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Da La domenica della nonviolenza Supplemento domenicale de "La nonviolenza e' in cammino" Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it Numero 59 del 5 febbraio 2006

Luigi Ferrajoli: Costituzione e democrazia
In "Il manifesto" del 20 dicembre 2005

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Le carte costituzionali sono sempre le carte d'identita' degli ordinamenti da esse costituiti e disegnati. Cio' vale per la Costituzione italiana del 1948, come per tutte le altre costituzioni, le quali sono di solito, se degne del loro nome, patti di convivenza generati dall'accordo di tutte le forze politiche rappresentative delle societa' cui sono destinate
La legge di revisione costituzionale recentemente approvata dalla maggioranza berlusconiana e' invece la carta d'identita' della destra, che riflette la concezione e soprattutto la pratica della democrazia che e' propria di questa destra e che questa destra - proprio perche' composta da forze estranee o ostili al patto costituzionale del 1948 - intende imporre come nuova carta d'identita' della Repubblica. Questa legge, d'altro canto, equivale a una rottura non soltanto della continuita' costituzionale, ma del paradigma stesso del costituzionalismo democratico: in breve, a una sostanziale decostituzionalizzazione della nostra democrazia e alla costituzionalizzazione di tutti i principali elementi di crisi - primo tra tutti la personalizzazione del sistema politico e la concentrazione dei poteri nelle mani del presidente del consiglio - introdotti dal berlusconismo nella costituzione materiale della Repubblica. E' questo l'aspetto piu' grave e allarmante dello scempio realizzato: la trasformazione in costituzione formale di una concezione e di una pratica anti-parlamentare e extra-costituzionale della democrazia largamente penetrata nel senso comune, anche di sinistra, e gia' tradottasi in un'alterazione del nostro assetto costituzionale. Ne e' prova il fatto che in tutto il ceto politico, nella stampa e nella televisione, la riforma e' stata identificata semplicemente con la cosiddetta devolution: come se l'alterazione piu' importante, anzi la sola cosa veramente importante da essa introdotta, fosse la parte, pur gravissima, dedicata al federalismo e non quella, di gran lunga piu' devastante ma enormemente sottovalutata, che riguarda l'assetto istituzionale del sistema politico.
E' dunque lo stravolgimento degli equilibri democratici introdotto da questa riforma che deve essere innanzitutto denunciato nel corso della prossima campagna referendaria. Mi limitero' a illustrare due manomissioni: l'incredibile complicazione della funzione legislativa e la demolizione del principio della rappresentanza politica

Grazie alla prima manomissione, la funzione legislativa del Parlamento e' destinata alla paralisi. L'attuale art. 70 - che si compone di una sola riga: "La funzione legislativa e' esercitata collettivamente dalle due Camere" - viene sostituito da un lunghissimo articolo che sembra il frutto di una mente malata. Il nuovo testo introduce infatti ben quattro tipi di fonti: 1. leggi di competenza della sola Camera cui il Senato puo' proporre modifiche su cui la Camera decide in via definitiva; 2. leggi di competenza del solo Senato cui la Camera puo' proporre modifiche su cui il Senato decide in via definitiva; 3. leggi di competenza congiunta di entrambe le Camere; 4. leggi di competenza del Senato sulle quali il governo, ove ne ricorrano taluni presupposti, puo' proporre modifiche essenziali.
E' difficile capire se ci troviamo di fronte a una prova di dissennatezza istituzionale oppure a un consapevole sabotaggio della funzione legislativa, destinato a lasciare spazio illimitato alla decretazione d'urgenza del governo. Possiamo infatti immaginare il caos istituzionale che proverra' da una divisione delle competenze tra questi quattro tipi di fonti, a causa delle incertezze e degli infiniti contenziosi che saranno generati da una ripartizione inevitabilmente generica e astratta delle quattro classi di materie ad essi attribuite. Per risolvere gli inevitabili conflitti che ne nasceranno sono stati architettati una Commissione e un Comitato paritetici, l'una di 60 e l'altra di 8 parlamentari - di fatto due nuove Camere - competenti l'una a proporre un "testo unificato" in caso di disaccordo tra Camera e Senato nelle leggi di competenza congiunta, l'altro a decidere su quale delle quattro fonti e' chiamata a decidere. Ma non e' stato stabilito che cosa accadra' se il testo elaborato dalla Commissione sulle materie di competenza congiunta non sara' approvato da entrambe le Assemblee, o se non sara' raggiunto l'accordo all'interno del Comitato. Ne' si e' previsto cosa accadra' in caso di conflitto tra conflitti destinati ad essere risolti in sedi diverse: l'uno tra Stato e Regione, sulle loro rispettive competenze, affidato, in base all'art.134, al giudizio della Corte costituzionale; l'altro tra Camera e Senato federale sulle medesime materie, destinato ad essere risolto dai presidenti delle due Camere o dal Comitato da essi istituito

Ancor piu' grave e' la seconda manomissione, consistente in un duplice svuotamento del principio della rappresentanza politica.
Viene innanzitutto soppresso, dal nuovo testo, il voto di fiducia delle Camere nei confronti del Primo ministro, la cui legittimazione e' rimessa direttamente al voto popolare. Si prevede solo che sia lo stesso Primo ministro che, per disciplinare la propria maggioranza, possa "porre la questione di fiducia e chiedere che la Camera dei deputati si esprima, con priorita' su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Governo", ovviamente "per appello nominale". Sara' al contrario il Primo ministro che potra' chiedere lo scioglimento delle Camere assumendone "l'esclusiva responsabilita'". E' cosi' che il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo si capovolge. Non sara' piu' il Governo che dovra' avere la fiducia del Parlamento, ma sara' il Parlamento che dovra' avere la fiducia del Primo ministro.
Viene in secondo luogo modificato lo statuto del parlamentare, trasformato in un mandatario passivo della coalizione nella quale e' stato eletto e per essa del suo capo. "La mozione di sfiducia", dice il nuovo art. 94, deve essere sempre "votata per appello nominale e approvata dalla maggioranza assoluta dei componenti" della Camera; nel qual caso comporta, oltre alle dimissioni del Primo ministro, lo scioglimento della Camera medesima. Solo la cosiddetta sfiducia costruttiva, cioe' accompagnata dalla designazione di un nuovo Primo ministro, consente la prosecuzione della legislatura.
Tuttavia tale designazione deve essere operata "da parte dei deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera". Non solo. In forza di un'altra norma anti-ribaltone, "il Primo ministro si dimette altresi' qualora la mozione di sfiducia sia stata respinta con il voto determinante dei deputati non appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni".
Non sara' insomma piu' possibile cambiare in Parlamento la maggioranza di governo. Maggioranza e minoranza vengono blindate, sicche' solo i parlamentari della maggioranza avranno - non gia' singolarmente, ma nel loro insieme - un potere di iniziativa politica e di responsabilizzazione dell'esecutivo, mentre i parlamentari della minoranza non conteranno nulla.
E' la fine della rappresentanza politica senza vincolo di mandato, essendo ciascun parlamentare vincolato alla coalizione di appartenenza. Ed e' la violazione vistosa del principio basilare della democrazia politica, sancito dall'art. 67, secondo il quale "ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". Ne risulta infatti un mandato imperativo dall'alto che vanifica il ruolo di controllo dell'intero Parlamento. Il suo effetto sara' quello non solo di emarginare l'opposizione, ma anche di disciplinare, ricattare e neutralizzare - come del resto e' di fatto accaduto in questa legislatura - ogni potere di controllo della stessa maggioranza parlamentare

E' intorno a questo scempio che oggi occorre informare e mobilitare l'opinione pubblica nel corso della prossima campagna referendaria. Ma e' chiaro che, per essere vinto, il referendum deve divenire una grande battaglia civile di rifondazione della democrazia costituzionale, non inquinata da proposte di compromesso del tipo "no a questa riforma" ma ad altre, nuove proposte di "aggiornamento". E questo potra' avvenire tanto quanto saranno soddisfatte due condizioni.
La prima e' che il referendum venga promosso, nei tre mesi che ci separano dalla pubblicazione della legge di revisione sulla Gazzetta ufficiale, da un fronte di forze ben piu' largo di quello richiesto dall'art. 138 della Costituzione e gia' rappresentativo della maggioranza degli elettori: non dunque soltanto da un quinto dei membri di una Camera, ma da tutti i parlamentari dell'opposizione piu' quelli che nella maggioranza hanno manifestato dubbi e contrarieta'; non soltanto da cinque Consigli regionali, ma da tutti i Consigli regionali nei quali il centrosinistra e' maggioranza, e percio' dalla maggioranza delle Regioni; non soltanto da 500.000 elettori, ma da milioni di cittadini, utilizzando magari per la raccolta delle firme le votazioni primarie finora programmate o da programmare in vista delle prossime elezioni.
La seconda condizione e' che il referendum si svolga all'insegna dell'emergenza democratica, oltre che costituzionale, e divenga un'occasione per una riflessione critica e autocritica sulla gravita' della posta in gioco, sui guasti prodotti da oltre un decennio di logoramento costituzionale e sul nesso indissolubile che lega costituzione e democrazia.
Sotto questo aspetto la campagna per le elezioni politiche e quella referendaria potranno avvantaggiarsi l'una dell'altra, avendo un tema centrale comune: la sconfitta culturale, oltre che politica, del progetto berlusconiano e della concezione della democrazia che e' alle sue spalle e, insieme, la rifondazione, nello spirito pubblico, del carattere antifascista e garantista della Costituzione repubblicana e del suo valore normativo di programma politico e sociale, ancora in gran parte da attuare, e di fondamento e presidio della nostra democrazia.