Welfare di Comunità: quando si muore, si muore soli? Esperienze nella costruzione di reti sociali Una Città n° 300 / 2024 marzo - unacitta.it Altri materiali nella sezione documentazione politiche sociali. PUOI SOSTENERE IL NOSTRO LAVORO CON IL 5 x 1000. La gran parte del lavoro per realizzare questo sito è fatto da volontari, ma non tutto. Se lo apprezzi e ti è anche utile PUOI SOSTENERLO IN MOLTO MODI.
Francesco LongoUn welfare, fondato sulla domanda individuale e sulle prestazioni, che si sta rivelando sempre più inadeguato a rispondere ai problemi emergenti, e cioè la solitudine, l’isolamento e la mancanza di mobilità sociale; una crescente segregazione dei figli di famiglie non abbienti; la necessità di meccanismi e pratiche per ricreare comunità e società, che è poi il fine ultimo dell’esistenza dello Stato; alcune buone pratiche provenienti dall’Europa.
Buon pomeriggio a tutti, propongo un intervento a quattro step logici: uno, a cosa ci serve il community building, il lavorare sulla comunità. Due, come si costruiscono, come si identificano e quali sono i perimetri delle reti sociali. Tre, come possiamo valorizzare queste reti. Quattro, con quali logiche e strumenti dobbiamo approcciare questo terreno di lavoro qualora lo volessimo percorrere.
Allora, inizio con una prima riflessione: perché il lavoro di community building è così intenso? Perché il nostro, a prescindere dal fatto che abbia pochi o tanti soldi,
è un welfare fondamentalmente prestazionale a domanda individuale, per cui, per esempio, porto il pasto a domicilio alla persona che ne ha fatto domanda.
Il fatto è che oggi la maggior parte dei problemi che abbiamo, quelli emergenti, non richiedono una risposta né prestazionale né a domanda individuale.
Faccio tre esempi.
È chiaro che se fossero in un ambiente dove ci sono altri genitori con bambini, dove si possa passare il tempo in maniera intelligente insieme, la situazione sarebbe diversa.
Addirittura registriamo questa cosa dolorosissima, per cui le società sportive di oggi sono assolutamente segreganti, perché i quattrocento euro all’anno per far giocare il proprio figlio a calcio, a pallavolo o basket, la famiglia immigrata con tre figli (quindi milleduecento euro, più o meno lo stipendio di un mese del marito), non ce li ha. Siamo nel paradosso per cui oggi i figli dei ricchi giocano meglio a basket e a calcio dei figli dei poveri, che è assolutamente l’opposto di quello che succedeva cinquant’anni fa!
Nessuno si pone il problema che noi dobbiamo usare le piattaforme sportive come meccanismo di ricomposizione sociale. Prendiamo gli stessi scout; spesso provocatoriamente chiedo: quali sono gli strati sociali che frequentano gli scout, che è un ambiente nobilissimo, spesso di estrazione religiosa? La risposta è: in gran parte i figli della borghesia. Quindi i nostri luoghi di aggregazione sono diventati luoghi di segregazione.
In conclusione, nel paese con meno mobilità sociale in Europa dopo l’Inghilterra noi abbiamo grandi solitudini e luoghi di aggregazione che di fatto segregano.
Ebbene, se, come è evidente, il welfare prestazionale non può rispondere a questi bisogni, è necessario e urgente ricreare aggregazioni, ricreare comunità.
Il paradosso è che mentre il welfare prestazionale, a domanda individuale, è poco attento a creare comunità, tutte le moderne imprese, la prima cosa che fanno, è promettere di fare una comunità! Se io vado su Airbnb, BlaBlaCar o TooGoodToGo, le più famose piattaforme che ci sono al mondo, la prima cosa che dicono è: noi abbiamo generato una comunità.
Questo mi porta a un ulteriore ragionamento e a una domanda: cos’è oggi la comunità? Quali sono i perimetri, anche identitari, intorno ai quale si riconoscono le reti sociali? A questo proposito c’è una rivoluzione in corso, perché il nostro perimetro è sempre meno legato a una vicinanza fisica, a un territorio.
La nostra comunità non sono più i nostri vicini di casa, non sono gli abitanti del nostro quartiere; i vettori di integrazione sociale sono altri. È la comunità degli amanti dell’Harley Davidson o degli amici del fungo o ancora dei genitori che hanno i figli nella stessa scuola e magari abitano da tutt’altra parte, è la comunità omosessuale o quella etnica...
Ma noi dobbiamo valorizzare questi altri vettori di integrazione. Come si fa?
Posso chiedere, ad esempio, agli amici del Cai di frequentare una volta a settimana una Rsa, per portare prossimità e vicinanza agli ospiti. In cambio, grazie ad azioni di accreditamento, di branding istituzionale del lavoro che stanno facendo, faccio in modo che il Cai possa aumentare i propri associati, o posso proporre ai soci del Cai: “Perché non fare i vostri incontri dentro l’Rsa anziché in una stanzetta da qualche parte?”.
Ora, questo gioco tra contributi e ricompense per chi lo agisce è un lavoro vero e proprio, che ha delle tappe precise.
Intanto occorre disegnare il perimetro di questa rete sociale: chi sono queste persone, che tipo di missione sociale agiscono, che tipo di imprinting culturale hanno?
In secondo luogo devo capire che tipo di valore possono portare a un bisogno sociale e che tipo di valore io posso portare al loro mondo per costruire questo rapporto mutuamente benefico, su cui bisogna poi disporre delle risorse. Attenzione, spesso non sono risorse economiche quelle che le comunità cercano. Le comunità cercano il riconoscimento istituzionale: vogliono sentirsi importanti, vogliono essere celebrate per l’elemento identitario o per il contributo sociale che danno.
Il lavoro in comunità non è scrivere un documento, è stare in mezzo alle persone, vivere con loro, capire che esigenze hanno, capire che cosa possono fare. E vi garantisco che l’esperienza di chiunque abbia fatto lavoro di comunità è che quando una comunità riesce a produrre più valore sociale, quando le facciamo fare qualcosa di utile, la comunità è straordinariamente contenta. Soprattutto se questa cosa poi viene resa esplicita e visibile.
Voglio fare due o tre esempi molto semplici, così si capisce di cosa sto parlando.
Alcuni comuni, anche a livello internazionale, hanno mappato gli anziani soli, fragili, che sono autonomi in casa ma non all’esterno; hanno mappato i luoghi di aggregazione sociale di queste persone, come i gruppi di lettura in biblioteca, dove ci si incontra in una decina, si commenta insieme un libro letto, si prende un tè e si sta qualche ora insieme, dopodiché si sceglie il libro da leggere per la settimana successiva. Volendo aumentare questi gruppi di lettura per risolvere il problema di solitudine, hanno scoperto che la prima cosa da inventare è il cosiddetto “linker sociale” e la prescrizione sociale. E quindi hanno fatto un accordo con gli mmg, i medici di famiglia, i quali, invece di farmaci, prescrivono la frequentazione di “gruppi di lettura” o dell’università della terza età.
In più hanno individuato dei linker social, che sono coloro che accompagnano per le prime due, tre volte la persona isolata. Perché una persona, se da anni è bloccata in casa, non ci va autonomamente, serve qualcuno che la porti: un vicino o un frequentatore di questi posti che si fa accreditare dal mmg.
È chiaro che questo è un tema di organizzazione, di connessione: bisogna trovare i soli, trovare i luoghi di socializzazione, trovare i linker, creare un sistema di trasporto economicamente sostenibile per chi non riesce più a spostarsi da solo...
Il lavoro in comunità è fatto di strumenti concreti, di azioni concrete. Questo significa che da parte del welfare pubblico probabilmente dobbiamo abbandonare qualche quota di servizi a domanda individuale, prestazionali, magari anche poco, il 5%, per liberare un po’ di risorse e destinarle all’organizzazione di queste reti, che non vanno da sole. Soprattutto all’inizio vanno supportate.
È chiaro che con il 5% noi riusciamo ad affrontare volumi di utenti, di persone, di problemi inimmaginabili rispetto ai servizi a domanda individuale. Badate che la comunità non coincide al 100% con il volontariato, anzi. La comunità funziona quando noi ricreiamo meccanismi di funzionamento ordinari della società.
Vado in un gruppo di lettura perché è un modo per passare il tempo con i miei amici. Intendiamoci, di volontariato più ce n’è e meglio è, però noi non vogliamo generare solo volontariato, noi vogliamo generare società. Questo è un pezzo del cambiamento da fare. La sfida è ricomporre pezzi di comunità, che purtroppo oggi non funziona più da sola.
Oggi si parla molto di comunità compassionevoli. Devo dire che l’esperienza più felice che ho visto, girando un po’ l’Europa a caccia di queste buone pratiche, è stata nell’ambito delle case di riposo olandesi, tedesche e svedesi. Voi sapete che soprattutto in Italia noi oramai abbiamo una speranza di vita in caso di riposo di un anno, poi si muore. Di fatto sono diventati degli hospice geriatrici lunghi questi 280.000 posti letto che abbiamo, perché le famiglie tengono i loro anziani a casa fin tanto che possono e poi...
Sono dei mondi, come sapete, chiusi, isolati, molto tristi anche, perché, essendo oramai divenuti degli hospice geriatrici lunghi, chiaramente sono dei luoghi faticosi. Questo tra l’altro spiega perché le famiglie a loro volta siano incentivate a portarvi i propri congiunti il più tardi possibile.
Se ci pensate un attimo: questa ansia che noi abbiamo di segmentare dentro dei muri, per fasce d’età, addirittura prevedendo il divieto, in alcuni posti, che possano entrare contemporaneamente un anziano e un bambino, perché è fuorilegge, beh, siamo proprio nella direzione sbagliata.
Un’ultima esperienza che mi ha colpito tantissimo, in questa direzione della ricomposizione sociale. Voi sapete che da noi ormai è vietato portare la torta della nonna a scuola, è reato; è un simbolo fortissimo: ci viene detto che, per legge, non dobbiamo più fidarci nessuno!
Quindi arriva la nonna turca, assieme alla mamma, che cucina e sta lì a mangiare con i bambini. Ovviamente la nonna fa il cibo più buono che conosca, ci mancherebbe! Il bambino torna a casa e dice: “Mamma, ma sai che oggi abbiamo mangiato turco, era eccezionale”. Devo dire che quello che a me ha colpito di più è stata proprio questa idea di ricreare fiducia, di ricreare società. Voi sapete che non c’è niente di più fiduciario che mangiare il cibo dell’altro. È anche così che si crea quella comunità dove ci si fida e ci si appassiona all’altro.