Ancora sul pagamento delle rette
di ricovero a carico dei parenti: errare humanum est, perseverare diabolicum*
Massimo Dogliotti, Magistrato Corte d'appello di Genova, docente di diritto
civile, Università di Genova
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Non vi era bisogno di un esplicito intervento normativo per affermare l'illegittimità
della prassi, ancora assai diffusa, degli enti erogatori di richiedere il pagamento
delle rette di ricovero ai parenti dell'assistito che non sia in grado di farlo:
il soggetto privo di mezzi, può rivolgersi ai parenti, ai sensi dell'art. 433
c.c. e seguenti, per ottenere gli alimenti e cioè quanto gli è necessario per
soddisfare i bisogni più essenziali, ma si tratta di rapporto privato tra parente
e parente, per il quale nessuna sostituzione da parte di altri (e men che meno
di un ente pubblico) può essere ammessa.
Era dunque sufficiente riflettere sui caratteri propri della disciplina alimentare,
per escludere ogni possibilità di legittimazione dell'ente locale a richiedere
ai parenti il pagamento delle rette. Tuttavia la vicenda di questi anni è, com'è
noto, emblematica: gli enti hanno continuato nelle loro richieste illegittime,
nonostante vi siano state numerose pronunce di giudici contrarie a tale prassi.
Non vi era bisogno di un intervento normativo, ma questo è venuto, e con molta
soddisfazione delle famiglie, costrette a lottare contro le imposizioni (qualche
volta, soprattutto quando si richiede una firma di garanzia del parente, per
il ricovero del malato, sono veramente tali) degli enti.
Com'è noto, il decreto legislativo 3 maggio 2000 n. 130, che ha modificato il
decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 109 "Definizione di criteri unificati di
valutazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate",
precisa, con chiarezza, che le disposizioni del decreto "non modificano la disciplina
relativa ai soggetti tenuti alle prestazioni degli alimenti, ai sensi dell'art.
433 codice civile", ma aggiunge, imponendo un'interpretazione autentica, che
non ne ammette altre, diverse o contrapposte, che le disposizioni del decreto
"non possono essere interpretate nel senso dell'attribuzione agli enti erogatori
della facoltà di cui all'art. 438 del codice civile, primo comma, nei confronti
dei componenti il nucleo familiare dei richiedenti la prestazione agevolata".
Il primo comma dell'art. 438 del codice civile, richiamato, precisa che gli
alimenti possono essere richiesti "solo" da chi versa in stato di bisogno e
non è in grado di provvedere al proprio mantenimento: da lui e da nessun altro
(semmai, qualora egli sia incapace, dal suo legale rappresentante, un tutore,
nominato a seguito della procedura di interdizione).
Va precisato che l'art. 25 della legge n. 328/2000 chiarisce che, ai fini dell'accesso
ai servizi disciplinati dalla legge, la verifica della condizione economica
è effettuata secondo le disposizioni previste dal decreto legislativo n. 109,
modificato dal decreto legislativo n.130, come sopra ricordato. E' pertanto
da ritenersi che per tutto il sistema integrato di interventi e servizi sociali,
delineato dalla legge n. 328, valga il principio, così chiaramente espresso
dai presenti decreti, di esclusione della facoltà degli enti erogatori di richiedere
ai parenti il pagamento delle rette di ricovero.
Qualche ambiguità potrebbe emergere dal contesto del decreto n. 130/2000, là
dove si precisa che la valutazione della situazione economica del richiedente
è determinata "con riferimento alle informazioni relative al nucleo familiare
di appartenenza". Ci si riferisce comunque alla famiglia anagrafica, dunque
ai parenti già conviventi con l'assistito, ovvero a quelli che hanno in carico
tale soggetto. Ma la valutazione estesa ai familiari deve necessariamente coordinarsi
con il principio sopra indicato, ed esplicitamente enunciato, per cui l'ente
erogatore non può richiedere il pagamento parziale o totale delle rette ai parenti:
è da ritenere, pertanto, che, ove l'assistito non richiedesse gli alimenti o
in caso di interdizione il suo tutore) o essi venissero spontaneamente corrisposti
dai parenti (ma all'assistito, non all'ente), l'ente erogatore non potrebbe
far altro che riferirsi alle sole condizioni economiche dell'assistito nei confronti
del quale (e non dei parenti) potrebbe agire anche esecutivamente (ove il ricovero
abbia propri redditi, magari cospicui).
E' appena il caso di precisare che il principio interpretativo di norme del
codice civile, che attengono ai rapporti tra soggetti privati, dove vengono
in considerazione diritti soggettivi perfetti, contenuto nel decreto n. 130/2000,
è sicuramente esteso a tutto il territorio nazionale, anche a quello delle Regioni
a statuto speciale.
Tutto bene, tutto chiaro? Eppure le prime reazioni degli enti erogatori sembrano
andare in una direzione opposta, palesemente contra legem: si afferma che l'indicazione
così esplicita e palese, contenta nell'ultimo comma dell'art. 1, decreto n.
109 novellato, non sarebbe operativa, in quanto, il successivo art. 3 precisa
che, quanto alle prestazioni sociali agevolate, erogate a domicilio o in ambiente
residenziale, a ciclo diurno o continuativo, rivolte a persone con handicap
permanente grave nonché a soggetti ultrassessantacinquenni non autosufficienti,
le disposizioni del decreto stesso si applicano nei limiti da altro decreto
del Presidente del Consiglio dei Ministri; si aggiunge che tale decreto non
è mai stato emanato, e pare che difficilmente lo sarà, e comunque, fino all'emanazione
di esso, non sarebbe operante il principio di esclusione della possibilità,
per gli enti erogatori, di richiedere il pagamento delle rette ai parenti del
ricoverato.
Si tratta peraltro di un'interpretazione assolutamente infondata; già si è detto
che, anche prima dell'intervento legislativo, tale possibilità era esclusa,
sulla base della logica emergente dalla disciplina degli alimenti nel codice
civile, il decreto legislativo n. 109 e successive modifiche non ha fatto altro
che dare una sua (corretta) interpretazione di una normativa precedente, non
ha aggiunto nulla di nuovo, e dunque non vi è certo bisogno di un ulteriore
decreto per precisare e specificare un principio già di per sé del tutto chiaro
e senza ambiguità.
Ma il decreto legislativo n.109 presenta un'ulteriore valenza: qualche recente
pronuncia della Cassazione (ad esempio Cass.16 marzo 2001, n. 3822) ha riportato
inopinatamente in vita, dopo un lungo letargo, la legge 3 dicembre 1931, n.1580,
"Nuove norme per la rivalsa delle spese di spedalità e manicomiali", che sembrava
implicitamente abrogata a seguito della legge n. 180/1978 (chiusura dei manicomi)
e la legge n. 833/1978 (riforma della sanità), atteggiamento assai discutibile,
proprio perché la legge che prevedeva una rivalsa nei confronti dei parenti
dell'assistito si ispirava ad una logica ospedaliera e manicomiale, totalmente
differente rispetto alle attuali caratteristiche del sistema sanitario nazionale.
In ogni caso, seppur non si considerasse abrogata già anteriormente, è ritenere
che la legge n. 1580 sarebbe stata abrogata dal decreto legislativo n. 109,
secondo il principio generale per cui la legge posteriore abroga quella anteriore;
infatti la rivalsa non potrebbe certo riguardare le prestazioni strettamente
cliniche e sanitarie, ma solo quelle così dette "alberghiere" di permanenza
e soggiorno nella struttura, ma queste si inquadrerebbero sostanzialmente in
quelle assistenziali di cui alla legge n. 328/2000 (e rientrerebbero nella previsione
del decreto legislativo n. 109/1998).
Nonostante tutto ciò, gli enti continuano a chiedere il pagamento delle rette
ai parenti dei ricoverati: si può davvero dire per essi - e mai detto popolare
sarebbe più consono a tale comportamento - che "Errare humanum est, perseverare
diabolicum".
* In "Prospettive assistenziali", n. 138/2002, p. 11.
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