non volevo credere
che dopo averci tolto tutto, l'odio, il fanatismo fossero tali, da permettere
alle loro menti di comandare al cervello di dire delle parole di quel
tipo. Io allora li odiavo profondamente quei ragazzi e sentivo nei loro
confronti qualcosa di forte, di prepotente che quasi mi facevo paura;
negli anni mi sono accorta, nella mia maturita' di donna di pace, che
quel sentimento si e' tramutato in pieta', ad avere pena. Quando scoprii
che era molto meglio essere stata vittima o figlia di vittima, piuttosto
che carnefice, fu un momento molto importante nella mia vita, fu un momento
di maturazione psicologica non indifferente nel mio percorso di donna
di pace. Allora invece li odiavo profondamente. Poi arrivavamo in fabbrica
e lavoravamo tutto il giorno; alla sera tornavamo indietro e vedevamo
la fiamma con il fumo.
Tre volte passai la selezione nell'anno che trascorsi ad Auschwitz. Non
era la selezione della stazione. Erano delle selezioni annunciate, di
cui noi sapevamo a che cosa andavamo incontro.
Ecco che le Kapo' ci chiudevano dentro le baracche e poi a gruppi ci portavano
nella sala delle docce, tanto cara ai nostri assassini, e la' tutte nude,
in fila indiana, dovevamo attraversare la sala e uscire attraverso un'uscita
obbligatoria, dove un piccolo tribunale di tre persone ci guardava, come
le mucche al mercato, davanti, dietro, in bocca, se avevamo ancora i denti,
se eravamo abili al lavoro e poi un piccolo gesto
gelido che voleva dire "vai". Io mi ricordo come attraversavo
quella sala: il cuore mi batteva come un pazzo e io mi dicevo: "non
voglio morire, non voglio morire..." e rimanevo li', non avevo il
coraggio di guardarli in
faccia, mi atteggiavo ad indifferenza; mi ricordo la prima volta che passai
la selezione che il medico (uno dei tre assassini era medico), mi fermo'
e con un dito mi tocco' la pancia, dove due anni prima avevo fatto
l'operazione dell'appendicite e dissi: "Adesso, perche' ho la cicatrice
sulla pancia, questo mi manda a morte", e invece lui, tutto sorridente,
mostrava ai suoi colleghi assassini la cicatrice, dicendo che questo medico
italiano era una bestia, aveva fatto male la cicatrice. Questa ragazza
la vedra' sempre questa cicatrice, mentre io la faccio sottilissima e
se anche una donna e' nuda, questa cicatrice non si vede piu'. Poi mi
fece un segno,
con il quale mi indicava che io potevo andare avanti con la mia cicatrice
sulla pancia, e io avevo fatto quei due passi che mi separavano dall'uscita,
provando una felicita' immensa; non mi importava niente di dove ero, di
cosa mi era successo, dell'orrore di cui facevo parte, ero viva. Ma una
volta fui vigliacca e orribile quando fermarono dietro di me, Janine,
una ragazza francese che lavorava con me alla macchina in fabbrica; la
macchina, qualche giorno prima, le aveva tranciato due dita. Durante la
selezione, lei, che era nuda, aveva coperto la ferita con uno straccio,
ma certamente l'assassino lo vide subito, e senza neanche fiatare fece
segno alla scrivana (una prigioniera come noi), di prendere il numero.
E io sentii dietro di me che fermarono Janine, che lavorava con me da
diversi mesi, ma io non mi voltai; io fui spaventosa e Janine fu portata
al gas per la sola colpa di essere nata ebrea. Janine era una ragazza
francese, di 22-23 anni, voce dolce, occhi azzurri, capelli biondi. Io
non mi voltai, non mi comportai come i prigionieri di San Vittore; ma
non potevo piu' sopportare distacchi, io ero viva.
Alla fine di gennaio del 1945, fummo, da un momento all'altro, obbligati
a lasciare il campo di Auschwitz e a cominciare quella marcia, giustamente
detta della morte, che attraverso la Polonia e la Germania portava i
prigionieri che ancora stavano in piedi su verso il nord e man mano si
avvicinavano i russi. Noi da un po' sentivamo il rumore della guerra che
si avvicinava, ma non sapevamo niente, perche' noi da un anno non avevamo
piu' sentito la radio, visto un giornale, non avevamo ne' un calendario,
ne' un orologio, non sapevamo mai che ora fosse, che giorno fosse. Ad
un certo punto i nostri assassini decisero di far saltare il campo di
Auschwitz per non far trovare nulla ai russi e per far andar via noi prigionieri.
Lessi poi, che i prigionieri ancora vivi che si misero su quelle strade
d'inverno, fummo 56.000. Fu una cosa epocale: cortei infiniti di prigionieri
scheletriti che si snodavano su queste strade tedesche, di notte soprattutto,
seguiti dalle guardie con i cani.
Non so come ho fatto! (oggi ho un nipote, Edoardo, che ha l'eta' che io
avevo allora, e lo vedo cosi' acerbo, cosi' fragile e vedo i miei figli
preoccupati che tutto vada bene, che si copra quando fa freddo). Mi vedo
su
quella strada e mi vedo nonna di me stessa: quella ragazzina di allora
aveva l'eta' che ha mio nipote oggi. Il cervello comandava alle gambe
di camminare; non si poteva cadere, perche' chi cadeva veniva finito dalle
guardie. Io non mi voltavo a vedere quelli che cadevano; facevo una fatica
enorme a camminare, non avrei mai potuto aiutare nessuno. Quando qualcuno
cadeva, si sentiva quel rumore sordo della fucilata alla testa; mi ricordo
i bordi della strada insanguinati.
Camminavamo di notte attraverso cittadine e strade deserte e come pazze
ci gettavamo sui letamai e ci rubavamo l'una con l'altra i rifiuti: bucce
di patate crude sporche di terra, ossi spolpati... uno schifo. E ci riempivamo
come pazze lo stomaco, sapendo che il giorno puntualmente dopo vomito
e diarrea ci avrebbero atteso; ma non importava, intanto lo stomaco si
riempiva in quel momento e il cervello poteva comandare di camminare alle
nostre gambe. Furono molte notti, altri letamai, altre stelle in cielo.
Arrivammo nel lager di Ravensbrueck, ma ripartimmo dopo cinque giorni
per raggiungere un sottocampo che si chiamava Marchow nel nord della Germania;
era un piccolo campo dove non si lavorava, e dove invece, non come ad
Auschwitz, dove finito un lager ne cominciava un altro, la' vedevamo fuori
dal lager cosa c'era. C'erano prati, in quanto era arrivata anche li'
la primavera incredibilmente; questo dono straordinario di cui godiamo
ogni anno, senza accorgersene, questa terra che sboccia alla vita.
Eravamo delle larve, eravamo ragazze dure, miserabili, ragazze che non
sentivano neanche piu' la fame, non sentivamo neanche piu' le botte, eravamo
degli esseri ancora attaccati alla vita per miracolo e se la guerra da
li' a poco non fosse finita, di certo saremmo morte.
Mi ricordo insieme ad altre due ragazze italiane, che sono sopravvissute
anche loro: una e' Luciana Sacerdoti di Genova e l'altra e' Graziella
Coen di Roma, che adesso sta in Sud Africa, che pur nella nostra miseria,
eravamo ancora in piedi, mentre la maggior parte non si alzava piu' dai
propri giacigli.
Nelle prime ore del pomeriggio, non mi ricordo se si allentasse la sorveglianza
o se avessimo il permesso di uscire dietro la baracca, uscivamo e prendevamo
quel tiepido sole dell'Europa del nord. Io avevo avuto un
ascesso terribile sotto l'ascella sinistra in quei giorni, tagliato con
le forbici e non certamente curato come normalmente si cura un ascesso;
stavo molto male per i dolori che avevo al braccio, e mi ricordo che tiravo
giu' il misero straccio di giacca che avevo e mettevo questo mio braccio
massacrato al sole tiepido: mi sembrava che qualcuno avesse detto che
questo metodo faceva bene.
Passavano, al di la' del filo spinato, dei soldati francesi prigionieri
di guerra, che avevano lavorato per cinque anni nelle fattorie tedesche
e che quindi non erano diventati scheletri come noi; passavano e vedevano
queste
figure indistinte da lontano, giorno dopo giorno, ci chiamavano e in francese
ci chiedevano chi fossimo. Noi in coro, perche' nessuna di noi aveva abbastanza
voce per rispondere, urlavamo che eravamo delle ragazze
ebree italiane. Loro stupiti, non potevano credere che eravamo ragazze,
perche' eravamo cosi' orribili, degli scheletri senza forma, con le occhiaie
profonde, senza piu' femminilita'. Furono i primi, dopo i detenuti di
San Vittore, ad avere pieta' di noi; e giorno dopo giorno ci dicevano
di non morire, state vive e serene perche' la guerra sta per finire, stanno
per arrivare gli americani da una parte e i russi dall'altra.
Noi ragazze nulla, schiave, non ci potevamo credere, noi che ci eravamo
abituate a sopportare tutti i dolori del mondo, alla gioia non eravamo
piu' abituate; mi ricordo che rientravamo nelle baracche e alle nostre
compagne che stavano veramente per morire, davamo queste notizie strepitose
e straordinarie e loro con gli occhi facevano fatica a seguire e chiedevano
se era vero, se era proprio vero. E noi urlavamo che era tutto vero. I
soldati francesi che sentivano la radio, giorno dopo giorno, ci davano
queste notizie meravigliose che i russi e gli americani erano vicinissimi.
Sentivamo rumori sopra di noi, aerei che volavano, sentivamo cannonate
e ci chiedevamo cosa sarebbe successo di noi; pensavamo che ci avrebbero
ucciso perche' non possono farci trovare cosi'.
Vivevamo con un'ansia terribile quei momenti, non sapendo cosa stessero
per fare i nostri persecutori, e loro portavano via tutto dal campo: portavano
via scrivanie, documenti, registri... e mentre prima erano con noi sempre
implacabili e crudeli, tra loro ora erano nervosi.
Noi li spiavamo e non volevamo morire, ma volevamo vedere questo momento
tanto atteso ed insperato. Sognavamo di uscire da quel cancello, di strappare
quell'erba, quelle foglie, di mettercele in bocca, di sentire il sapore
della clorofilla.
E questo avvenne, in quei giorni di fine aprile, proprio l'ultimo giorno
di aprile, aprirono quel cancello e ancora prigioniere, con le guardie
vicine, quelle che ancora stavano in piedi, uscimmo da quel cancello e
veramente strappavamo l'erba, le foglie e ce le mettevamo in bocca, non
potevamo mandarle giu', ma sentivamo che era un sapore speciale, diverso,
sognato e improvvisamente: un miracolo!
Noi ragazze nulla, noi ragazze schiave fummo testimoni della storia che
cambiava davanti ai nostri occhi ed era una visione incredibile perche'
vedemmo i civili tedeschi uscire dalle loro case (fino ad allora erano
rimasti asserragliati all'interno, senza darci mai un pezzo di pane, un
bicchiere d'acqua, senza mai degnarci di uno sguardo), e caricavano tutto
sui carri perche' volevano andare verso la zona americana, mentre la'
fu poi
zona russa, e volevano andare verso gli americani.
Noi non capivamo niente e le nostre guardie, che camminavano insieme a
noi, buttavano via le divise, le armi, si mettevano in borghese, in mutande,
mandavano via i cani che erano stati proprio il simbolo del potere del
soldato SS, i cani andavano e poi tornavano e non capivano piu' niente.
Noi eravamo sbalordite, con i nostri occhi, con la nostra debolezza, con
le gambe che non reggevano piu', vedevamo la storia che cambiava davanti
a noi ed era una visione apocalittica, straordinaria, incredibile. Si
mettevano in mutande e buttavano via quella divisa che aveva terrorizzato
gli eserciti di tutta Europa; quando anche il comandante di quell'ultimo
campo, vicino a me, mi sfiorava, si mise in mutande, quell'uomo alto,
sempre elegantissimo, crudele sulle prigioniere inermi, e buttu' la divisa
nel fosso, la sua pistola cadde ai miei piedi ed io ebbi la tentazione
fortissima di prenderla e sparargli. Io avevo odiato, avevo sofferto tanto,
sognavo la vendetta: quando vidi quella pistola ai miei piedi, pensai
di chinarmi, prendere la pistola e sparargli. Mi sembrava un giusto finale
di quella storia, ma capii di esser tanto diversa dal mio assassino, che
la mia scelta di vita non si poteva assolutamente coniugare con la teoria
dell'odio e del fanatismo nazista; io nella mia debolezza estrema ero
molto piu' forte del mio assassino, non avrei mai potuto raccogliere quella
pistola, e da quel momento sono stata libera.
Vedemmo arrivare gli americani e fu una visione festosa, incredibile,
perche' questi ragazzi americani che venivano dalle prime linee, erano
ragazzi bellissimi e vidi la prima jeep americana con la stella bianca.
Questi ragazzi buttavano dal camion - senza distinguere se eravamo prigionieri,
soldati, civili tedeschi perche' ancora ne sapevano poco - sigarette,
cioccolato, frutta secca e quel giorno che era il primo maggio io
mi ricordo che ricevetti addosso un'albicocca secca, squisita, e me la
misi subito in bocca e il giorno della liberazione e' legato per me al
sapore dell'albicocca secca. Vidi poi il giorno dopo unirsi le due armate
vincitrici ed era una cosa molto particolare vedere arrivare i camion
con questi soldati cosi' pronti a montare mense e ospedali da campo e
a darci cibo buono. L'armata russa passo' di corsa ed era composta da
ufficiali a cavallo senza sella, carri armati cigolanti, che fungevano
da cucine improvvisate e tiravano dietro capre e bestiame vario; era cosi'
differente rispetto all'armata americana cosi' ben organizzata. Furono
dei giorni particolari; poi passarono quattro mesi prima di essere divisi
a seconda della nazionalita' e sempre gli americani ci organizzarono per
farci tornare nelle nostre case. Quando arrivai a Milano, la mia casa
era chiusa.
Spero che almeno uno di quelli che hanno ascoltato oggi questi ricordi
di vita vissuta li imprima nella sua memoria e li trasmetta agli altri,
perche' quando nessuna delle nostre voci si alzera' a dire "io mi
ricordo", ci sia qualcuno che abbia raccolto questo messaggio di
vita e faccia si' che sei milioni di persone non siano morte invano per
la sola colpa di essere nate, se no tutto questo potra' avvenire nuovamente,
in altre forme, con altri nomi, in altri luoghi, per altri motivi. Ma
se ogni tanto qualcuno sara' candela accesa e viva della memoria, la speranza
del bene e della pace sara' piu' forte del fanatismo e dell'odio dei nostri
assassini.