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Marisa Pavone

In merito al superamento del ricovero in istituto per minori con gravi disabilità

Editoriale In, L’integrazione scolastica e sociale (volume 5, numero 5 novembre 2006)
www.erickson.it

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Come è noto, la normativa nazionale prevede il superamento del ricovero in istituto per minori in difficoltà, anche gravissime, entro la fine di quest’anno e la loro accoglienza in nuclei familiari o in piccole comunità inserite nel tessuto locale. Espressamente, l’art. 2 della legge n.149/2001 recita che «il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre 2006 mediante affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile, mediante inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia».(1) Si tratta di una scelta illuminata e plausibile sotto il profilo umano, etico e sociale, che paradossalmente rischia di venire disattesa e inapplicata, proprio nei confronti di quei neonati e bambini che esprimono bisogni sanitario-assistenziali e educativi gravissimi e che, pertanto, insieme all’esigenza di importanti cure sanitarie continuative, manifestano al massimo grado la domanda di cure familiari amorevoli, intense e costanti.
È recente la notizia che un importante Comune del Nord Italia si stia orientando a riaprire un reparto presso un grosso istituto assistenziale cittadino, per ricoverare «neonati e bambini disabili affetti da patologie invalidanti gravissime con necessità assistenziali a forte valenza sanitaria». La casistica di queste situazioni — in incremento sia in relazione alle più lunghe aspettative di vita conseguenti all’evoluzione della ricerca medica, sia in collegamento alle problematiche dell’immigrazione extracomunitaria e della tossicodipendenza — include minori cerebrolesi, distrofici, piccoli pazienti con necessità di ventilazione polmonare continua o alimentati con il sondino, che non camminano o non parlano.
Non mancano certo ragioni oggettive a supporto di un tale orientamento istituzionale: l’inadeguata formazione rispetto a pazienti così complessi dei care givers formali, cioè di personale addetto alla assistenza domiciliare a supporto delle famiglie; le esigenze di deospedalizzazione dei bambini dai reparti ospedalieri di alta specialità, a fronte della difficoltà a riorganizzare in tempi brevi gli interventi residenziali e semiresidenziali; le difficoltà delle famiglie, già provate da disabilità così importanti, a conciliare la gestione del bisogno assiduo del figlio, con le esigenze lavorative e con quelle di mantenimento di una normale vita di relazione; senza trascurare il diritto del minore disabile alla frequenza scolastica quando l’età lo preveda.
Le note di riflessione che proponiamo, in margine a questa delicata e umanissima emergenza, non vogliono alcun tratto di coloritura ideologica, né si considerano portavoce della saccenza apodittica di coloro che pretendono di sapere senza vivere l’esperienza. Piuttosto, cercano di ricollocare i fatti nell’orizzonte delle scelte culturali — nell’accezione più ampia del termine — che il nostro Paese ha intrapreso e si sforza più o meno faticosamente di adottare da oltre trent’anni. Per chiarezza, sviluppiamo il ragionamento in alcuni punti.

1. Coorti di studiosi dell’infanzia — pedagogisti, psicologi, psicanalisti, ma anche medici — hanno ampiamente sostenuto e dimostrato che il bambino, per crescere sano e sereno, ha bisogno di vivere, fin dalla nascita e ancora prima, in un ambiente riscaldato dagli affetti e dalle cure amorevoli delle figure parentali. Ricordiamo fra tutti Spitz e Bowlby. Quest’ultimo, in particolare, postula l’esistenza nell’uomo di una tendenza innata a ricercare la vicinanza e la protezione di figure familiari, soprattutto ogni qualvolta si sperimentano situazioni di vulnerabilità (pericolo, dolore, fatica o solitudine). Secondo l’autore, un attaccamento precoce tra il neonato e le persone che si prendono cura di lui è cruciale per uno sviluppo normale, perché i primi rapporti umani del bambino costituiscono il fondamento della sua personalità e della sua futura identità di adulto. Viceversa, l’esperienza di atteggiamenti di indifferenza, disconferma, quando non di rifiuto, non solo risulta dolorosa e traumatica nella vita attuale, ma anche per quella futura, condizionando pesantemente la sfera di relazioni e la sua fiducia verso il mondo. «Si può, teoricamente, prevedere — sostiene Bowlby — che i modelli interni costruiti nel corso delle prime interazioni di attaccamento trovino conferma nelle relazioni successive a quelle della prima infanzia».(2)

2. A questa legge generale della crescita non fanno eccezione i neonati e i minori abili e disabili in gravissima condizione di salute, tale che la loro sopravvivenza è legata alla continuità di sofisticate cure sanitarie e/o alla disponibilità permanente di apparecchiature altamente specializzate; una fascia di popolazione che, a quanto comunicano le statistiche, registra un continuo aumento, come si è detto. Dobbiamo invece pensare che, per questi soggetti, la vicinanza costante di genitori o di figure adulte amorevoli è, se possibile, ancora più necessaria di quanto non sia in condizioni di normalità. A questo proposito, riutilizziamo adattandoli alcuni pensieri di Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose e scrittore testimone del nostro tempo, espressi durante un incontro nell’ambito della rassegna annuale «Torino Spiritualità». Sul tema delle possibili accezioni negative del «Silenzio», egli ha ricordato che l’uomo, fin da piccolissimo, per umanizzarsi e maturare le sue potenzialità ha bisogno di «Parola» e di «Parole», di relazioni, di interazioni verbali e non verbali personalizzate e continuative, di dialogo rassicurante, di sorrisi. Il silenzio protratto danneggia lo sviluppo dell’intelligenza, del linguaggio, della fiducia di base, dell’identità personale. Soprattutto gli elementi psichici primari quali il disagio, il dolore, la rabbia, hanno bisogno di essere raccolti e restituiti da presenze adulte genitoriali, affinché possano essere bonificati dalle componenti ansiogene e distruttive che pregiudicano la crescita del bambino. Nel silenzio e nei silenzi di un’istituzione di ricovero totalizzante — interrotti solo da situazioni relazionali standardizzate, in concomitanza dei riti della quotidianità (il pasto, la pulizia, le visite, la preparazione per la notte, il controllo delle apparecchiature sanitarie, ecc.) — anziché scomparire, possono invece aumentare nel piccolo vissuti ansiogeni ed esperienze traumatiche, che rendono ancora più gravi le già precarie condizioni di salute.

3. D’altra parte, non può essere ignorata l’esigenza, che questi neonati e minori hanno, di assistenza sanitaria altamente speciale più volte al giorno, o per tutto il giorno. Anzi, l’allontanamento dalla famiglia e il ricovero in centri sanitario-assistenziali (RSA) attrezzati sembra trovare giustificazione proprio in queste motivazioni tecniche. Come dire: le ragioni legate alla sopravvivenza sanitaria pongono in ombra, in secondo piano, qualsiasi altra mozione degli affetti o pedagogica, salvaguardando solo il diritto alla frequenza scolastica.
A nostro avviso, questi validissimi motivi andrebbero declinati alla luce del più ampio approccio ai concetti di «condizione di salute» e di «qualità della vita», introdotti dal nuovo e purtroppo non ancora applicato modello di classificazione delle condizioni di salute e della disabilità, elaborato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e conosciuto con l’acronimo ICF.(3) Sulla base di questo rivoluzionario modello, la situazione di benessere di ogni persona — e dunque la sua qualità di vita — non è legata solo ed esclusivamente alla salute fisica, ma risente fortemente dei condizionamenti positivi e negativi del contesto ambientale, nonché della attività svolta e della partecipazione alla vita sociale. Dunque, per favorire una condizione di vita apprezzabile, l’intervento sanitario dovrebbe tenere presente, insieme alle cure mediche, anche ciò che è meglio per la singola persona, considerata nella sua globalità e inserita nel suo contesto di appartenenza. Troppo spesso, come lamenta lo scrittore Tiziano Terzani, la medicina occidentale rivolge la sua attenzione esclusivamente ai singoli «pezzi» del corpo del paziente, trascurando «l’io, l’io tutto, l’io insieme di quei vari pezzi», e non occupandosi «delle emozioni, dei sentimenti, di ciò che impercettibilmente cambia la via di ciascuno di noi, come l’amore».(4) Il ragionamento è quanto mai adeguato per i piccolissimi e per i minori in età evolutiva, nel rispetto dei loro bisogni formativi e del loro progetto di vita.
Certo non si può pensare di indulgere a una visione superata, preconcetta e riduttiva della disabilità, secondo cui la situazione di gravità interviene a giustificare l’identificazione delle aspettative di vita e della sua qualità con l’intervento tecnico-sanitario e, di conseguenza, a esaurirle in esso. Quanti bambini considerati alla nascita incapaci di sviluppare potenzialità personali, e per i quali il pessimismo medico aveva profetizzato ai genitori: «Non illudetevi, non createvi aspettative, non ci saranno miglioramenti», nel corso dell’età evolutiva hanno dimostrato ampie capacità di recupero, di apprendimento e di inserimento sociale?

4. La famiglia. Molto si è scritto sulle difficoltà psicologiche, organizzative, economiche, sociali, che il nucleo familiare deve superare in seguito alla nascita di un bambino portatore di deficit; disagi che sicuramente aumentano in presenza di bisogni sanitario-assistenziali elevati, da parte del figlio. Si è anche ampiamente dimostrato, attraverso numerose testimonianze di vita e ricerche empiriche, che la famiglia è in grado di elaborare capacità di resilienza e di ritrovare un proprio equilibrio positivo.(5) Soprattutto se ha l’opportunità di poter contare su una rete bene organizzata di sostegni formali e informali nel contesto locale: servizi di aiuto domiciliare, servizi sanitari e sociali adeguati, interventi di personale qualificato, aiuti di volontari, amici o parenti. Ma nella realtà, chi aiuta i genitori a scegliere di tenere il piccolo all’interno del nucleo? Quali informazioni vengono loro fornite alla nascita, quando madre e bambino sono ancora in ospedale, per metterli in condizione di scegliere serenamente, nella sicurezza di non essere lasciati soli al rientro a casa? Quale tipo di assistenza domiciliare specializzata viene garantita al bambino e agli adulti? Di conseguenza può succedere, e di fatto accade, che direttamente o indirettamente la famiglia si veda orientata a scegliere per il ricovero in istituto «per il bene del bambino stesso».

5. Ricordiamo che la nostra normativa — dalla legge quadro sull’handicap (n. 104/92), alla legge sui piani di zona (n. 328/2000) e a quella sull’adozione e l’affidamento familiare (n. 149/2001) — è chiaramente volta a privilegiare la permanenza del bambino disabile, anche in situazione di gravità, nella sua famiglia e a favorire i presidi di sostegno alla domiciliarità. La cronaca ci dice che vi sono pure famiglie oggettivamente colpite da vissuti di fragilità esistenziale, tali da ostacolare la loro capacità di offrire cure affettive e materiali al figlio gravemente disabile. Anche in queste situazioni estreme, le disposizioni privilegiano l’interesse del bambino, indicando l’esigenza di reperire famiglie adottive o affidatarie, o piccole comunità di tipo familiare, in sostituzione o supporto a quella di origine.
Purtroppo, il reperimento e l’organizzazione di risorse personali e materiali di sostegno ai genitori, per svariate ragioni, non sempre rientra fra le priorità di intervento degli enti locali deputati. Sembra di riscontrare nelle istituzioni territoriali deputate alle politiche sociali e sanitarie un difetto di coerenza e di lungimiranza per cui, deviando rispetto alla strada maestra indicata dall’apparato legislativo nazionale, vengono operate scelte che non sembrano mettere in primo piano gli interessi del bambino a stare con la sua famiglia, o comunque ad avere una famiglia sostitutiva. È opportuno ricordare, al proposito, che la gestione della responsabilità istituzionale va declinata non solo in termini esclusivamente economici (il pagamento della retta, l’elargizione di sussidi, ecc.), tecnici, sanitari o organizzativi, ma nei termini della «cura educativa», attenta alle condizioni di vita globale del minore. Né possono bastare — seppure comprensibili — le giustificazioni che indulgono alle difficoltà economiche o a quelle organizzative, circa l’attivazione di servizi specializzati di contrasto al ricovero in residenze sanitarie e assistenziali: fin dal 1987 una importante Sentenza della Corte Costituzionale ha sancito che gli impedimenti di ordine amministrativo non possono soffocare o pregiudicare il diritto della persona alla crescita e alla formazione. Inoltre, non va trascurato il fatto che sul territorio esiste, anche se rara, l’offerta di aiuto da parte di famiglie singole o di comunità familiari e Associazioni di famiglie, disponibili a sostenere il nucleo di origine, o a sostituirlo nel prendersi cura dei bisogni complessi di questi bambini disabili.
Sul piano generale, è altamente auspicabile che gli enti locali si indirizzino ad avviare progetti sanitari e assistenziali domiciliari a sostegno della famiglia di origine e a intraprendere politiche di sensibilizzazione del territorio per trovare famiglie alternative, quando quella originaria è inadeguata; in ultima istanza, a realizzare sul territorio piccole comunità di tipo familiare, a carattere terapeutico e/o riabilitative psicosociali.
Nello specifico, è oltremodo rilevante curare una migliore collaborazione tra i professionisti delle strutture ospedaliere e dei servizi socio-sanitari di territorio, al momento della dimissione del piccolo paziente dall’ospedale, perché questa è la fase delicata in cui si orientano le scelte genitoriali. La questione approda all’importanza strategica della formazione del personale: teniamo presente che le leggi, pur illuminate, di per sé non «riformano» se non sono supportate da interventi di operatori «formati» (sensibilizzati) alla validità e priorità di quei principi.


(1) Legge 28 marzo 2001, n. 149, «Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante la “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile».
(2) J. Bowlby, L’attaccamento alla madre, Torino, Bollati Boringhieri, 1972, p. 74. Si veda inoltre, dello stesso autore, Attaccamento e perdita, Torino, Bollati Boringhieri, 1976.
(3) Organizzazione Mondiale della Sanità (2001), ICF/Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, Trento, Erickson, 2002.
(4) T. Terzani, Un altro giro di giostra, Milano, Longanesi & C, 2004.
(5) Si vedano, per un approfondimento: M. Zanobini, M. Manetti e M.C. Usai, La famiglia di fronte alla disabilità, Trento, Erickson, 2002 ; B. Cyrulnick e E. Malaguti, Costruire la resilienza, Trento, Erickson, 2005; M. Pavone e M. Tortello (a cura di), Pedagogia dei genitori. Handicap e famiglia. Educare alle autonomie, Milano, Paravia Scriptorium, 1999.