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Giancarlo Sanavio
Cooperativa sociale, "L'Iride", Selvazzano, Padova

Comunità per disabili: modelli di riferimento*

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Il mio intervento tenta di ripercorrere alcuni momenti storici degli ultimi cinquant'anni relativi alla cultura residenziale dell'area dell'handicap per dimostrare che la carenza di dibattito ha fermato le problematiche al "Dopo di Noi" mentre i bisogni e le esigenze manifestate dai disabili e dalle loro famiglie si sono evolute e necessitano di risposte nuove e innovative.

Dall'Istituto alla Comunità
Il primo modello che vorrei descrivere è quello così detto della deistituzionalizzazione che ha dato avvio ad un processo di presa in carico e di sensibilizzazione dell'opinione pubblica rispetto alla non vita negli istituti dove erano (e in molti casi ancora lo sono) centinaia di persone con problematiche diverse.
Possiamo far risalire questo periodo storico tra gli anni '70 e '90. Il modello di riferimento è quello dell'istituto che si caratterizza per:
l'entrata coatta, la persona non è considerata nella scelta della propria vita, altri decidono al suo posto per il suo bene;
la depersonalizzazione, ognuno deve adattarsi ai ritmi di vita dell'istituto, i suoi bisogni sono secondari alle regole, agli orari, alle esigenze organizzative, derivandone l'impotenza acquisita;
l'organizzazione dell'istituto è piramidale, la volontà è esterna al gruppo sia di operatori che di ospiti che si adeguano a regole stabilite da altri per il bene della struttura e dell'organizzazione, i giorni sono tutti uguali, non c'è futuro;
i costi di struttura sono alti, mentre quelli assistenziali sono bassi, i rapporti operatori utenti possono permettere la custodia, l'assistenza primaria non certo aspetti educativi o di sviluppo della personalità degli ospiti, manca una programmazione individualizzata.

Il secondo modello è quello che si prefiggono le prime comunità che inizialmente si pongono come alternativa all'istituto, tralasciando tutto l'aspetto ideologico post anni sessanta, queste comunità si caratterizzano:
per il piccolo gruppo, solitamente 6 - 8 persone,
l'organizzazione basata sul modello della famiglia, con figure di riferimento dove l'organizzazione stessa, accogliente ed attenta ai singoli bisogni, assume un ruolo terapeutico ed educativo,
le dinamiche interne del piccolo gruppo sono caratterizzate da forti relazioni interpersonali, da vita di gruppo, da decisioni prese assieme magari dopo lunghe riunioni, la persona è protagonista, elabora un suo futuro,
i costi di gestione e di struttura sono bassi, aumentano quelli relativi al personale e conseguentemente i rapporti operatori utenti sono tendenti all'uno a uno (nelle ventiquattro ore) permettendo l'elaborazione di aspetti educativi e la centralità della persona;
la comunità si inserisce in una rete di servizi, non è risposta esclusiva, le persone disabili frequentano durante la giornata altri servizi o sviluppano loro interessi;
la comunità diventa la casa delle persone che scelgono di abitarvi, diventa piano piano una scelta di vita.


Analizzando questi due modelli, anche se in modo frettoloso e superficiale, non possiamo evidenziare l'assenza totale della famiglia, nel primo caso perché alternativa all'istituto, nel secondo perché spesso è una risposta al "Dopo di Noi", l'intervento è centrato sul disabile, sui suoi bisogni, spesso la famiglia è estromessa perché ritenuta non capace di gestire il famigliare disabile o peggio, in alcune situazioni addirittura patologica, fonte essa stessa di disaggio.
Se ci soffermiamo sui dati numerici relativi al secondo modello e li leggiamo in considerazione degli obiettivi dichiarati (alternativa all'istituto) possiamo tranquillamente parlare di fallimento: l'esperienza veneta che conosco meglio parla di 100 posti attivati rispetto ai 2500 potenziali (=0.04%), dato pressoché insignificante. Se i dati li leggiamo dal punto di vista culturale e qualitativo, assumono invece un grande significato: dimostrano la possibilità di una alternativa, pongono e indicano la soluzione del Dopo di Noi.

La svolta degli anni '90
Io considero gli inizi degli anni '90 come una svolta storica, almeno concettuale, dei servizi all'handicap dove sono stati espressi bisogni diversi:
fino agli anni '60-'70 l'inserimento in istituto era consigliato, quasi obbligato, certo culturalmente approvato;
la scelta coraggiosa delle famiglie di gestirsi a casa il figlio disabile, ha portato una serie di conversioni culturali: l'integrazione scolastica, la riabilitazione funzionale territoriale, i centri educativi occupazionali diurni, i centri flessibili e/o prolungati, l'assistenza domiciliare, i progetti di domiciliarità e di vita indipendente, che hanno iniziato a mettere al Centro non il disabile ma la sua famiglia e conseguentemente le comunità residenziali non centrate sul "Dopo di Noi", ma sul "Durante Noi".

Si è cominciato a capire l'importanza della famiglia, delle sue fatiche, delle sue elaborazioni culturali, del bisogno di essere supportata e qualche volta sollevata. La traduzione di questi aspetti nell'organizzazione dei servizi residenziali porta alla conseguenza non più di una Comunità Alloggio rispondente a quando la famiglia non c'è più o non ce la fa più e quindi sparisce o espelle la persona disabile, spesso contrapponendosi ai servizi nell'ultimo grido di aiuto, ma una Comunità Alloggio per la famiglia che dia delle prospettive e sicurezze per il futuro, che possa essere fruita da subito con l'attivazione dei servizi di pronta Accoglienza o di Comunità Programmata nei quali la famiglia assume un ruolo, è presente, co-progetta, lavora sulla sua resilienza, controlla la qualità del servizio, elabora le sue ansie sul dopo di noi, si fida.
Questa nuova prospettiva, di conseguenza, porta a pensare ad un'organizzazione del servizio residenziale diversa, completamente differente dal modello istituzionale, non in alternativa alla famiglia, ai centri diurni, ma un nuovo punto e nodo della Rete dei Servizi.

La fatica e lo sforzo fatto da alcuni servizi che hanno imboccato questa strada sta a dimostrare che è possibile mettere al centro la famiglia che ha al suo interno una persona disabile che richiede un grosso carico assistenziale e che ha la volontà di accudirlo con le sue forze, di non istituzionalizzarlo, di amarlo per quello che è. Una famiglia che deve essere aiutata, sostenuta, avere punti precisi di riferimento; in questa prospettiva assume, a mio avviso, un ruolo importante l'associazionismo familiare, i gruppi di auto mutuo aiuto che devono essere ben distinti dalla gestione dei servizi, devono crescere insieme ma distinguendo i ruoli.
Credo, nella mia esperienza, che si possano raggiungere buoni risultati quando vengono distinti nettamente: la gestione del patrimonio, la gestione del servizio, l'advocacy delle famiglie e la presenza del volontariato, collegamento con la Comunità Locale, tutto inserito in un Piano di Zona per i servizi all'handicap coordinato da un Ente Locale con ruolo di programmazione.

L'impressione è che siamo in mezzo al guado.
E' ancora culturalmente presente e dominante il modello istituzionale (risposta completa) ma viene richiesto sempre di più il modello flessibile, e attualmente questo porta ad una serie di confusioni e di incongruenze:
non è la struttura che determina l'organizzazione o le prestazioni, ma è la persona che a seguito della valutazione dell'Unità Operativa Distrettuale determina il carico assistenziale e le possibili risposte;
l'organizzazione non può essere piramidale, rigida, basata sulle procedure, ma deve essere orizzontale, elastica, orientata ai risultati, garantire la centralità della persona.

Queste considerazioni portano ad un modello organizzativo delle comunità residenziali basate su alcune peculiarità tipiche: la casa, la media dei posti letto che oscilla da sei a dodici.
Non è vero che "piccolo è bello, ma costa di più". Se analizziamo attentamente i costi vediamo che a parità di retta c'è un'incidenza completamente diversa delle voci assistenziali, educative e di struttura. Nella piccola comunità l'80% dei costi è relativo al personale assistenziale ed educativo, quindi l'efficacia e l'efficienza dell'intervento è molto alta mentre nelle comunità (vedi l'esperienza lombarda dove gli ospiti sono mediamente 30) i costi di struttura incidono in maniera più rilevante.
Altro aspetto da considerare è che i piccoli gruppi si specializzano su un segmento specifico dell'utenza, quindi danno risposte più appropriate a carichi assistenziali diversi; quindi sono diverse, quindi costano diversamente.
Alcuni sostengono che è solo questione formale sui nomi (Comunità Alloggio, Gruppo Famiglia, Gruppo Appartamento, ecc. ) io credo che invece siano una questione sostanziale che richiede più elasticità anche da parte di chi tenta di regolamentare il sistema o fa le delibere d'indirizzo.


* In "Handicap, servizi, qualità della vita", Gruppo Solidarietà, 2001 (vedi link pubblicazioni)