DIECI anni fa venne pubblicato in Inghilterra un libro dal titolo "The
Revival of Death", traducibile come "il ritorno della morte".
La morte non era scomparsa , ma era stata socialmente rifiutata, era divenuta
la "morte negata" di cui ci ha parlato Philippe Ariès:
espulsa dai discorsi, esclusa dagli ambienti familiari, medicalizzata,
trasferita negli ospedali. Lontana il più possibile dagli sguardi,
avvolta nel silenzio, consegnata con misura al compianto. Ma non è
stato uno spontaneo mutamento della sensibilità collettiva a riconsegnarci
la morte come momento ineludibile dalla riflessione pubblica. È
stato il lento stratificarsi dei trattamenti tecnologici dei morenti a
mostrarci una morte diversa da quella alla quale eravamo abituati, e ad
obbligarci a riaprire gli occhi. Sono state le immagini terribili delle
ultime ore di Franco e Tito, ormai ridotti ad appendice disumanizzata
di apparecchiature per la sopravvivenza, a dirci che allontanare il momento
della morte non era una forma di rispetto della persona, ma un oltraggio
alla sua dignità, per una ragion di Stato che esigeva qualche ora
ancora per regolare le partite politiche aperte dalla scomparsa di un
dittatore.
Da allora la morte è ritornata tra noi, in forme sempre più
esigenti. La vicenda di Terri Schiavo sta appassionando e dividendo il
mondo, ed obbliga anche a guardare ad un caso simile di casa nostra, dove
da anni il padre di Eluana Englaro lotta per sottrarre la figlia ad una
sopravvivenza senza speranza, assicurata solo dalla alimentazione e dalla
idratazione forzata. E il mutamento del clima sociale e culturale è
testimoniato dai molti film che negli ultimi tempi ci hanno parlato della
dignità del morire, delle decisioni difficili intorno alla morte
- "Le invasioni barbariche", "Mare dentro", "Million
dollar baby".
Sono, questi, i segni di una deriva culturale che sta perdendo il valore
della vita o, al contrario, di una progressiva presa di coscienza di che
cosa significhi oggi il morire, non più l´attimo in cui ci
si congeda dalla
vita, ma un tragitto sempre più lungo, drammatico, dolorosissimo?
Poteva essere così anche prima del radicarsi e del diffondersi
di tecnologie della sopravvivenza. Ma non siamo più nella condizione
descritta da Karen Blixen narrando degli africani che portavano i morenti
sull´altra riva del fiume e, da lontano, assistevano serenamente
al loro lento spegnersi. Oggi la tecnologia può chiudere i corpi
in una prigione per un tempo senza speranza, che può divenire intollerabile.
Per questo, da decenni ormai si rifiuta l´"accanimento terapeutico",
anche nei codici di deontologia medica, e si è giunti ad attribuire
a ciascuno di noi il diritto di rifiutare le cure, che è appunto
il diritto di lasciarsi consapevolmente morire, come ha fatto poco tempo
fa una persona che, ritenendo intollerabile il vivere con una gamba amputata,
ha rifiutato l´intervento ed è morta poco tempo dopo.
Non è vero, dunque, che stiamo abbandonando il rispetto per la
vita. Vogliamo rifiutare il sostegno tecnico o farmacologico quando può
rendere la vita intollerabile.
Ci siamo riappropriati delle decisioni sul morire, ma siamo ancora esitanti
di fronte al modo in cui si esercita questo nuovissimo potere. Se Terri
Schiavo e Eluana Englaro avessero lasciato scritto che rifiutavano ogni
terapia di sopravvivenza, di questa loro volontà si sarebbe dovuto
tener conto. Ma, in assenza di una dichiarazione esplicita, possono altri,
marito o padre, decidere della vita di chi si trova in uno stato vegetativo
permanente? E l´alimentazione e la ventilazione forzata possono
essere considerate terapie di sopravvivenza, come tali rifiutabili, o
sono trattamenti che non rientrano in tale categoria (è l´argomento
con il quale i giudici rifiutano l´interruzione delle cure per Eluana
Englaro)? Il quadro giuridico è in rapido mutamento in tutti i
paesi, e la tendenza è chiaramente nel senso di ammettere sempre
più largamente la possibilità di "morire bene".
Alla fine della passata legislatura, ad esempio, una commissione nominata
dal ministro Veronesi aveva concluso nel senso di ritenere legittima l´interruzione
dell´alimentazione e della idratazione di chi si trovi in stato
vegetativo permanente: ora proprio su questo dovrà esprimersi la
Corte di Cassazione, alla quale spetta l´ultima parola sul caso
di Eluana Englaro. E la Corte d´appello di Milano, che aveva respinto
la richiesta del padre di Eluana sostenendo che alimentazione e idratazione
non sono trattamenti terapeutici, aveva tuttavia affermato che spettava
a lui il diritto di "esprimere o rifiutare il consenso al trattamento
terapeutico", riconoscendo così che, in casi come questo,
può esservi un "tutore" che decide al posto di chi è
ormai del tutto incapace. Siamo di fronte a casi estremi che, tuttavia,
devono essere valutati tenendo conto che ci muoviamo in un contesto in
cui ormai il principio di base non è quello della sopravvivenza
ad ogni costo. Il potere di decisione è nelle mani di ciascuno
di noi: abbiamo il diritto di rifiutare le cure, di lasciarci morire,
di rinunciare per il futuro alle terapie di sopravvivenza (è il
cosiddetto "testamento di vita", di cui sta tornando ad occuparsi
il Parlamento). Così stando le cose, casi come quelli di Terri
Schiavo e Eluana Englaro si collocano già nell´area in cui
è legittima la decisione di porre fine alla vita. E questo è
confermato dal fatto che, per superare la legittima decisione di un giudice,
negli Usa è stata necessaria una specifica legge.
Ma così si va nella direzione sbagliata, con una rinnovata pretesa
dello Stato di prendere decisioni che riguardano la sorte di singole persone.
Quando si è sottratto al potere del medico, e affidato al consenso
dell´interessato, il potere delle decisioni sulla propria esistenza,
si è detto che nasceva un nuovo "soggetto morale": l´individuo
non più oggetto del potere del terapeuta, ma libero nelle proprie
determinazioni. Abbiamo così stabilito che la sopravvivenza non
è una finalità da perseguire ad ogni costo. Le regole giuridiche,
allora, possono essere opportune per fissare procedure grazie alle quali
giungere alle decisioni con adeguata informazione e riflessione. Non possono,
invece, impadronirsi esse stesse della vita, imporre il dolore al morente
che invoca aiuto, negare al morente la dignità nel morire. Alla
cerimonia dell´addio non si addice un clamore mediatico mascherato
da rispetto per la vita.