|  Stefano Rodotà. Politica 
        prepotente In "La Repubblica", 19 luglio 2008, "Politica prepotente 
        davanti a Eluana"
 (torna all'indice informazioni) L'umana e drammatica vicenda di Eluana Englaro ha riportato al centro 
        della discussione pubblica le questioni di vita. Ma questo e' avvenuto 
        nel modo peggiore. La' dove erano necessari rispetto e misura, e forse 
        silenzio, assistiamo a grida e strumentalizzazioni. E si e' creato un 
        clima che di nuovo allontana la consapevolezza che i nuovi diritti civili 
        sono parte integrante delle politiche di inclusione e innovazione, dunque 
        della cittadinanza di questo avvio di millennio. Altrove non e' cosi', 
        mentre in Italia vi e' stato un significativo slittamento linguistico: 
        riferendosi a molti temi, non si parla piu' di diritti civili, ma di questioni 
        "eticamente sensibili". Che cosa vuol dire? Che le sconvolgenti 
        novita' legate alle innovazioni scientifiche e tecnologiche esigono una 
        riflessione pubblica che tenga conto delle trasformazioni profonde dell'umano 
        che tutto questo comporta? Che questa riflessione deve far nascere una 
        maggiore responsabilita' individuale e collettiva, una nuova coscienza 
        del limite? O che si prende congedo da un'idea dei diritti fondata sui 
        principi costituzionali, dunque sull'unica tavola di valori democraticamente 
        legittimata, per entrare in un ambiguo territorio dove l'invocazione dell'etica 
        assume caratteri autoritari, limitando l'autonomia e la liberta' delle 
        persone, e l'affermazione di "valori non negoziabili" esclude 
        la possibilita' di seguire la via democratica verso la soluzione dei problemi 
        attraverso il confronto tra punti di vista diversi, e tutti legittimi? 
        Torniamo allora sul caso Englaro, partendo dalla sentenza della Corte 
        di Cassazione dell'ottobre dell'anno scorso, ai cui principi si e' rifatta 
        la recente decisione della Corte d'appello di Milano che ha autorizzato 
        l'interruzione dei trattamenti che mantengono Eluana in stato vegetativo 
        permanente. Quella sentenza viene ora giudicata inaccettabile, addirittura 
        eversiva, perche' invaderebbe le competenze del Parlamento, si' che al 
        Senato, fatto davvero senza precedenti, si e' proposto di sollevare un 
        conflitto davanti alla Corte costituzionale perche' sanzioni il comportamento 
        della Cassazione. Se quella sentenza venisse letta senza pregiudizi, se 
        ne scoprirebbero la qualita' e il rigore dell'argomentazione, il carattere 
        analitico richiesto dalla complessita' della materia, l'apertura e la 
        consapevolezza della discussione internazionale. I giudici non hanno "creato" diritto, sostituendosi al legislatore. 
        Com'era loro preciso dovere, hanno ragionato in base a principi e norme 
        gia' presenti nel nostro ordinamento: gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione; 
        la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina del Consiglio d'Europa; 
        la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea; la legge sul Servizio 
        sanitario nazionale del 1978; gli articoli del Codice di deontologia medica. 
        Hanno richiamato sentenze della Corte costituzionale e numerosi precedenti 
        della stessa Cassazione. Un "pieno" di norme che smentisce la 
        tesi del vuoto normativo e dell'indebita supplenza. Se avessero argomentato 
        diversamente, rifiutandosi di decidere, vi sarebbe stato un caso clamoroso 
        di "denegata giustizia". E invece i giudici della Cassazione, 
        e poi quelli di Milano, hanno fatto il loro dovere si' che, con l'abituale 
        sobrieta', il padre di Eluana ha commentato la decisione della Corte d'appello 
        osservando che essa conferma la sua fiducia nello Stato di diritto.
 I giudici di Milano non hanno "condannato a morte" Eluana. Hanno 
        adempiuto al loro difficile dovere, applicando principi e norme generali 
        ad un caso concreto, cosi' come, prima di loro, avevano fatto giudici 
        di corti nazionali e internazionali, dagli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, 
        alla Germania (tutte decisioni scrupolosamente ricordate dalla Cassazione). 
        Ricordate il caso di Terry Schiavo, la ragazza americana rimasta per sette 
        anni in stato vegetativo permanente? Dopo una lunga controversia, che 
        vide l'intervento dello stesso Bush, fu proprio un giudice ad autorizzare 
        l'interruzione dei trattamenti. Il percorso seguito dai giudici italiani 
        e' limpido, addirittura obbligato. Non vi sono forzature, ma l'applicazione 
        di principi ad una situazione in cui non e' la "natura", ma 
        l'artificio tecnologico a permettere la sopravvivenza. Questi principi 
        muovono dal consenso informato, dal quale discende il "potere della 
        persona di disporre del proprio corpo" (cosi' la Corte costituzionale 
        nel 1990) e quindi l'illegittimita' di qualsiasi intervento che prescinda 
        dalla sua volonta'. Da qui l'imperativa indicazione dell'art. 32 della 
        Costituzione, che vieta qualsiasi trattamento e qualsiasi norma che possa 
        violare "il rispetto della persona umana". Siamo sul terreno 
        consolidato del rifiuto di cure, che nulla ha a che vedere con l'omicidio 
        del consenziente o l'eutanasia.
 Partendo da queste premesse, la Cassazione, con grande equilibrio, ha 
        indicato i due presupposti che legittimano l'interruzione del trattamento 
        di sopravvivenza: il rigoroso accertamento dell'irreversibilita' dello 
        stato vegetativo permanente; la possibilita' di individuare la volonta' 
        della persona sulla base di sue dichiarazioni esplicite o "attraverso 
        i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento". 
        Le critiche rivolte a questi due criteri non sono convincenti. Non mancano 
        criteri scientifici per accertamenti oggettivi dell'effettiva condizione 
        del di chi si trovi in stato vegetativo permanente. E stabilire la volonta' 
        della persona puo' essere procedimento difficile, che esige grande prudenza, 
        ma che puo' essere fondato su una molteplicita' di elementi che consentono 
        di giungere a conclusioni univoche. Due altri punti, anch'essi importanti, 
        sono stati definiti dalla Cassazione. Il primo riguarda la qualificazione 
        dell'alimentazione e dell'idratazione forzata come "trattamento terapeutico", 
        al quale si puo' rinunciare, opinione largamente condivisa dalla comunita' 
        scientifica e che sta alla base delle decisioni dei giudici di altri paesi. 
        Il secondo riguarda "l'applicazione delle misure suggerite dalla 
        scienza e dalla pratica medica nell'interesse del paziente", dunque 
        la legittimita' della sedazione.
 Scrupolo giuridico e comprensione umana riconoscono cosi' ad Eluana la 
        dignita' nel morire. Al riparo da crociate e agitazioni ideologiche, dovremmo 
        ricordare piuttosto le parole scritte nel 1970 da Paolo VI in una lettera 
        al cardinale Villot: "Pur escludendosi l'eutanasia, cio' non significa 
        obbligare il medico a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che 
        gli offre una scienza infaticabilmente creatrice. In tali casi non sarebbe 
        una tortura inutile imporre la rianimazione vegetativa, nell'ultima fase 
        di una malattia incurabile? Il dovere del medico consiste piuttosto nell'adoperarsi 
        a calmare le sofferenze, invece di prolungare piu' a lungo possibile, 
        e con qualunque mezzo e a qualunque condizione, una vita che non e' piu' 
        pienamente umana e che va verso la conclusione". Una politica prepotente, 
        che impugna la difesa della vita come una clava per negare le ragioni 
        profonde dell'umano e della sua dignita', sta perdendo il respiro necessario 
        per affrontare questioni cosi' impegnative. Il caso Englaro si trasforma 
        in occasione ulteriore nel duello tra politica e giustizia. Nel pretestuoso 
        conflitto davanti alla Corte costituzionale, che mi auguro il Senato non 
        voglia sollevare e che la Corte comunque respingera', si coglie la volonta' 
        di sovvertire legittime decisioni giudiziarie, attentando alla radice 
        all'autonomia e all'indipendenza della magistratura, vera bestia nera 
        del presidente del Consiglio. E, al di la' di questo, si coglie un altro 
        tassello della strisciante revisione costituzionale in atto, che nega 
        gli stessi principi contenuti nella prima parte della Costituzione. Di 
        questo bisogna essere consapevoli se si affronteranno in Parlamento i 
        temi del testamento biologico. Il rischio e' evidente. Quella legge puo' 
        divenire l'occasione per fare un passo indietro, per restringere diritti 
        che gia' ci appartengono. I chiarimenti sono benvenuti. Ma, ferma restando 
        la legittimita' delle opinioni e delle scelte diverse di ciascuno, nessuno 
        puo' essere espropriato della sua dignita', e non puo' essere imposta 
        una regressione culturale e istituzionale. L'alternativa e' ormai netta. 
        Le decisioni sulla vita devono essere prese sulla base dei principi costituzionali, 
        rispettando la liberta' delle persone, con gli interventi giudiziari necessari 
        per adattare quei principi alle singole situazioni concrete? O prevarranno 
        le pretese di variabili e aggressive maggioranze parlamentari, che oggi 
        si candidano a divenire padrone delle nostre vite?
 
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