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Sul "fondo per la non autosufficienza"

Carlo Hanau
, Dipartimento scienze statistiche Università di Bologna

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Generalmente viene accettato che il fondo per non autosufficienti debba aggirarsi attorno all'1% del PIL. In effetti è questa la dimensione del fondo nei Paesi che fino ad ora lo hanno adottato, Germania e Lussemburgo. Tuttavia non si deve dimenticare che in Italia, prendendo a riferimento il 2001, vi sono state altre forme di finanziamento per coprire le stesse necessità, che vanno ben oltre i 12.000 miliardi di vecchie lire che il Ministro Sirchia ha indicato come somma fra la spesa corrente di 7.000 miliardi dello Stato (indennità pensionistiche) e 5.000 miliardi dei Comuni, divisi fra servizi in natura e trasferimenti monetari, come assegni di cura, minimo vitale ed altri benefici. Secondo il Ministro sarebbe necessario reperire 20.000 miliardi l'anno aggiuntivi, pari a 10 miliardi di Euro, per ottenere il fondo necessario per i non autosufficienti (presumibilmente il calcolo si riferisce ad ogni età).
Se il fondo per non autosufficienti dovesse coprire tutte le esigenze sanitarie e sociali della categoria di disabili gravi di ogni età si dovrebbe forse prevedere non 1 ma 3% del PIL, così come avviene in Olanda, ove l'assicurazione AWBZ appositamente dedicata alla non autosufficienza giunge a questi livelli di spesa. La cifra non deve stupire, poiché é noto che nei Paesi industrializzati come il nostro il 5% della popolazione consuma in valore il 50% dei servizi sanitari e sociosanitari offerti dal SSN, equivalente al 3% del PIL (perché in totale il Fondo sanitario nazionale rappresenta poco meno del 6% del PIL), e che la maggior parte di questa piccola quota della popolazione è costituita da disabili gravi, spesso anziani, oltre che da alcuni malati gravi vicini alla morte.
Tuttavia in Italia il Fondo sanitario nazionale già copre una parte consistente di queste necessità: lo stesso DPCM 29.11.2001, che pure addossa agli utenti (non ai loro familiari) e, in carenza di disponibilità degli utenti, ai Comuni una parte di spesa a nostro parere eccessiva, mantiene ancora la competenza del fondo sanitario comune sulla maggior parte della spesa in beni e servizi sanitari per i non autosufficienti.
Si può quindi mettere in dubbio l'esigenza di 20.000 miliardi di fondi aggiuntivi per i non autosufficienti, a meno di non ritenere che, essendo la spesa sanitaria pubblica italiana decisamente inferiore a quella pubblica e/o mutualistica degli altri Paesi industrializzati (che va sempre oltre il 7% del PIL), con la finalizzazione di questi fondi a questo scopo, si voglia in realtà liberare una parte consistente del fondo sanitario nazionale, attualmente utilizzata dai non autosufficienti, per destinarla alla sanità degli acuti, per la ricerca, per lo svecchiamento delle strutture sanitarie.

Il caso limite della Lombardia

L'esame della situazione della Lombardia può aiutare a stimare le necessità reali attuali della popolazione dei non autosufficienti. La Lombardia, pur avendo una popolazione anziana simile alla media nazionale, ben lontana dai livelli di invecchiamento della Liguria e dell'Emilia Romagna, detiene il primato del numero di ricoverati parzialmente a carico del fondo sanitario regionale, pari a 45.000 unità. A questi andrebbero aggiunti coloro che sono ricoverati in residenze non convenzionate con il SSN e che non sono a carico del fondo sanitario: si tratta di casi abbastanza rari, in quanto i non autosufficienti necessitano di servizi sanitari importanti, che spettano gratuitamente indipendentemente dal reddito, per cui tutti sono incentivati ad attivare questo finanziamento.
La Lombardia, secondo i dati della indagine multiscopo ISTAT riferita al 2000, che indaga sulle condizioni di salute delle persone residenti in famiglia, ha 168.000 confinati in casa di cui 53.000 tra 6 e i 64 anni e 114.000 di 65 anni e più. Pur non essendo sinonimo di gravità assoluta il confinamento in casa costituisce pur sempre un indicatore di una condizione di non autosufficienza abbastanza grave. Se consideriamo invece coloro i quali alla domanda: "è affetto da una malattia cronica o da una invalidità permanente che riduce l'autonomia personale fino a richiedere l'aiuto di altre persone per le esigenze dalla vita quotidiana in casa o fuori casa" hanno risposto: si, in modo continuativo, o per esigenze importanti 280.000 persone. Se ne desume che il numero dei ricoverati è pur sempre molto inferiore a quello dei non autosufficienti che restano a domicilio; tuttavia la gravità dei ricoverati è mediamente più elevata di quelli che restano a domicilio.
Qualunque politica assistenziale che si limitasse a finanziare la residenzialità, costituendo un incentivo all'istituzionalizzazione, avrebbe delle conseguenze pesanti sulla restante parte dell'assistenza, semiresidenziale e domiciliare, che, secondo consenso unanime, costituiscono invece la parte più meritevole di sviluppo.
In molte parti della Lombardia l'Assistenza domiciliare integrata, persino nella sua variante più costosa denominata ospedalizzazione a domicilio, è da tempo abbastanza sviluppata, avendo avuto inizio proprio a Milano, con punte di eccellenza come Merate di Lecco, ove anche il tasso di ospedalizzazione risulta perciò più contenuto.
In questa Regione si ritrovano tuttavia le condizioni sociali ed economiche più vicine a quelle dell'Europa del centro e del nord, che rendono il tasso di ricovero in RSA molto elevato, pari a 0,5% sulla popolazione intera.
Per i non autosufficienti ricoverati il costo di gestione della RSA, che si aggira attorno ai cinque-sei milioni di lire al mese, viene sostenuto per circa metà dal fondo sanitario e per l'altra metà dall'utente e/o dal Comune.
Il fondo aggiuntivo per la non autosufficienza istituzionalizzata dovrebbe coprire, al massimo, soltanto la parte che oggi viene pagata dall'utente, che in RSA non supera i tre milioni al mese. Considerando che quasi tutti gli utenti usufruiscono di indennità di accompagnamento (820.000 lire) e di pensione (minimo un milione al mese) sembrerebbe equo che il totale (1.800.000 lire al mese) venisse devoluto come compartecipazione a fronte di un servizio che provvede vitto ed alloggio in modo completo. Diversa e peggiore la situazione di coloro che, essendo disabili dalla nascita, non hanno mai lavorato e percepiscono perciò soltanto la pensione d'invalidità civile: si tratta tuttavia di casi relativamente poco frequenti e quindi scarsamente incidenti su questo conto, che si auspica vengano presto parificati agli altri nei prossimi interventi governativi annunciati dal Ministro del Welfare.
Sulla base delle precedenti considerazioni il fondo aggiuntivo dovrebbe perciò coprire 1.200.000 lire al mese per 45.000 persone, pari a 648 miliardi di lire all'anno per l'intera Regione e a 76.000 lire pro capite di residente.
Si deve infine notare che vi sono non autosufficienti gravi che non usufruiscono di alcun finanziamento pubblico perché pagano direttamente tutto l'ammontare della retta: si tratta di pochi casi rispetto ai 45.000 ricoverati in strutture che ricevono fondi sanitari, ma a questi si dovrebbe estendere il trattamento, indipendentemente dalle loro condizioni economiche, sotto forma di diritto soggettivo non condizionato dalla situazione economica.
Questa cifra consentirebbe ai Comuni, che oggi intervengono per coprire parzialmente o totalmente la quota "sociale" della retta degli indigenti (ad esempio in Emilia Romagna diversi Comuni coprono circa un quarto dei costi totali delle rette in convenzione, restando un quarto in capo agli utenti e la metà ai fondi sanitari), di risparmiare una consistente parte delle attuali ingenti spese per residenze, estendendo le altre forme di assistenza oggi carenti, in particolare l'assistenza domiciliare e semiresidenziale e gli assegni di cura per il congiunto di riferimento o care giver. In nessun caso la stessa persona non autosufficiente dovrebbe sostenere una compartecipazione inferiore per la sistemazione in una residenza, in particolare in quelle maggiormente sanitarizzate, in quanto verrebbe incentivato un cattivo uso delle risorse più costose, quelle istituzionali, che per motivi di efficacia e di efficienza devono restare l'ultima spiaggia dell'assistenza, quando non sia disponibile la soluzione alternativa a costi ragionevoli.
Egualmente si devono evitare code di attesa per le varie sistemazioni, che potrebbero favorire l'inserimento nel posto meno adatto perché in quel momento c'è soltanto quel posto disponibile.
L'applicazione della Legge 328/2000, che prevede il riordino dei trasferimenti monetari e dell'erogazione di servizi in natura, unificando il tutto in capo all'ente locale Comune o Comuni compresi e organizzati nel distretto sanitario, consentirà di evitare le inefficienze dell'aziendalismo ora imperante, che spinge talvolta l'Azienda sanitaria locale, l'Azienda ospedaliera e il Comune a scaricare gli uni sugli altri il peso dell'assistenza, senza riguardo ai diritti dell'assistito e neppure alla spesa pubblica complessiva.
Volendo rapportare all'intero Paese la dimensione della Lombardia, che rappresenta il caso limite dell'istituzionalizzazione, la dimensione del fondo integrativo per l'assistenza residenziale così come sopra indicato giungerebbe a 4.270 miliardi di lire/anno, e si libererebbero per l'assistenza a domicilio molte risorse che i Comuni dedicano attualmente all'assistenza in istituzione.

Il caso dell'Emilia Romagna

In Emilia Romagna la situazione è molto più favorevole: nonostante il maggior invecchiamento della popolazione il numero dei residenti in RSA o case protette coperti per la parte dei servizi sanitari dalle AUSL non supera le 13.000 unità, pari allo 0,35% della popolazione (lo standard dei posti letto è fissato dalla Regione in 4% degli ultrasettantacinquenni). Si constata una domanda insoddisfatta di letti per malati gravi non autosufficienti, provata dalle dimissioni precoci dagli ospedali e dalle file di attesa per entrare in case protette ed RSA.
In parallelo con la Lombardia, l'Emilia Romagna, secondo i dati ISTAT, ha 81.389 confinati in casa di cui 11.000 sotto i 65 anni e 70.000 oltre i 65 anni. Sono 160.000 coloro che rispondono alla domanda "è affetto da una malattia cronica o da una invalidità permanente che riduce l'autonomia personale fino a richiedere l'aiuto di altre persone per le esigenze dalla vita quotidiana in casa o fuori casa". Le percentuali sulla popolazione residente sono superiori a quelle della Lombardia, presumibilmente a causa del maggior invecchiamento della popolazione.
I costi delle RSA o case protette sono simili a quelli della Lombardia e l'attuale compartecipazione degli utenti giunge egualmente a tre milioni di lire al mese. Applicando lo stesso principio di compartecipazione alla spesa appena indicato si ottiene che la necessità aggiuntiva della Regione si aggira sui 187 miliardi di lire, pari a 50.000 lire pro capite di residente: la somma è molto inferiore a quella della Lombardia a causa del numero più contenuto di persone istituzionalizzate. E' facile prevedere che una maggiore disponibilità di residenze aumenterebbe anche la domanda, oggi spesso compressa da lunghe file di attesa. Volendo rapportare la dimensione e le caratteristiche dell'Emilia Romagna all'intero Paese, la dimensione del fondo integrativo per l'assistenza residenziale giungerebbe a 2.760 miliardi di lire/anno.

Si potrebbe ripetere l'esercizio per altre Regioni italiane, fino ad arrivare alla Sicilia, ove la popolazione è più giovane, il numero degli utenti di RSA o case protette è percentualmente sugli anziani molto inferiore (un terzo di quello della Lombardia) e dove il costo di gestione di una RSA o casa protetta è quasi dimezzato rispetto a quello della Lombardia. Poiché tutti questi fattori si vanno a moltiplicare, l'esigenza attuale di un fondo integrativo risulterebbe di un ordine di grandezza inferiore rispetto alla Lombardia. Ci si rifiuta tuttavia di riportare il calcolo aritmetico perché tale operazione non terrebbe conto dell'esigenza di equità che i livelli essenziali di assistenza dovranno tutelare per tutti i cittadini italiani.

Dalle considerazioni esposte emerge che 5.000 miliardi/anno, un quarto dei 20.000 miliardi proposti dal Ministero, sarebbero più che sufficienti a recare un drastico miglioramento alle condizioni dei non autosufficienti di ogni età e di tutte le Regioni, consentendo di sollevare da compartecipazioni troppo esose coloro che già usufruiscono dell'assistenza e di aumentare l'assistenza domiciliare, quella semiresidenziale e residenziale, sopra tutto in quelle Regioni che sono più arretrate.
Queste considerazioni inducono a ritenere che una tassa di scopo potrebbe essere ben tollerata dalla popolazione di ogni Regione, considerando che le Regioni che hanno maggiormente bisogno di fondi sono quelle a più elevato reddito pro capite. Ogni Regione potrebbe istituire detto fondo, nell'ambito dell'autonomia che la Costituzione garantisce.
Alternativamente potrebbe essere approvato dal Legislatore centrale un fondo nazionale: la ripartizione del fondo nazionale ipotizzato, per la parte di spesa corrente, dovrebbe dipendere dal grado di istituzionalizzazione esistente e dall'invecchiamento della popolazione, mentre l'eventuale parte in conto capitale dovrebbe tendere ad accelerare la perequazione fra le varie Regioni.
Fra le ipotesi di tassazione andrebbe presa in considerazione l'IRAP, regionale, oppure altre formule di prelievo previdenziale obbligatorio, analogo ai contributi INPS. A questo fine sarebbe necessario che mediante legge venisse concessa alle Regioni a statuto ordinario la facoltà di istituire un fondo per le persone gravemente non autosufficienti, così come previsto per le PP. AA. di Trento e Bolzano dal decreto delegato n.259 del 4 maggio 2001, finalizzato a garantire prestazioni sociosanitarie specifiche per non autosufficienti di ogni età.


NOTA
Prima di operare qualunque previsione di spesa è pregiudiziale che si stabilisca cosa si intende per non autosufficiente, per i fini assistenziali. A tal fine sono molto utili i dati che il Dr. Alessandro Solipaca dell'ISTAT ha messo a disposizione, ricavati da indagini che si svolgono sia a domicilio che in istituzione. In Italia, secondo i risultati della rilevazione Multiscopo ISTAT del 2000, coloro i quali dichiarano di essere totalmente confinati in casa sono 1.152.000 di cui 254.000 tra 6 e 64 anni e 898.000 oltre i 65 anni di età.
La Lombardia ha 168.000 confinati in casa di cui 53.000 tra 6 e i 64 anni e 114.000 di 65 anni e più. L'Emilia Romagna ha 81.389 confinati in casa di cui 11.000 sotto i 65 anni e 70.000 oltre i 65 anni.
Se consideriamo invece coloro i quali alla domanda: è affetto da una malattia cronica o da una invalidità permanente che riduce l'autonomia personale fino a richiedere l'aiuto di altre persone per le esigenze dalla vita quotidiana in casa o fuori casa hanno risposto: si, in modo continuativo, o per esigenze importanti abbiamo 1.900.000 persone di cui 17.000 sotto i 6 anni 665.000 tra 6 e 64 anni e 1.220.000 oltre i 65 anni di età. Coloro che alla domanda: Può mangiare da solo, anche tagliando il cibo da solo? rispondono: può farlo solo con l'aiuto di qualcuno sono: 338.482 di cui 88.000 tra i 6 e i 64 anni e 249.513 di 65 anni e più. Coloro che sono confinati a letto sono 252.872, di cui 186.376 sopra i 65 anni.
Coloro che presentano congiuntamente due disabilità gravi, come quella di poter mangiare soltanto con l'aiuto di qualcuno e di essere confinati nella loro abitazione sono soltanto 104.846, di cui 86.712 sopra i 65 anni. Nessuna di queste definizioni risponde esattamente alla definizione di grave, ma fornisce una prova di quanto sia variabile il numero dei disabili gravi a seconda dell'indicatore scelto.
La reale gravità di un individuo deve essere misurata sulla base di un piano individuale che tenga conto delle sue personali esigenze di aiuto per raggiungere il livello che la società ritiene debba essere considerato il livello essenziale garantito alle persone.
In ogni caso non si può assolutamente affermare che in Italia vi siano due milioni di disabili gravi non autosufficienti. L'indagine ISTAT sui residenti in istituzioni censite (molte sfuggono alla rilevazione) ritrova circa 300.000 ricoverati, dei quali la gran parte sono non autosufficienti gravi, che tuttavia percepiscono l'indennità di accompagnamento. Per quantificare il fenomeno dei gravi non autosufficienti, dovendo prendere un riferimento unico, sarebbe meglio assumere il numero di coloro che ricevono l'indennità di accompagnamento e similari, che sono oltre 600.000: questo numero va comunque diminuito di coloro che pur avendo una gravissima menomazione (ad esempio ciechi totali) sono abbastanza autosufficienti da lavorare produttivamente e da vivere autonomamente.
Per maggiori ragguagli si può consultare il sito www.handicapincifre.it.