In Adista n. 12/2007 – www.adista.it
Roberto Scarpinato, procuratore
aggiunto Palermo
Mafia mediatica, Mafia borghese
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Bernardo Provenzano: un utile genio del male
A prestar fede ai media nazionali sembrerebbe che dopo l'arresto di Provenzano
il problema della mafia sia stato felicemente risolto o che comunque si
avvii ad una soluzione. Anche alcuni magistrati che godono di grossa audience
presso i media si sono spinti ad affermare che la mafia è in ginocchio,
forse perché suggestionati dalla grancassa dei media e da simili dichiarazioni
di autorevoli parlamentari che in anticipo hanno affermato che ormai il
problema della mafia non è più una questione nazionale bensì regionale.
A prestare fede a tutti costoro sembrerebbe che tra poco ai forestieri
che giungono per la prima volta a Palermo e chiedono notizie sulla città
potremo rispondere in coro come nel film di Benigni Johnny Stecchino:
"A Palermo, cari signori, esiste un grave problema: il traffico". Battute
a parte, non credo che la realtà sia così.
Chi vive a Palermo nella dura trincea della quotidianità è costretto a
sperimentare sulla propria pelle come la realtà sia sideralmente lontana
da quella edulcorata e virtuale ammannita dai media di regime. È costretto
a sperimentare come Palermo, metafora della Sicilia e sempre più del sistema
Italia, si sia riappropriata della propria profonda identità, un'identità
che forse più che dalla mafia è stata violentata dall'antimafia della
stagione della procura di Gian Carlo Caselli e sia tornata ad essere il
popolo delle tribù, delle lobby, dei clan, del clientelismo, del nepotismo,
terreno di coltura di tutte le mafie. È costretto a sperimentare come
questo sia ancora un luogo dove non esiste uno statuto della cittadinanza,
ma solo quello del suddito e del cliente e dove, se non fai parte della
casta dei potenti e se non hai santi in paradiso, i tuoi diritti restano
sulla carta e vivere è molto difficile, a volte può diventare un inferno
e ti trovi ad un passo dalla morte. Dico "ad un passo dalla morte" perché
questa è una città dove la malasanità, figlia della mafia bianca e della
malapolitica, semina 40 morti in un solo anno. Sono cifre da capogiro,
da Terzo mondo. Questo è un luogo dove se non hai buone entrature personali
nel mondo della sanità il miglior medico resta l'Alitalia, cioè prendi
l'aereo e vai a curarti nell'Italia civile. Una città dove, per quanto
riguarda la nomina dei dirigenti, la distribuzione delle risorse pubbliche,
imperano il clientelismo, il nepotismo, la spartizione lottizzatoria senza
nessun rispetto della meritocrazia e dell'interesse pubblico, cosicché
chi si ostina a restare con la schiena dritta e non si rassegna a vendere
l'anima a qualche padrino politico-mafioso è costretto a restare ai margini.
Una città dove non ha senso parlare di lavoro libero e dignitoso, perché
costituisce una drammatica realtà di massa quella di migliaia di lavoratori
del settore terziario e dell'edilizia che pur di non essere licenziati
accettano di non avere il versamento dei contributi o accettano il decurtamento
sottobanco della busta paga fino al 40%. Una città nella quale moltissime
imprese restano sul mercato grazie all'evasione fiscale, al mancato pagamento
dei contributi ai dipendenti, al sottopagamento, alla sistematica violazione
delle norme antinfortunistiche che determinano ogni anno morti, incidenti
sul lavoro che non vengono quasi mai denunciati dai lavoratori perché
altrimenti questi verrebbero definiti rompiscatole o inaffidabili e sarebbero
emarginati dal mondo del lavoro. Una città nella quale molte altre imprese
ingrassano non grazie al rispetto delle regole del mercato, ma grazie
alla costruzione di veri e propri oligopoli di settori protetti da potentati
politici e mafiosi. Una città nella quale chi vuole fare impresa liberamente
deve misurarsi con queste e con mille altre difficoltà e spesso, se ha
bisogno di finanziamenti pubblici, di autorizzazioni, si trova dinanzi
alla drammatica scelta di dover rinunciare o di piegare la testa e infeudarsi
a qualche tribù politica alla quale giurare eterna fedeltà. Una città
nella quale il divario tra poveri e ricchi cresce vertiginosamente. Mentre
nel centro cittadino le borse di Louis Vitton da due mila euro si vendono
come il pane, in quartieri degradati come lo Zen, abbandonati al proprio
destino, cresce in modo vertiginoso il numero dei disperati che pur di
sfuggire a un destino infame e pur di non tirare la carretta per quattro
lire senza dignità sono disposti a tutto. Eppure, a fronte di tutto ciò
e di molto altro a cui non è possibile fare cenno altrimenti passiamo
la serata ad inventariare le illegalità di massa che tempestano questa
città, i media di regime hanno fatto credere all'opinione pubblica che
in Sicilia esisteva un unico grande demiurgo del male, un unico grande
tessitore di illegalità, un'unica causa di sottosviluppo: il genio del
male Bernardo Provenzano ed i suoi accoliti. Non vi è stato nessun affare
sporco in questi ultimi anni, dalla malasanità alla manipolazione degli
appalti, dalle nomine truccate dei primari, ai manager del settore pubblico
dietro il quale non si sia fatto aleggiare il fantasma del genio del male
Bernardo Provenzano. Da qui l'epopea mediatica provenzaniana in un susseguirsi
ossessivo di servizi televisivi e giornalistici sulla dieta di Provenzano
a base di ricotta, di miele, di cicoria, sulla prostata di Provenzano,
sulla sua cicatrice al collo e via discorrendo. Da qui l'ovvia equazione
mediatica che dopo l'arresto di Provenzano e dei suoi accoliti finalmente
tutti i problemi sono risolti e dunque la mafia non c'è più o è divenuta
un problema locale, con conseguente futuro spegnersi dei riflettori nazionali
e con prossima smobilitazione delle risorse per le forze di polizia, per
la magistratura, ecc.
La censura dei media di Regime
Per comprendere come sia stato possibile ordire questa colossale truffa
culturale che trae in inganno l'opinio-ne pubblica nazionale e persino
alcuni operatori culturali in buona fede occorre riflettere che il sapere,
e in particolare il sapere sulla mafia, non è mai stato innocente o neutrale.
Il sistema mediatico e culturale che crea l'oggetto mafia, che crea cioè
la percezione collettiva della mafia, non è un mondo a parte, ma rispecchia
al suo interno gli stessi rapporti di potere che esistono nel mondo politico
della società. La strategia da sempre adottata da questo sistema di potere,
divenuta particolarmente raffinata in questi ultimi anni, è stata quella
di puntare tutti i riflettori su Provenzano facendolo divenire una icona
mediatica polarizzante che ha consentito di oscurare tutto il resto. Con
l'espressione "tutto il resto" intendo il rinnovato ruolo egemonico assunto
dalla borghesia mafiosa tornata ad essere oggi, dopo il decennio della
parentesi corleonese, quella che è sempre stata nella storia della mafia:
cioè l'architrave portante del sistema di potere mafioso.
A proposito dell'oscuramento, per anni Rai e televisioni private hanno
operato una censura sistematica su tutte le vicende criminali che riguardano
la borghesia mafiosa. Faccio soltanto alcuni esempi. Se oggi provate a
chiedere ad un cittadino di Bologna o di Padova o di Roma che fine ha
fatto il processo Andreotti, nove volte su dieci vi sentirete rispondere
che Andreotti è stato assolto con formula piena. E quando questo cittadino
apprenderà che invece con sentenza definitiva è stato accertato che Andreotti
ha avuto rapporti organici con la mafia fino al 1980 ed ha partecipato
a riunioni con capimafia in Sicilia in cui si discuteva dell'omicidio
del presidente della Regione Piersanti Mattarella ti guarderà incredulo
ed allibito.
Come si è potuto verificare questo capolavoro di disinformazione di massa?
Mi soffermo su questo aspetto perché costituisce un prototipo della disinformazione
di regime. Tutte le udienze del processo Andreotti sono state riprese
dalle telecamere. Il presidente del Tribunale, all'inizio del processo,
per evitare che l'aula dell'udienza si trasformasse in un accampamento
occupato da decine e decine di operatori di televisioni di tutto il mondo
ha autorizzato soltanto le riprese televisive della Rai imponendo però
l'obbligo alla Rai di cedere le riprese anche alle altre televisioni private.
Ebbene, al termine del processo è stato impedito che una puntata della
famosa trasmissione Rai Un processo in pretura venisse dedicata al processo
Andreotti. Così gli italiani hanno potuto vedere numerose puntate di questa
trasmissione dedicate a delitti passionali, a rapine, a stupri, ma è stato
loro negato di vedere una sintesi di quello che è stato definito il processo
del secolo.
La televisione tedesca ha chiesto alla Rai nazionale una copia delle riprese
televisive dietro pagamento. La Rai ha negato l'autorizzazione.
Bruno Vespa ha dedicato una puntata trionfale della sua trasmissione Porta
a porta all'assoluzione di Andreotti in primo grado. Quando però Andreotti
in secondo grado ed in Cassazione è stato riconosciuto colluso con la
mafia fino al 1980, Vespa ha dedicato due puntate a Padre Pio e alla vertiginosa
crescita del prezzo degli ortaggi in Italia. La stessa cosa Vespa ha fatto
quando Marcello Dell'Utri è stato condannato in primo grado a 9 anni per
concorso esterno con la mafia. Quella sera la puntata è stata dedicata,
se non ricordo male, alla sessualità dei cinquantenni. Lo storico Nicola
Tranfaglia ha raccontato le gravissime difficoltà che ha dovuto superare
per trovare un editore che gli pubblicasse un libro sul processo Andreotti.
L'attrice Piera Degli Esposti ha affermato che a seguito di fortissime
pressioni ha dovuto rinunciare a mettere in scena lo spettacolo teatrale
sul processo Andreotti. Certamente tutti ricorderete le polemiche sorte
dopo la trasmissione Report. Il servizio di Mariagrazia Mazzola spiegava
come in Sicilia il pagamento del pizzo fosse un fenomeno di massa. Nell'arco
di una settima è stata imbastita una trasmissione definita di riparazione,
nel corso della quale sono stati intervistati alcuni imprenditori che
hanno dichiarato di non essere mai stati a contatto con la mafia. Il caso
ha voluto che 15 giorni dopo la Procura di Caltanissetta, nel corso di
un'indagine sulla mafia, abbia accertato che questi imprenditori erano
coinvolti nel pagamento di tangenti. Ricordiamo anche la censura della
Rai sulla trasmissione di Lucarelli dedicata ai mandanti delle stragi
e la recente censura operata sulla fiction di Falcone.
Questi sono soltanto alcuni degli episodi più noti. Ma i giornalisti che
lavorano in Rai raccontano, in camera caritatis, come vivono sulla propria
pelle la censura quotidiana sulle notizie di mafia che riguardano la mafia
politica e i colletti bianchi; una censura che si esplica certe volte
nel tagliare i servizi, altre volte nell'edulcorarli, altre volte ancora
nel mandarli in onda soltanto a tarda notte. A dimostrazione di come il
sistema mediatico e culturale italiano riproduca al suo interno gli stessi
rapporti di forza del sistema politico, ricordo che l'ultima relazione
della Commissione Parlamentare Antimafia approvata dalla maggioranza di
centro destra sia giunta al punto di negare di fatto il carattere strutturale
del rapporto mafia-politica, riducendolo ad una situazione transitoria
(leggo testualmente) "legata a condizioni di incultura, di scarsa mobilitazione,
a tensioni sociali e a momenti di crisi morale ed economica".
Questa sistematica censura sul versante della mafia borghese da parte
dei media di regime fa esatto pendant con l'informazione a senso unico
sulla mafia militare e con l'ininterrotto spot su Provenzano elevato a
simbolo totalizzante della mafia. Il culmine di questa strategia è stata
a mio parere la trasmissione dedicata da Rai 2 alla cattura di Provenzano
avvenuta all'interno del covo di Montagna dei Cavalli. Non so se l'avete
vista. Torno a casa, accendo la televisione ed ho l'impressione che abbiano
montato un set televisivo che riproduce il covo. Penso che sia di pessimo
gusto. Quando si allarga la panoramica non posso credere ai miei occhi.
Era proprio il covo di Provenzano! Da una parte si vedevano agenti della
polizia scientifica in tuta bianca che cercavano di rilevare le impronte,
dall'altra parte una torma di giornalisti ed operatori che toccavano qualsiasi
cosa. Le telecamere indugiavano ossessivamente su ciotole sporche di ricotta
e sulle masserizie contadine del covo di Provenzano. Il messaggio culturale
era esplicito ed univoco: avete visto che cos'è la mafia? Una storia di
bassa macelleria criminale e di ex pastori come Provenzano che vivono
in casolari come questi che puzzano ancora di stallatico. Messaggio rilanciato
alla grande nei giorni successivi. Nella trasmissione di La 7 Otto e mezzo
condotta da Giuliano Ferrara i vari intervenuti passavano il tempo a ridacchiare,
a darsi di gomito, facendo del sarcasmo su tutti i magistrati che avevano
invece sostenuto in questi anni i teoremi secondo cui la mafia è una storia
che riguarda i colletti bianchi.
Borghesia mafiosa e borghesia nazionale di Regime
Alla luce di questa premessa è chiaro che affrontare il problema del futuro
della mafia partendo dalla cattura di Provenzano e con riguardo solo per
gli equilibri interni della mafia militare e popolare significa cadere
nella trappola culturale ordita dagli apparati di regime. Significa abboccare
all'amo degli strateghi della disinformazione realizzata con l'informazione
a senso ossessivamente unico. Resto convinto che il futuro del sistema
del potere mafioso non si gioca intorno al destino di un Provenzano oggi,
di un Riina ieri, di un Luciano Liggio l'altro ieri. Chi conosce la storia
di questo Paese sa che il presente ed il futuro della mafia, oggi come
ieri, si gioca piuttosto sull'evoluzione interna della borghesia mafiosa,
una delle componenti strutturali della borghesia nazionale di regime.
Chi conosce la storia con la S maiuscola di questo Paese sa che quella
della mafia non è solo storia di bassa macelleria giudiziaria, ma è anche
e soprattutto la storia di settori di una classe dirigente delle più violente
d'Europa che dall'Unità d'Italia ad oggi ha usato la violenza mafiosa
per bloccare i processi di rinnovamento politico che mettevano a rischio
il sistema di potere basato su privilegi e sull'ingiustizia sociale. È
la borghesia mafiosa che nell'immediato dopoguerra ordina la strage di
Portella della Ginestra dopo che le sinistre avevano vinto le elezioni
regionali nel 1947. Ed è la borghesia nazionale di regime, di cui la borghesia
mafiosa è componente, che copre poi i mandanti politici a livello nazionale.
Quella strage e le decine di omicidi di sindacalisti del mondo politico
e contadino chiusero per sempre una stagione politica, condannando il
movimento contadino ad un arretramento e inaugurando il centrismo a Roma
come a Palermo.
Da allora le sinistre non vinceranno più le elezioni e saranno condannate
a restare una forza minoritaria oscillando tra opposizione e compromesso.
Quando circa 30 anni dopo Piersanti Mattarella sulle orme di Moro tenterà
di aprire le porte del governo alla sinistra ancora una volta la borghesia
mafiosa sarà protagonista di un omicidio politico-mafioso che chiuderà
per sempre in campo nazionale la stagione dei governi di solidarietà nazionale.
Il processo Andreotti ha fotografato e consegnato alla storia questa vicenda
drammatica. Le riunioni nelle quali si è discusso dell'omicidio Mattarella
e alle quali partecipano i capi della mafia militare, i massimi esponenti
della borghesia mafiosa del tempo, Lima e i cugini Salvo e il simbolo
vivente del potere politico nazionale Giulio Andreotti non sono soltanto
un capitolo importante di una vicenda processuale, ma sono il fotogramma
riassuntivo e simbolico di un'intera storia nazionale. Se vogliamo capire
che cos'è stata la mafia, che cos'è oggi e che cosa sarà domani dobbiamo
mettere da parte le ricotte e le prostate di Provenzano propinateci dagli
apparati culturali di regime e inaugurare una riflessione, un dibattito
nazionale serio su questa ed altre vicende. Dovrebbe essere chiaro a tutti
che dai vari Provenzano di oggi e di ieri avremmo potuto liberarci da
più di un secolo se tutti costoro non avessero goduto a Palermo come a
Roma della protezione dei vertici del potere regionale e nazionale. (…)
Da Calciopoli ai furbetti del quartierino: Sicilia docet
Quello che è grave è che Sicilia docet. Le vicende giudiziarie di questi
ultimi anni in campo nazionale, da Calciopoli alla bancopoli dei furbetti
del quartierino, dal Savoia-gate al caso Parmalat, dalla recente tangentopoli
pugliese al caso Sismi, disegnano i contorni di una Italia in cui ampi
settori della classe dirigente sono agglutinati in una costellazione di
associazione a delinquere che mutuano almeno in parte il metodo mafioso
per operare scelte bancarie, conquistare settori di mercato, acquisire
il controllo degli appalti, ottenere illecitamente i finanziamenti pubblici
per liberarsi degli avversari politici. Associazione a delinquere che
a volte sembra far parte di una più vasta rete.
Il metodo mafioso a volte emerge chiaramente. A proposito di una recente
indagine che ha portato alla richiesta di arresto per concussione dell'ex
presidente della Puglia, il procuratore aggiunto di Bari ha testualmente
dichiarato: "Abbiamo trovato un modo di amministrare paragonabile all'organizzazione
di una cupola destinata a privilegiare l'interesse privato di pochi".
In altri casi il metodo mafioso traspare a piene mani dalla lettura delle
trascrizioni di intercettazioni dove personaggi che tengono le fila degli
illeciti sono in grado di condizionare interi settori grazie al potere
di intimidazione che deriva loro dal far parte di importanti lobby di
potere. Si realizza così che il problema mafia sia divenuto nazionale
contrariamente a quanti ne sostengono invece la sua regionalizzazione.
Si realizza la previsione sciasciana secondo cui ogni anno che passa la
palma sale verso il nord. Lo stesso Sciascia nello spiegare il senso del
romanzo Il contesto, nel quale denunciava la "mafiosizzazione" strisciante
della società italiana, così descriveva l'Italia: "Un Paese dove non avevano
più corso le idee, dove i principi ancora proclamati e conclamati venivano
quotidianamente irrisi, dove le ideologie si riducevano in politica a
pure denominazioni nel gioco delle parti che il potere si assegnava, dove
soltanto il potere per il potere contava. Possono essere siciliani e italiani
la luce, il colore, gli accidenti, i dettagli; ma la sostanza vuol essere
quella di un apologo sul potere, sul potere che sempre più degrada nella
impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo
definire mafiosa". (…)
Il pericolo di una "democrazia mafiosa"
Nel mondo della politica, grazie alla riforma elettorale e al diniego
assoluto anche da parte del centro-sinistra nelle primarie, tutto il potere
è stato concentrato nelle mani di poche oligarchie di partito, di vertici
di partito. Una decina di persone in tutto il Parlamento formano la lista
al di fuori di qualsiasi processo democratico e decidono così autonomamente
chi debba essere eletto. Mario Pirani ha scritto a questo proposito che
siamo tornati ai tempi delle monarchie ottocentesche nelle quali la nomina
del Parlamento veniva graziosamente concessa dal sovrano. Nel mondo del
lavoro grazie alla legge Biagi si è avuta una vera e propria istituzionalizzazione
del caporalato. Nel mondo della magistratura tutto il potere è stato concentrato
nelle mani di 26 procuratori della Repubblica, piccoli Cesari che sono
divenuti gli unici titolari del potere penale. La fascistizzazione e la
feudalizzazione dello Stato della società civile ha posto le premesse
per la creazione della società dell'obbedienza, per la costruzione di
una società in cui l'asse sociale ruota intorno al rapporto padrone-cliente,
sovrano-suddito. Se si considera che il sistema mafioso si fonda proprio
su questa logica, sul prevalere del potere personale su quello impersonale
della norma, sul prevalere dell'interesse personale del clan su quello
pubblico, sulla cultura dell'obbedienza e della sottomissione ai capi
si comprende quale sia il motivo strutturale e sistemico del proliferare
del metodo mafioso in campo nazionale come profetizzato da Sciascia, Pasolini,
Tranfaglia ed altri.
Alla luce di queste premesse mi pare evidente che oggi come ieri il futuro
dell'antimafia non si gioca a Palermo ma a Roma. Le politiche criminali
e l'azione giudiziaria, quando devono misurarsi con fenomeni criminali
come la mafia che hanno un profondo radicamento sociale e macropolitico,
possono incidere soltanto sugli effetti e non sulle cause. Oggi più che
mai a fronte della deriva autoritaria e feudale del sistema politico italiano
non è possibile, secondo me, nemmeno immaginare una strategia antimafia
se prima non si ripristinano condizioni di agibilità democratica. Questa
agibilità democratica passa attraverso una sistematica "demafiosizzazione"
del sistema politico, culturale italiano. (Uso questo termine, "demafiosizzazione",
nell'accezione di Sciascia e di Tranfaglia). O se si preferisce attraverso
la sistematica eliminazione di tutte le tossine introdotte nell'ordinamento
in questi anni. Le tossine della istituzionalizzazione del conflitto di
interessi, quelle della legalizzazione della illegalità della classe dirigente,
della confisca della sovranità popolare, della creazione di un diritto
diseguale, della feudalizzazione del tessuto istituzionale, dell'imbavagliamento
della libera informazione, della precarizzazione del rapporto di lavoro,
della sostituzione del potere personale dei capi al primato della lobby
impersonale e generale, della sottoposizione della magistratura al controllo
obliquo della politica, della legittimazione culturale della corruzione
e dei rapporti della mafia e politica mediante la candidatura e l'elezione
di soggetti inquisiti e condannati per corruzione e mafia. Se queste tossine
non saranno prontamente eliminate dall'ordinamento, dal tessuto istituzionale
italiano il metodo mafioso è destinato a mio parere a divenire sempre
più una componente strutturale della politica e della società italiana
e potremo felicemente avviarci verso quella che alcuni analisti politici
definiscono una "democrazia mafiosa".
Sembra un ossimoro, ma non lo è. I consigli comunali sciolti per mafia
sono un esempio di "democrazia mafiosa". In fondo, se il piduismo tanto
deprecato negli anni ‘80 si è fatto Stato, se ciò che fino a 10 anni fa
sembrava fantapolitica è diventato realtà e ci siamo ormai abituati a
conviverci perché non dovremo assuefarci anche ad una borghesia mafiosa?
In questo ipotetico scenario futuro forse potrebbe anche avvenire che
tra qualche anno il tanto deprecato Provenzano rivendichi di essere riabilitato
come uno che veniva da lontano e guardava lontano e quindi come uno dei
padri fondatori della nuova costituzione materiale del Paese.
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