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Da La nonviolenza è in cammino
Foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza. Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it Numero 939 del 24 maggio 2005

Enrico Peyretti: La nonviolenza: scienza, arte, etica del conflitto vitale

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[Ringraziamo di cuore Enrico Peyretti (per contatti: e.pey@libero.it) per averci messo a disposizione la sua relazione al convegno internazionale “Per un'idea di pace”, Università di Udine, 13-16 aprile 2005. Enrico Peyretti è uno dei principali collaboratori di questo foglio, ed uno dei maestri più nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di là del “non uccidere”, Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica è pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999; Dov'è la vittoria?, Il segno dei Gabrielli, Negarine (Verona) 2005; è disponibile nella rete telematica la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte non-armate e nonviolente, ricerca di cui una recente edizione a stampa è in appendice al libro di Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, Plus, Pisa 2004 (libro di cui Enrico Peyretti ha curato la traduzione italiana), e una recentissima edizione aggiornata è nei nn. 791-792 di questo notiziario; vari suoi interventi sono anche nei siti: www.cssr-pas.org, www.ilfoglio.org. Una più ampia bibliografia dei principali scritti di Enrico Peyretti è nel n. 731 del 15 novembre 2003 di questo notiziario]

La nonviolenza è il buon uso del conflitto. Non è l'astensione, la neutralità assente. Non è assolutamente l'indifferenza tra l'aggressore e l'aggredito; né il semplice non-fare-violenza (la gandhiana “a-himsa”). La nonviolenza sta nel conflitto, non lo elude, non lo nasconde, anzi lo mette in luce quando è pericolosamente occultato. Di più, solleva e apre il conflitto, quando c'è un'ingiustizia, una violenza tacita e statica, incarnata nelle strutture sociali. Se l'ingiustizia non è resa visibile, non può essere combattuta e tolta. La scelta e l'azione nonviolenta sono soprattutto il gandhiano “satyagraha”: un'azione e una lotta condotte con la “forza-che-viene-dallo-stare-attaccati-alla-verità”, cioè a quel tanto di verità che abbiamo potuto ricevere e conoscere, senza presumere di possederla e tanto meno di imporla. Per Gandhi la verità è l'unità profonda di tutti gli esseri, dunque è falsità e male ogni offesa al più piccolo degli esseri; la verità è dunque ciò che ci unisce, ci trascende e ci anima intimamente; la verità è la forza buona e viva della vita, più forte di ogni violenza e di ogni male.
La verità per Gandhi non è questa o quella concezione di Dio, questa o quella religione, o filosofia, o sapienza. Ogni conoscenza di verità è valida, ed è anche fallibile e correggibile. La verità stessa è ciò che chiamiamo Dio: in quanto immanente e trascendente ogni nostra conoscenza, intima in noi e superiore a noi, sempre cercata, sentita, e mai posseduta, essa è Dio.
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La nonviolenza sta dentro il conflitto e lo gestisce con la forza della sincerità, in modo tale da condurlo ad essere un atto di vita e di verità.
Sta nel conflitto per trasformarlo da mortale in vitale, da eliminatorio in costruttivo.
Il conflitto, in se stesso, non significa scontro violento. Nonostante la confusione del linguaggio corrente, non è sinonimo di guerra. Il conflitto nasce da una differenza. L'incapacità di accettarla porta alla violenza, che vuole sradicare la differenza. L'intelligenza della vita, invece, riconosce la differenza e il conflitto come “un'occasione di verità” (Gandhi).
Il conflitto può essere gestito in modo distruttivo (al limite, eliminare il nemico o l'avversario per eliminare il conflitto stesso, perchè non si ha la forza di reggerlo); oppure può essere gestito in modo costruttivo: cioè lavorando per trasformarlo e condurlo verso un risultato il più possibile positivo per entrambi i contendenti. Questo lavoro è una forza creativa. La violenza distrugge pezzi di realtà, perchè è debolezza di fronte alle sfide della realtà ricca, varia, e alle sue differenze e tensioni. La nonviolenza custodisce ogni realtà, perchè poggia sulla vera forza. Essa confida che anche il malvagio, trattato con franchezza e coraggio anziché con la violenza legittimata, possa ritrovare la propria verità umana, nella giustizia e nel rispetto universali. In ogni caso, la nonviolenza risparmia dolori e vergogne all'umanità, perchè non oppone alla violenza nuova violenza, ma la più profonda e positiva resistenza. Ogni popolo consapevole di ciò può rendersi capace di difendersi senza i mezzi militari, con la difesa popolare nonviolenta, la quale non è solo un auspicio, ma anche una esperienza storica (1).
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Nei limiti di questa comunicazione, vorrei accennare a qualche argomento che può sostenere la seguente tesi: la nonviolenza è l'umanesimo adeguato all'era storica attuale, che è l'era del rischio nucleare ed ecologico. In questo senso “la nonviolenza è il varco attuale della storia” (Aldo Capitini), cioè l'unico passaggio verso un futuro possibile.
Quel rischio totale rivela l'impossibilità morale e la totale non-convenienza di ogni gestione violenta dei conflitti, specialmente se è gestione organizzata, istituzionale, metodica, come sono le strutture della guerra, dell'economia di sfruttamento e di enorme diseguaglianza, le operazioni culturali e mediatiche di inganno e manipolazione delle menti allo scopo di dominarle.
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L'opzione nonviolenta ha una dimensione filosofica, culturale, religiosa, politica. Propone immagini interpretative della realtà, e programmi di comportamenti e di azione.
In un certo senso, la nonviolenza c'è sempre stata (è “antica come le montagne”, dice Gandhi), ma, nel nostro tempo, dopo il Novecento, ha avuto una evoluzione di grande importanza.
La scelta di pace nonviolenta, per secoli, è stata una scelta individuale nei rapporti interpersonali diretti, è stata una responsabilità del principe nei rapporti politici, è stata una speranza di chi rivolgeva esortazioni morali agli individui, ma non è stata un programma organico storico e politico.
Il Novecento, il secolo più violento e minaccioso della storia, ha visto anche una grande maturazione della nonviolenza attiva e politica. Da Buddha a Gesù a Erasmo a Gandhi c'è un cammino, nella riscoperta e sviluppo di tesori antichi.
Da impegno morale individuale (spesso senza speranza di togliere o ridurre la violenza dei poteri pubblici), la nonviolenza è diventata teoria e prassi, studio scientifico del conflitto umano, nei suoi vari tipi e livelli; prassi sociale che, mentre è guidata dalla teoria, offre a sua volta alla teoria un materiale sperimentale continuamente arricchito; teoria che si articola sul piano etico-filosofico, sul piano sociologico-storico, sul piano psicologico-pedagogico, sul piano delle dinamiche e degli strumenti dell'azione.
È vero che, come dice Gandhi, “La nonviolenza non va predicata, ma praticata” (2) ma è vero pure che, come scrive nel 1928 Simone Weil, “La pace non verrà fondata dall'amore, ma dal pensiero”, perchè “l'amore fa la guerra altrettanto bene che la pace” (3).
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Gandhi è stato detto “il Galileo del conflitto”, il fondatore di una nuova scienza conoscitiva e pratica, personale e politica, diretta a trasformare il conflitto umano da mortale a vitale, da nemico della vita e produttore di morte, a compositore di ricchezza di vita e di maggiore verità esistenziale, nell'armonia superiore delle differenze.
Gandhi ha messo a frutto una “rivoluzione copernicana”.
Nella precedente (ma tuttora persistente) visione “tolemaica”, al centro del sistema c'è la necessità di respingere e controllare la violenza altrui, usando altra violenza, la propria. Questa visuale dà luogo alla “ideologia della vittoria” (4) sull'altro, della sopraffazione giustificata dal diritto; dà luogo alla morte inflitta alla vita pericolosa (mors tua vita mea), o semplicemente ingombrante. In questa visuale la violenza è giustificata e razionalizzata, illusoriamente regolata e istituzionalizzata, ma non rifiutata e non superata (5), bensì accresciuta fino al pericolo totale per l'esistenza della specie umana.
Nella visuale “copernicana”, invece, il punto centrale è la necessità e ricerca di liberare nell'umanità la forza nonviolenta, di fare emergere e nascere, dall'uomo “edito” che noi siamo, l'“uomo inedito” (Ernst Bloch, Ernesto Balducci), finora nascosto e implicito, inespresso: un tipo di uomo più cooperativo che competitivo.
Si può puntare in questa direzione, sospinti dalla stessa necessità di sfuggire alla massima distruttività prodotta dalla logica della violenza, se non chiudiamo del tutto l'avventura umana negli schemi dominanti del suo passato, ma leggiamo, con intelligenza attiva e amorosa, le sue possibilità inespresse.
È tuttora “tolemaico” chi non ha imparato la lezione di Hiroshima. È “copernicano” chi da quella lezione ha tratto le conseguenze, imparando che il destino umano è unico per tutti i popoli, che la minaccia di morte è indivisibile, come è indivisibile il bisogno e il diritto di vivere, come sono indivisibili la giustizia e la libertà.
La nuova scienza del conflitto impegna ad un lavoro di pensiero, ricerca, sperimentazione, in tutti i campi del sapere e dell'agire umano.
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Gandhi, come pure chi prosegue i suoi “esperimenti con la verità”, appare a molti quasi solo come un profeta religioso, che immagina e addita un mondo altro e diverso dall'unico reale. Uno studioso di Gandhi come Jean-Marie Muller constata in Gandhi il primato della ragione sulla religione e afferma che è proprio la ragione che conduce Gandhi alla scoperta dell'esigenza di nonviolenza (6). Gandhi è un profeta religioso e un rinnovatore della politica, è un sapiente dei più grandi ed è uno dei maggiori scienziati sociali.
Di fatto, tanto in Gandhi quanto in Aldo Capitini (il filosofo italiano della nonviolenza, pensatore di grande originalità, purtroppo ancora poco conosciuto fuori d'Italia), religione e politica sono in profonda relazione reciproca.
Gandhi scrive: “La mia devozione alla Verità mi ha condotto alla politica; e posso dire, senza alcuna esitazione, anche se con assoluta umiltà, che coloro che affermano che la religione non ha nulla a che fare con la politica non sanno che cosa significa religione” (7).
Aldo Capitini scrive: “Per essere veramente religiosi bisogna passare per la vita pubblica. Si può anche essere stiliti o eremiti per riordinare la propria vita interiore, ma poi bisogna fare vita pubblica, e solo su questa sorge la vita religiosa che porta aperture e aggiunta” (8).
In questi maestri della nonviolenza, non è necessario separare religione e politica, come nelle nostre società, perchè per loro la religione non è anzitutto istituzione, non è una potenza sociale, ma un'animazione e ispirazione interiore, che orienta gli animi, nel rispetto di tutte le coscienze, senza conflitti istituzionali, a dedicarsi al bene di tutti nella politica.
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Questo atteggiamento dei maestri rappresenta una indicazione per tutte le religioni: tanto per quelle diffuse in società a maggiore uniformità religiosa, col rischio di ridurre la libertà di coscienza, quanto per quelle presenti nelle società pluralistiche, che devono essere tenute distinte dalle istituzioni politiche per rispettarne il pluralismo.
In effetti, la cultura della nonviolenza può ricevere un forte contributo spirituale dalle religioni, e, a sua volta, essa contribuisce alla purificazione e alla genuinità delle religioni.
Il rapporto delle religioni con la ricerca di nonviolenza è almeno duplice.
Le religioni producono sia violenza che nonviolenza. In quanto sono tensione, ricerca, relazione con un assoluto, esse sono tentate di intransigenza, di totalitarismo, di escusivismo, di imposizione violenta.
Ma proprio il rapporto, vissuto più seriamente e interiormente, con l'assoluto che ci trascende, con cui non possiamo identificarci, fa sentire alle persone religiose che noi siamo tutti relativi. Allora, il senso autentico della relazione religiosa ci rende umili, miti, nonviolenti. Il significato migliore delle religioni esige che esse si facciano, tutte, sempre più chiaramente nonviolente.
Un'opinione ritiene che le religioni monoteiste in quanto tali, e non solo per loro colpe storiche, siano portate all'intolleranza. Eppure, proprio il monoteismo fonda la più forte coscienza dell'unità di tutta intera la famiglia umana, nell'uguale dignità.
Le religioni hanno un riferimento alla verità. Alcune hanno più forte il senso di una verità ricevuta, rivelata. In ogni caso, la verità conosciuta è sempre da penetrare meglio, e soprattutto da vivere fedelmente. La verità non è mai posseduta ma sempre cercata, ricevuta, invocata, e sempre veduta solo parzialmente e imperfettamente. Essa, per quanto ci è data, non risiede tanto nelle menti e nelle definizioni intellettuali (peraltro utili alla vita buona, ma sempre perfezionabili) quanto negli atti pratici della vita autentica. I nostri diversi approcci e interpretazioni della verità devono essere intesi come in relazione tra loro, pur nelle differenze, e non in una opposizione escludente. Ovviamente, la verità non si può diffondere o inculcare con la forza, ad essa estranea.
Soprattutto, le religioni hanno oggi il compito di comprendere che la verità che possiamo conoscere, sotto diversi punti di vista, non ci “arma” mai gli uni contro gli altri (come ha fatto chi, nella storia, ha pensato con arroganza di imporla ad altri come “verità armata”). Invece, la verità proprio ci “disarma”, nel senso che ci rende più miti ed umili, impegnati continuamente ad imparare dall'ascolto reciproco, e a vivere una vita più giusta. La forza della verità non è offensiva, ma consiste nell'agire profondamente in noi, in quanto la cerchiamo e le siamo fedeli, col renderci più veri, più forti nel resistere al male e nel vivere il bene, per gli altri e con gli altri.
Una grande novità positiva del nostro tempo, nonostante ritardi e fenomeni contrari, è il dialogo tra le religioni, che fino a ieri si ignoravano, si escludevano, o addirittura si combattevano. Questo dialogo, questa “fecondazione reciproca” (Raimon Panikkar), può portare un importante contributo alla cultura della nonviolenza, al superamento delle violenze culturali.
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La scienza nonviolenta del conflitto studia anche i meccanismi oggettivi e le dinamiche dei conflitti umani. La buona volontà individuale è necessaria, ma non è sufficiente a superare le dinamiche violente. Uomini buoni in strutture cattive fanno cose cattive, con volontà buona. I sistemi che incarnano violenza devono venire smascherati con la critica razionale e morale e affrontati con la lotta politica nonviolenta.
Il principio etico dell'azione nonviolenta è, in generale, il “rispetto per la vita” (Albert Schweitzer). In particolare, nel mondo di oggi, l'imperativo morale per la liberazione dalla distruttività è stato bene espresso da Hans Jonas: “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra” (9). Ernesto Balducci scrive, in termini simili: “Agisci in modo che, nella massima della tua azione, il genere umano trovi le ragioni e le garanzie della propria sopravvivenza” (10).
Nella politica, sia come azione sia come riflessione, la nonviolenza introduce l'esigenza di liberazione progressiva da ogni vecchia e nuova violenza. Il pensiero di Hannah Arendt mostra che potere politico autentico e violenza si escludono a vicenda. Dove c'è il potere di agire insieme nella polis, non c'è violenza. Dove c'è violenza, manca il potere politico. Il potere deve essere pensato in modo nuovo, non come dominio di alcuni sugli altri, ma come possibilità e capacità di ciascuno, riconosciuta, sviluppata e liberata in tutti. È questa la prospettiva del “potere di tutti”, indicata da Aldo Capitini (11): la possibilità di orientarsi liberamente e agire insieme attorno ai problemi di tutti.
L'obiettivo moderno dello stato di diritto e della democrazia è importante e irrinunciabile, ma occorre vedere la contraddizione profonda tra l'essenza della democrazia e la guerra. La democrazia è fondata sull'umanesimo dei diritti umani, che sono universali, di ogni persona, e non solo dei cittadini di uno stato particolare. La guerra offende i diritti umani in modo totale. Non può dire di difenderli, mentre li offende. L'uso della guerra - specialmente se eretto a metodo, come oggi tragicamente avviene di nuovo - e la politica securitaria, che esaspera l'esigenza di sicurezza per rafforzare il potere, distruggono anche la democrazia interna.
La realizzazione della democrazia implica l'abolizione della guerra.
La politica è pace, oppure non è politica. Essa va ripensata, più avanti della democrazia formale (le “regole del gioco”), per vedere che essa consiste nella costruzione della pace, perciò nella soluzione nonviolenta dei conflitti, non solo interni, ma anche esterni allo stato. Al contrario della disastrosa concezione di Carl Schmitt, la politica è pace, altrimenti non costruisce la polis umana, ma la nega.
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Norberto Bobbio ha scritto: “Esiste una grande filosofia della guerra..., non esiste una grande filosofia della pace” (12). È così soltanto in apparenza. Ciò è vero nella filosofia dei libri e delle accademie, nel pensiero vicino alle classi dirigenti che hanno esercitato il potere duro.
Ma c'è un pensiero antico e contemporaneo, in tutte le culture, un pensiero in crescita, che osserva e interpreta le quotidiane esperienze di con/vivenza di base tra gli esseri umani, ovunque. Questa, anche se non appare tecnicamente come filosofia, è una sapienza vissuta e riflessa, che oggi va sviluppando anche la propria espressione politica e l'argomentazione razionale e valoriale. Gandhi, con una osservazione meditata, mostra come, sotto il fracasso delle guerre e delle sopraffazioni, nella vicenda umana continua c'è più pace che guerra (13).
Le filosofie del dialogo e dell'alterità, sviluppate nel Novecento, contribuiscono a fondare e chiarire il pensiero della pace (14). La convivenza degli umani in società ha bisogno non solo di limitare e controllare il potere pubblico (grande tradizione del costituzionalismo), ma di vedere con chiarezza il valore inviolabile di ogni persona. Questo valore dà fondamento al diritto di ognuno alla pace e alla giustizia, e toglie ogni diritto statale alla guerra (Statuto delle Nazioni Unite, art. 2, non contraddetto dagli artt. 47 e 51).
Il pensiero della politica è spinto dall'esigenza di nonviolenza a superare il realismo stretto e soffocante di Machiavelli e di Hobbes. Machiavelli non è tanto il “fondatore della scienza politica” (così definito comunemente, anche da Raymond Aron) quanto il fondatore “della scienza politica del dispotismo” e delle relative tecniche (15).
Per Hobbes, la pace tra gli uomini è possibile solo se imposta da un potere superiore. Ma questa è soltanto la “pace d'impero” (16). Un tale pessimismo antropologico rinuncia a sviluppare nelle persone e nelle società le capacità di convivenza libera e giusta, nella dignità. Non si tratta, certamente, di giocare una stupida lotteria tra pessimismo e ottimismo, ma di intendere l'ottimismo come lo intende Dietrich Bonhoeffer (che rileggiamo a 60 anni dal suo martirio), quando scrive agli amici le sue riflessioni “dopo dieci anni” di nazismo in Germania: “la forza di tener alta la testa quando sembra che tutto fallisca, ... volontà di futuro, anche quando dovesse condurre cento volte all'errore, ... salute della vita” (17).
L'ottimismo serio non è attesa del meglio, ma lavoro per il meglio.
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L'educazione e la pedagogia, secondo l'esigenza di nonviolenza, vogliono aiutare il bambino (e chiunque) a scoprire in se stesso il riconoscimento e l'identificazione con l'altro, il quale ha un valore uguale al nostro, attraverso la differenza. Tale riconoscimento è espresso, in tutte le sapienze umane, dalla universale “regola d'oro”.
La psicologia ci insegna che la maggiore possibile felicità umana si realizza nelle buone relazioni con gli altri. La buona relazione reciproca si cerca e si costruisce, da parte di ciascuno, con una tenace offerta di fiducia e di valorizzazione dell'altro. Il “ben vivere”, pur nei limiti della nostra esistenza, viene dal riconoscere e seguire quel “codice del bene”, nascosto in noi, sotto gli erramenti umani (18). La scoperta che il “vita tua vita mea” è più vero e felice del “mors tua vita mea” ci introduce in quel sapiente universalismo spirituale e pratico (19) che può dare un'anima umana al nostro mondo oggi materialmente ma iniquamente unificato, minacciato dalla incapacità di accettare le diversità.
L'eterna domanda se la natura umana sia piuttosto violenta o nonviolenta, incontra risposte contrastanti, perchè contrastanti sono le esperienze e i casi umani. Ma, se vediamo che la nostra natura non è fissa e immutabile, ma soprattutto indefinita, aperta, plasmabile, orientata dalla cultura dell'ambiente umano in cui viviamo, allora ritroviamo la possibilità di sviluppare le nostre capacità di positiva pacifica “con/vivenza”, di organizzare sistemi del vivere insieme senza violenza e offesa.
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La pace è anche un'arte: arte come espressione sensibile di sentimenti, immagini e significati riconcilianti, ma anche come capacità artigianale di invenzioni fuori dagli schemi ripetuti e dal “pensiero unico”: “Un altro mondo è possibile”. Senza questa inventiva, l'umanità è tarpata e chiusa, condannata a ripetere i suoi errori e dolori. Qualche esempio: superare l'idea rigida di “confine” territoriale e di assolutezza statale; oltrepassare l'idea di giustizia retributiva verso esperienze di giustizia ricostruttiva (Commissione Verità e Riconciliazione in Sudafrica); pratiche di economia solidale, libera dal dogma dell'avidità umana.
Questi sono atti dell'arte della pace, fino - speriamo per il futuro - a neutralizzare le malefiche arti belliche. “Un giorno gli uomini si vergogneranno di avere fabbricato le armi”, ha detto Ernesto Balducci. Noi già ora ci vergogniamo totalmente, e perciò fabbrichiamo - non importa con quanta fatica - le varie arti della pace nonviolenta.
La pace non può essere soltanto un “contratto” (pax, pactum) instabile, perchè fondato su equilibri di forze opposte (se non avverse). Simone Weil mostra che, prima di ogni “contratto sociale”, c'è un felice “obbligo” umano reciproco, che ci assicura e ci libera insieme, più ancora che legarci (20), ed è il fondamento comune, che ci offriamo a vicenda, dei diritti di ognuno e di tutti.
La pace può venire istituita solo dalla rinuncia alla violenza, dalla liberazione progressiva dalla propria violenza - Gewaltfreheit - prima che dalla violenza altrui.
La pace è un cammino continuo, personale, sociale, storico, attraverso alcuni passi: la a-himsa; la in/dipendenza interiore dai meccanismi dell'inimicizia; il coraggio e la forza del satyagraha; la testimonianza sempre sicura, anche in caso di sconfitta, data a chi continuerà il cammino nella nonviolenza.
La nonviolenza è più realistica della violenza (21). La cultura e la politica di guerra obbediscono alla convinzione fanatica e stolta di poter togliere il male per mezzo del male, e producono più pesanti effetti irreversibili. In realtà, l'etica della responsabilità in relazione a tutte le conseguenze dei nostri atti, prevedibili o imprevedibili, si realizza nella ricerca della pace nonviolenta.
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Note
1. Si può trovare in rete la bibliografia storica sulle lotte nonviolente “Difesa senza guerra”, da me curata.
2. Mohandas K. Gandhi, Nonviolence in Peace and War, Navajivan Publishing House, Ahmedabad 1948, I, 129.
3. Simone Weil, Oeuvres completes, vol. I, t. II, Gallimard, Paris 1988, p. 48, cit. in Jean-Marie Muller, Simone Weil, l'esigenza della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994, p. 27.
4. Cfr Enrico Peyretti, Dov'è la vittoria?, Il Segno dei Gabrielli editori, Nogarine (Verona) 2005.
5. Cfr Ernesto Balducci, La terra del tramonto, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole (Firenze) 1992.
6. Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza. Una filosofia della pace, Plus, Pisa 2004, pp. 250-252.
7. Mohandas K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1996, p. 31.
8. Aldo Capitini, Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 385.
9. Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990, p. 16.
10. Ernesto Balducci, La terra del tramonto, op. cit., p. 183.
11. Aldo Capitini, Il potere di tutti, con un saggio introduttivo di Norberto Bobbio, La Nuova Italia, Firenze 1969.
12. Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1979, p. 163 (e edizioni successive).
13. Mohandas K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, op. cit., pp. 62-65.
14. Cfr, per esempio, Federica Curzi, Vivere la nonviolenza. La filosofia di Aldo Capitini, Cittadella editrice, Assisi 2004, specialmente nelle pp. 163-176.
15. Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, op. cit., p. 128.
16. Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, op. cit., pp. 178-180.
17. Dietrich Bonhoeffer, Dieci anni dopo, in Idem, Resistenza e resa, edizione italiana a cura di Alberto Gallas, Edizioni Paoline, Milano 1989, pp. 72-73.
18. Vedi Roberto Mancini, Il silenzio, via verso la vita (ma il titolo più proprio è Il codice nascosto. Silenzio e verità), Edizioni Qiqaion, Bose 2002, capitolo V, pp. 173-221.
19. Nel campo della ricerca di orientamenti etici universali si possono indicare le opere di Pier Cesare Bori, di Hans Kueng, di Raimon Panikkar, e altri.
20. Simone Weil, La prima radice. Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l'essere umano, Leonardo, Milano 1996.
21. Cfr Jean-Marie Muller, Il principio nonviolenza, op. cit., p. 302. Cfr anche Ernesto Balducci - Lodovico Grassi, La pace, realismo di un'utopia, Principato, Milano 1985.