Ci sono molte cose dette e altre taciute nel discorso di Romano Prodi
al Senato in tema di politiche sociali. E più ancora c’è un quadro
istituzionale reso confuso e di difficile gestione dallo spezzettamento
dei ministeri.
La famiglia fin troppo citata Naturalmente in un discorso, per quanto lungo, non si può dire tutto.
Ma ciò che viene detto e ciò che viceversa viene taciuto non è senza significato.
Così, Prodi, riprendendo il programma dell’Unione, si è dilungato sulla
questione dei sostegni che il suo Governo intende dare alle famiglie,
in particolare a quelle con figli. E per non lasciare dubbi ha specificato
che si riferiva alla famiglia costituzionalmente intesa: specificazione
politicamente forte (e discutibile nel campo delle politiche sociali),
ma impropria quando si parla di figli e sostegni per i figli, dato che
a norma di legge non ci sono diritti diversi tra figli (e genitori) naturali
e figli (e genitori) legittimi. Ha anche sottolineato la necessità di
rafforzare le politiche di conciliazione tra impegno nel lavoro remunerato
e cura familiare, sia pure all’interno di un’ottica che continua a ritenere
la conciliazione un problema delle donne e non anche degli uomini.
O meglio, che non vede che, così come in politica, e dallo stesso Governo
Prodi, le donne sono svantaggiate da un presidio smodato del potere da
parte degli uomini, nel lavoro e nelle carriere sono svantaggiate dal
monopolio delle responsabilità di cura loro lasciato dagli uomini. Ha
ripreso il tema, apparentemente bipartisan (era stata una proposta del
ministro Livia Turco nel primo Governo Prodi, poi una misura inserita
in una Finanziaria dal Governo Berlusconi), del sostegno alle giovani
coppie (sposate) per l’acquisto della casa, come se l’incentivo
all’acquisto della abitazione da parte dei giovani non fosse senza problemi,
ad esempio, sul piano della disponibilità alla mobilità territoriale.
Ha parlato della necessità di contenere l’eccesso di precarizzazione indotto
dalla applicazione della legge Biagi. Ma ha taciuto sulla riforma degli
ammortizzatori sociali: uno degli obiettivi mancati sia dai Governi
dell’Ulivo che dal quello Berlusconi e che, nelle intenzioni dello stesso
Marco Biagi, avrebbe dovuto accompagnare la flessibilizzazione del mercato
del lavoro. E non ha parlato affatto di reddito minimo di inserimento
come misura di garanzia per chi si trova in povertà. Così come ha glissato
sui temi dei diritti civili e di libertà e sulla laicità dello Stato.
Sono non detti che pesano altrettanto dei detti (talvolta con eccessi
di specificazione).
Se cinque ministeri vi sembran pochi Su questo gioco di attenta calibrazione di detto e non detto si proietta
la scelta di frantumare il settore delle politiche sociali in ben cinque
ministeri, smentendo clamorosamente e senza neppure discuterne la
riforma Bassanini, a suo tempo fatta approvare proprio dalla stessa maggioranza
oggi al Governo. La ricomposizione dei ministeri sociali (allora Lavoro,
Sanità, Solidarietà sociale) era nata dalla constatazione che i problemi
di cui si occupavano erano spesso gli stessi, o da trattare in modo integrato.
Che le politiche del lavoro non potevano ignorare i problemi della famiglia,
che previdenza e assistenza dovevano insieme distinguersi e parlarsi,
che, soprattutto con una popolazione che invecchia, assistenza sanitaria
e assistenza sociale dovevano collaborare. Forse il maxi ministero
del Lavoro, Salute e politiche sociali prefigurato dalla riforma Bassanini
era un disegno un po’ astratto, anche se è la direzione presa da molti
paesi e dalla stessa Unione Europea nel suo complesso. In ogni caso, l’attuale
maggioranza gridò al tradimento della riforma quando il Governo Berlusconi
mantenne la separazione tra Sanità da un lato, Lavoro e Politiche sociali
dall’altro. Ma lo spezzatino uscito dai mercanteggiamenti che hanno preceduto
la formazione del Governo non ha alcun senso e produrrà enormi inefficienze
e guerre di confine. Non a caso è subito sorto un conflitto tra ministero
del Lavoro e ministero delle Politiche sociali a proposito della delega
alla previdenza. Ma di che cosa dovrà occuparsi il ministero delle Politiche
sociali, per altro con portafoglio, se della previdenza si occupa il ministero
del Lavoro, della sanità il ministero a essa dedicato, della famiglia
il ministero (pur senza portafoglio) della Famiglia e della gioventù (altro
ministero senza portafoglio)? Tralasciando la questione di che cosa siano
politiche per i giovani che non siano quelle che riguardano l’istruzione,
il lavoro, la cultura. A meno che non si ritenga che a loro sia riservato
lo sport, appunto accoppiato ai giovani nello stesso ministero. L’unico
senso di questa operazione sta da un lato nell’aver dato un contentino
ai partiti e agli aspiranti ministri, in particolare alle donne, per altro
beffandole e umiliandole e con loro l’intero elettorato femminile. Nel
primo Governo Prodi venne inventato all’ultimo minuto un ministero (senza
portafoglio) delle Pari opportunità per trovare un posto in più a una
donna, dato che tutti quelli di rilievo erano già occupati da chi ha per
questioni di appartenenza sessuale il diritto di occuparli – uomini. Oggi
l’operazione si è ripetuta esattamente nello stesso modo. Anche se gli
anni trascorsi, la crescita di una opinione pubblica femminile, le promesse
mancate, rendono più visibile che, appunto, si tratta di una beffa.
In più, con la creazione di un ministero della Famiglia affidato a una
esponente della Margherita si è anche strizzato l’occhio alla Chiesa cattolica,
che infatti ne ha subito preso atto con soddisfazione. Perché in questione
non sono le politiche di cui hanno bisogno i cittadini e le famiglie concretamente
esistenti, bensì il mantenimento del monopolio sulla definizione della
famiglia. Queste scelte costeranno care, non solo in termini banali di
costi di gestione (uffici, macchine di rappresentanza, segreterie particolari,
eccetera), ma di efficacia politica. La riforma Bassanini e la
legge 328/2000, che avrebbe dovuto finalmente mettere ordine nelle politiche
sociali definendo quadri di riferimento e criteri comuni a livello nazionale,
di fatto era già stata in larga misura affossata con l’approvazione della
riforma del Titolo V della Costituzione. Questa infatti ha dato
alle Regioni competenza esclusiva sulle politiche sociali non previdenziali
(ma allora perché un ministero delle Politiche sociali?), salvo che per
la definizione concertata dei livelli minimi di assistenza. In un quadro
istituzionale più favorevole per l’accorpamento di Lavoro, previdenza
e politiche sociali, il Governo Berlusconi non è riuscito in cinque anni
a produrre un accordo sui livelli essenziali: non solo per cattiva
volontà dell’esecutivo, ma per la resistenza attiva delle Regioni. Che
succederà ora che gli interlocutori si sono moltiplicati e quindi si sono
moltiplicati sia i livelli di trattativa che le aree di possibile conflitto
inter-istituzionale?