|    Da “Il manifesto”, 7 
        gennaio 2007 Fra sinistra e liberali un divorzio necessario Alberto Burgio (torna all'indice informazioni) La decisione di Nicola Rossi di non rinnovare la tessera 
        dei Ds riempie le cronache politiche e non c'è da meravigliarsene. 
        Si tratta di un gesto che non va letto banalmente come una manifestazione 
        di scontento o di delusione personale. È piuttosto l'espressione, 
        tutt'altro che remissiva, di una precisa opzione culturale e del fermo 
        proposito di continuare una battaglia politica nell'ambito della coalizione 
        di maggioranza.Rossi è stato sino a ieri una delle figure di maggiore spicco della 
        componente liberal dei Ds, via via spostatasi su posizioni dichiaratamente 
        neoliberiste. Gli anni Novanta videro il trionfo di questa corrente, che 
        - come ha scritto Franco Debenedetti in uno struggente articolo sul Sole-24Ore 
        - fece allora della «rivoluzione mercatista» la propria bandiera. 
        Le politiche del centrosinistra furono ispirate a un sedicente neoliberismo 
        temperato che si risolse, in realtà, in un'orgia di privatizzazioni, 
        nell'attacco frontale al lavoro dipendente e al sindacato (con gli accordi 
        del '92 e del '93 sulla concertazione e la fine della scala mobile) e 
        in una politica di drastici tagli alla spesa sociale.
 Fiori all'occhiello di questi interventi «modernizzatori» 
        furono, nel '92 e nel '95, le riforme della previdenza firmate da Amato 
        e da Dini. Che innalzarono l'età pensionabile, introdussero il 
        sistema contributivo, ridussero drasticamente (dal 23% al 14% nel giro 
        di sette anni) l'incidenza della spesa pensionistica sul Pil e abbassarono 
        altrettanto seccamente l'entità delle pensioni (prima pari, in 
        media, all'80% dell'ultimo stipendio, oggi attestate a malapena intorno 
        al 50%).
 Col nuovo secolo cominciò qualche difficoltà, non foss'altro 
        per la necessità di recuperare voti nell'area del lavoro dipendente 
        e in specie nei settori operai, non casualmente raggiunti dalle sirene 
        leghiste e berlusconiane. La lunga preparazione delle politiche del 2006 
        ha visto l'inevitabile riavvicinamento tra la sinistra moderata e le forze 
        di alternativa.
 Non sempre vi è stata maggiore cautela nei proclami, ma si è 
        dovuto accettare un compromesso, di cui il Programma dell'Unione è 
        uno specchio fedele. Vi si parla di liberalizzazioni, più che di 
        privatizzazioni. Si ipotizza di aprire al mercato i servizi pubblici locali 
        (il che è gravissimo), ma si rinuncia a privatizzare l'acqua. Si 
        tessono le lodi della «buona flessibilità» (co-co-pro 
        e interinali), ma si assicura di voler promuovere il tempo indeterminato. 
        E sulle pensioni si fa l'apologia della previdenza complementare (del 
        resto imposta dagli effetti della Dini), ma si promette anche di abolire 
        lo «scalone» (l'innalzamento d'un colpo dell'età pensionabile 
        a partire dal 2008) introdotto da Maroni.
 Non solo. Durante il travagliato parto della Finanziaria, per evitare 
        di perdere pezzi, il governo mette da parte le pretese più estreme. 
        Concede alle imprese i lauti benefici del taglio del cuneo fiscale (oltre 
        alle solite, cospicue regalìe), ma stralcia il ddl Lanzillotta 
        e la riforma delle pensioni (che - nelle intenzioni dei suoi fautori - 
        dovrebbe addolcire ma mantenere lo scalone). Taglia la spesa per sanità, 
        scuola e università, ma vara misure di stabilizzazione del precariato 
        nel pubblico impiego. Proprio di quel precariato per il quale Nicola Rossi 
        propone, al contrario, 100mila prepensionamenti.
 Si capisce perché la Finanziaria gli sembri, come scrive sul Mulino, 
        «il frutto di un'altra stagione»: di un tempo nel quale la 
        sinistra italiana riteneva ancora di dover tutelare gli interessi del 
        lavoro e si attardava in difesa di obsolete rigidità. E si capisce 
        perché oggi - del tutto coerentemente - decida di sbattere la porta, 
        accusando i vertici dei Ds di aver smarrito la via delle «riforme».
 Restano da fare due considerazioni. La prima è che questa decisione 
        può essere un bene per tutti se porterà con sé un 
        po' di chiarezza. Questo gran parlare di «riformismo» senza 
        mai chiarire che cosa si abbia in mente è un fattore inquinante 
        nella vita politica del paese. Rossi, Debenedetti e quanti, dentro e fuori 
        i Ds, ne condividono le proposte sono almeno espliciti nel dirsi liberali. 
        Nei loro ragionamenti il problema è lo sviluppo, non l'equità. 
        Si tratta di abbassare le tasse (poco importa se l'Italia batte ogni record 
        per l'evasione fiscale e contributiva) e di far lavorare di più 
        la gente (poco importa che la precarietà dilaghi e che le pensioni 
        dell'Inps si aggirino intorno ai 650 euro mensili). Si tratta di sbaraccare 
        lo stato per dare tutto al mercato. E poco importa che meritocrazia e 
        concorrenza senza una vera eguaglianza nelle condizioni di partenza servano 
        solo a difendere i privilegi. Qualcuno ha scritto che il disastro italiano 
        sta nel fatto che molta sinistra sta nella destra e molta destra nella 
        sinistra. Sulla prima affermazione c'è di che dubitare, ma sulla 
        seconda no. Chissà che il congedo di Nicola Rossi dai Ds non aiuti 
        in qualche modo a rimettere un po' d'ordine in questa babele.
 La seconda questione concerne i probabili contraccolpi del suo gesto. 
        Non sembra proprio l'«ammissione di una sconfitta senza rimedio», 
        come l'ha definito Gianfranco Pasquino sull'Unità. Tutt'altro. 
        Somiglia piuttosto a un grido di battaglia rivolto ai liberisti dell'Unione 
        alla vigilia del Congresso nazionale dei Ds e mentre infuriano le polemiche 
        sul Partito democratico. Non è agevole fare previsioni su chi avrà 
        la meglio poiché lo scontro è appena agli inizi. E difficilmente 
        rafforzerà una segreteria diessina accusata di abbaiare senza mordere 
        (cioè di non essere abbastanza efficace nell'interesse delle imprese) 
        e stretta tra blairisti e clintoniani, socialisti, democratici e liberali.
 
 
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