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SANITA' E FEDERALISMO FISCALE *

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L'art. 10 della legge 13. 05 1999 n. 133 prevede un nuovo sistema di finanziamento della sanità pubblica all'insegna del federalismo fiscale.
Attualmente il Ssn è finanziato da due fonti: l'imposta regionale sulle attività produttive (Irap), introdotta nel 1998 e per il momento gestita dall'apparato centrale; e il Fondo sanitario nazionale (Fsn).
Il meccanismo opera sostanzialmente nel seguente modo:
si calcola il fabbisogno nazionale corrispondente all'erogazione dei livelli essenziali di tutela sanitaria e si determina la ripartizione tra regioni di tale importo sulla base della cosiddetta quota capitaria ponderata (vedasi paragrafo finale);
il fabbisogno regionale così calcolato è coperto, in parte, dal 90% del locale gettito dell'Irap e, per la parte residua, da apposito trasferimento erariale e valere sul Fondo sanitario nazionale.
L'art. 10 della citata proposta normativa prevede che il futuro finanziamento del Ssn sia:
- interamente affidato alle Regioni, salva una quota gestita a livello centrale per finalità o programmi particolari (accordi internazionali, ricerca, finanziamento Irccs);
- basato sulla complessiva finanza regionale, senza più vincoli specifici di destinazione su uno o più tributi.
Tale finanza viene in prospettiva arricchita da nuove compartecipazioni al gettito dell'Iva e dell'imposta sulla benzina nonché dal potenziamento dell'aliquota base dell'addizione regionale all'Irpef previa riduzione compensativa delle aliquote erariali; al contempo si prevede la cessazione dei trasferimenti erariali alle Regioni e si instaura un nuovo meccanismo di perequazione tramite trasferimenti interregionali effettuati a valere sulle somme derivanti dalla compartecipazione al gettito dell'Iva ed eventualmente anche a quello dell'imposta sulla benzina.
Per assicurare l'uniforme livello essenziale di tutela sanitaria, ciascuna Regione dovrebbe essere vincolata, per non più di un triennio, ad impegnare una spesa sanitaria definita in funzione della quota capitaria stabilita dal Piano sanitario nazionale; e la rimozione del vincolo dopo tale periodo transitorio dovrebbe comunque essere coordinata con l'attivazione di adeguati sistemi di monitoraggio e di verifica dell'assistenza sanitaria erogata.
A fronte del quadro normativo appena riassunto, si pongono in evidenza quattro punti essenziali da esaminare:
1. nuovo sistema di finanziamento;
2. linee di politica sanitaria da adottare in un quadro di federalismo fiscale;
3. problemi di perequazione interregionale in caso di insufficiente finanziamento del servizio sanitario in qualche Regione;
4. poteri da esercitarsi a livello nazionale in un quadro di garanzie stabili e di autonomie regionali.

L'analisi è limitata alle Regioni a statuto ordinario, nei cui riguardi si manifestano le maggiori innovazioni fiscali

IL FINANZIAMENTO DELLA SANITA' PUBBLICA

Le innovazioni finanziarie previste dal citato provvedimento normativo all'insegna del federalismo fiscale vanno giudicate positivamente.
E' positivo che l'Irap non abbia più vincoli di destinazione, anche se appare inevitabile che la sanità impieghi parte considerevole del gettito di tale imposta. Il vincolo, infatti, richiedeva che la Regione non potesse ridurre l'aliquota ma solo incrementarla e creava inoltre un indesiderato effetto psicologico inducendo a pensare che il finanziamento della sanità fosse a carico quasi esclusivamente dell'impresa anziché, come è più corretto, dell'intera collettività. L'Irap diventa ora solo una delle fonti di finanziamento e inoltre essa risulta ora manovrabile in aumento e in diminuzione, consentendo alle Regioni di avviare una politica industriale basata anche sullo strumento fiscale autonomo.
A maggior ragione appare corretta la dilatazione del ruolo dell'addizionale all'Irpef nella regionale, pensando che la massima spesa della Regione, costituita appunto dalla sanità, è al servizio degli individui e non delle imprese e costituisce forse la più significativa espressione della solidarietà sociale: è bene che tale spesa possa basarsi, almeno in parte, sul gettito dell'imposta personale, che più di ogni altra riflette i principi solidaristici. Senza contare che anche tecnicamente è positivo che la spesa sanitaria, che tende a crescere più che proporzionalmente rispetto al reddito individuale, possa contare su un canale di finanziamento che pure segue la stessa dinamica, com'è appunto il caso dell'imposta progressiva.

LA POLITICA SANITARIA IN UN QUADRO DI FEDERALISMO FISCALE

Si è detto che la completa autonomia regionale nel finanziamento della sanità si accompagnerà transitoriamente al vincolo di una spesa regionale non inferiore a quella derivante dalla quota capitaria ponderata, nella misura prevista nel Piano sanitario nazionale. Tale vincolo appare ragionevole, ma non ovvio; e la sua transitorietà impone di capire e valutare l'evoluzione spontanea del servizio sanitario delle Regioni nel nuovo quadro finanziario:
In via preliminare va osservato che il quadro tuttora vigente dei trasferimenti erariali vincolati alla sanità non crea problemi di "minore spesa" da parte delle Regioni, le quali si lamentano piuttosto dell'insufficienza dei trasferimenti stessi a fronte del fabbisogno da esse stimato. In termini più generali, quando le risorse calano dall'alto e non possono essere dirottate su obiettivi diversi da quelli prestabiliti, non sono mai eccessive agli occhi dei destinatari, semmai sono carenti. In simile contesto si forma un quadro logicamente coerente di rapporti tra centro e periferia: il potere centrale definisce le prestazioni da assicurare in tutto il Paese, valuta le risorse a ciò necessarie ed eroga in forma vincolata i fondi così valutati (e poco importa da questo punto di vista che si tratti di tutti i fondi, come avvenuto in passato; o solo dei fondi integrativi rispetto al gettito locale dell'Irap, secondo la regola introdotta nel 1998).
Non è detto che tale meccanismo assicuri i risultati finali sperati. E' evidente che in teoria possono verificarsi, e si sa che si sono verificati nella pratica, casi di insufficiente protezione sanitaria in qualche parte del territorio nazionale: precisamente laddove il grado di efficienza nella spesa risulti inferiore a quello implicito nella definizione della quota capitaria. Ma non possono, se non per fenomeni transitori di incapacità o errore, verificarsi casi di spesa inferiore alla dotazione ricevuta.
Al contrario, la fattispecie di una spesa minore di quella storica, corrisponde alla dotazione indicata dal Piano sanitario nazionale, diventa un evento possibile e forse probabile nell'approccio federalista. Varie ne possono essere le cause.
Ci può essere maggiore efficienza più che compensativa della minore spesa. E' proprio questo che ci si attende dal ricorso al federalismo: uno sforzo di buona gestione da parte del governo regionale - diventato ora responsabile di fronte ai propri governati del prelievo oltre che della spesa - tale da portare nel migliore dei mondi possibili: minore spesa e uguale o addirittura superiore tutela sanitaria; e se ciò si verificasse, il governo centrale non avrebbe che da accettare ed applaudire.
Ma i risultati migliori sono una ragionevole possibilità, un esito certo. L'autonomia di per sé può mantenere in vita i comportamenti inefficienti. Inoltre essa introduce il pericolo di una minore assistenza sanitaria dovuta a insufficiente finanziamento regionale della sanità pubblica; e ciò perché il governo regionale
- o non riesce, pur con adeguato sforzo fiscale, ad ottenere un gettito sufficiente;
- o stima che il benessere dei propri cittadini aumenti se diminuisce la protezione sanitaria pubblica in cambio di una minore pressione fiscale oppure in cambio di maggiore spesa in altri settori dell'attività pubblica;
- o addirittura stima che la salute stessa sia promossa da un mix di azioni pubbliche che contempli minore spesa sanitaria e maggiori spese per migliorare la sicurezza nei trasporti, l'educazione, le condizioni abitative e di lavoro, ecc.
Il primo caso postula un intervento di perequazione interregionale, su cui ci si soffermerà in seguito. Gli altri due implicano invece un'opposizione da parte dello Stato nell'esercizio del suo diritto-dovere di assicurare ovunque i livelli di tutela sanitaria che esso giudica essenziali. Quest'ultimo punto merita un cenno di approfondimento, perché non si può escludere che la possibilità teorica di avere più salute con minore sanità si coniughi con il desiderio politico di alcune Regioni di essere considerate come responsabili dirette della "tutela della salute" sancita dall'articolo 32 della Costituzione: con l'importante conseguenza politica che allora esse pretendono di venire controllate semmai sulla salute e non sull'organizzazione o sulla spesa sanitaria.
In termini giuridici si tratta di una posizione non sostenibile: la Costituzione, agli articoli 117 e 118, affida alle Regioni la competenza legislativa e amministrativa sull'assistenza sanitaria ed ospedaliera, non già sulla salute; ed è comunque competenza da esercitarsi, secondo il medesimo art. 117, "nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato". E non c'è dubbio che lo Stato abbia sempre interpretato e continui a interpretare come principio fondamentale del proprio agire nei confronti della salute l'erogazione di livelli di assistenza sanitaria ritenuti essenziali.
Tuttavia è anche indubbio che il fine ultimo della spesa sanitaria, cioè la tutela della salute, vada ben tenuto presente e che lo scenario federalista, che inevitabilmente porterà ad una maggiore differenziazione organizzativa tra le varie aree del paese, renda possibile, e per ciò stesso doveroso, affinare le conoscenze sul rapporto salute-sanità. Questo approccio significa in pratica monitorare, attraverso un insieme appropriato di indicatori, i risultati regionali in termini di salute: non per rinunciare al controllo dell'assistenza ma per definire politiche e verifiche sanitarie sempre più efficaci.
La possibilità di costruire un sistema di indicatori della salute è ancora controversa. La nota in appendice, redatta da Alberto Donzelli, dimostra tuttavia che lo stato dell'arte è promettente e già consente di individuare una batteria di opportuni indicatori, da valutare nella loro dinamica più ancora che nel loro livello istantaneo, definiti come segue.
Mortalità evitabile, espressa come potenziali anni di vita persi prima dei 70 anni/100.000 abitanti (secondo la definizione data dall'Ocse).
Aspettativa di vita, suddivisa per sesso,
alla nascita, definita come età media alla morte di una generazione fittizia soggetta alle condizioni di mortalità del periodo considerato,
a 40, 60, 65 e 80 anni (in ciò seguendo l'Ocse, Health data 1998).
3. Disabilità evitabile, che considera gli anni di disabilità in grado di limitare significativamente l'autonomia di un individuo (valutata in base all'international Classification of Impairment, Disease and Handicap, ICIDH) prima dei 70 anni o di qualsiasi altro traguardo consensualmente prefissato.
A tali indicatori di risultato si possono affiancare indicatori di soddisfazione rispetto ai servizi sanitari. L'esperienza accumulata in Italia con il Rapporto Eurisko suggerisce di rilevare la "qualità percepita in relazione alle prestazioni effettivamente fruite", che appare meno influenzabile dagli episodi di cattiva assistenza amplificati dai mass media rispetto all'indicatore sulla "soddisfazione per il Ssn". Bene sarebbe, comunque, rilevare anche la insoddisfazione per prestazioni richieste e non ottenute.
E' urgente eccertare la disponibilità e l'affidabilità degli anzidetti indicatori di risultato in Italia. In particolare è essenziale stimare in modo convincente la capacità di registrare velocemente i cambiamenti nelle politiche sanitarie e nelle politiche di altro tipo che hanno ricadute significative sulla salute.
Si auspica pertanto che gli organi centrali - Ministero e Agenzia per i servizi sanitari regionali - promuovano sollecitamente una verifica al riguardo, con ricerche sia teoriche e che applicate.
Tornando alla concreta impostazione del rapporto tra Stato e Regione in tema di assistenza sanitaria, si tratta allora da parte lo Stato di acconsentire a una minore spesa regionale quando essa sia legata ad un'efficienza più che compensativa e di opporsi invece negli altri casi. Ma come qualificare in pratica la situazione di minore spesa? Il legislatore ha previsto l'adozione di un sistema di parametri quantitativi e qualitativi. Il problema concreto è appunto quello individuare indicatori che permettano di esprimere in proposito un giudizio affidabile e tempestivo.
Non sembrano adeguati gli indicatori più facilmente applicabili, quelli legati alle risorse fisiche, ad esempio numero di medici, di posti letto, ecc. per x abitanti. Non solo i confronti internazionali ma anche quelli interregionali all'interno del nostro Paese dimostrano infatti che la produttività dei fattori è significativamente differenziata. E se a parità di mix dei fattori, il risultato è diverso, affidarsi a qualche requisito uniforme in termine di risorse fisiche comporta o di chiedere troppo alla Regione efficiente o di chiedere troppo poco a quella inefficiente.
Discorso analogo vale qualora si volessero adottare indicatori di prestazione - come il numero degli interventi o di visite specialistiche o di giornate di degenza per x abitanti. Anche a tale riguardo, infatti risulta un'estesa variabilità tra risultati sanitari (outcome) e attività (output), perché gli indicatori palesano le qualità medie delle varie prestazioni per abitante, non già la tempestività, l'appropriatezza e la qualità degli interventi. Si aggiunga che la sanità è un fenomeno multidimensionale, in cui segmenti assistenziali di elevato livello possono coesistere con segmenti a tutela inadeguata, il che porta ad escludere l'opportunità di affidare il giudizio ad un indicatore sintetico.
In buona sostanza, gli indicatori sono inevitabili ma soffrono di severi limiti. La soluzione non può che essere pragmatica. Occorre affidarsi ad un "sistema" di indicatori, ciascuno capace di portare un frammento di conoscenza da comporre in mosaico per avere segnali di normalità o anormalità: con l'intesa che l'avvertenza di situazione sospetta emergente dagli indicatori deve attivare un processo di approfondimento.
In questo spirito e in un'ottica di sistema, gli indicatori consigliati includono:
a) un indicatore sintetico di risorse, la spesa pro capite, appunto, che non va diminuita nell'immediato rispetto a quella prevista nel Psn e che non potrà in seguito essere inferiore a quella che nelle Regioni più efficienti corrisponda all'erogazione dei livelli essenziali di assistenza sanitaria;
b) indicatori specifici di risorse - medici di famiglia, medici ospedalieri, altri operatori sanitari, posti letto, grandi attrezzature, ecc. - da usarsi a un doppio livello: quello più alto, da considerare come soglia ragionevole, talché il mancato raggiungimento serva da segnale di allarme e provochi specifici approfondimenti analitici; e quello più basso, da considerarsi soglia di sicurezza e quindi come limite non ulteriormente abbassabile;
c) indicatori di attività - visite specialistiche, ricoveri, consumi farmaceutici, ecc. - da usarsi a doppio livello in modo analogo a quanto appena visto per gli indicatori di risorse;
d) indicatori di organizzazione, riferiti in particolare a:
- programmi di prevenzione, ad esempio screening oncologici uniformemente accettati,
- assistenza domiciliare nell'ambito dell'assistenza territoriale organizzata nei distretti,
- strutture e procedure di pronto soccorso, di chirurgia d'urgenza, di trasporto sanitario (che attengono al rapporto "involontario" tra paziente e struttura sanitaria regionale creato da un'emergenza, rapporto che merita quindi, anche in un'ottica di federalismo, una considerazione uniforme che sia capace di garantire buoni standard di protezione in tutto il Paese);
e) indicatori di accessibilità e di qualità - riferiti, ad esempio, alle modalità di prenotazione, ai giorni di attesa per le prestazioni urgenti, alla mobilità da e per le altre Regioni - capaci di misurare l'effettiva disponibilità per i pazienti di strutture e prestazioni appropriate;
indicatori di efficienza, nella forma usuale di rapporto tra attività e costo.

Questi ultimi indicatori sembrano difficilmente accettabili nello spirito dell'autonomia regionale pur in una logica di soluzione pratica. Essi implicano, infatti, che lo Stato vuole rilevare e valutare non solo le attività come proxy dei risultati e non solo le risorse come elementi di allarme in caso di livelli particolarmente bassi ma anche il modo stesso di operare dei sistemi sanitari regionali. Né vale l'obiezione che alcuni importanti indicatori di efficienza sarebbero comunque facilmente calcolabili confrontando gli indicatori sulle risorse e quelli sulle attività, poiché è diverso, sul piano dei principi e anche ai fini dell'organizzazione concreta dell'attività di rilevazione, avere delle informazioni implicite o puntare invece a rilevare obbligatoriamente informazioni esplicite sull'efficienza. In realtà, gli indicatori di efficienza, contestabili finche si rimane nella logica delle variabili proxy ai risultati, diventano pienamente giustificati se si pensa che lo Stato non si limita a tutelare i cittadini ma deve anche mettere in moto meccanismi di perequazione tra Regioni; e da questo punto di vista esso deve conoscere anche l'efficienza dei vari sistemi regionali, come ora si vedrà.

3. PROBLEMI DI PEREQUAZIONE INTERREGIONALE


Passando al problema della perequazione, va preliminarmente richiamato il preciso dettato normativo. Il citato art. 10 della legge 133/99, al comma 1, lettera d, contempla la "previsione di meccanismi perequativi in funzione della capacità fiscale relativa ai principali tributi e compartecipazioni ai tributi erariali, nonché della capacità di recupero dell'evasione fiscale e dei fabbisogni sanitari; previsione, inoltre, di un eventuale periodo transitorio, non superiore ad un ad un triennio, nel quale la perequazione possa essere effettuata anche in funzione della spesa storica, ciò al fine di consentire a tutte le Regioni a statuto ordinario di svolgere le proprie funzioni e di erogare i servizi di loro competenza a livelli essenziali e uniformi su tutto il territorio nazionale, tenendo conto delle capacità fiscali insufficienti a far conseguire tali condizioni e della esigenza di superare gli squilibri socio-economici territoriali".
Gli elementi in gioco sono quindi tre: capacità fiscale, capacità di recupero dell'evasione, fabbisogno sanitario. E' del tutto corretta la scelta di assumere come riferimento la capacità fiscale, ossia la base imponibile, e non il gettito effettivo della Regione. In pratica ciò significa che si dovrà opportunamente fissare per le entrate autonome della Regione un'aliquota standard e che si considererà come introito dalla Regione un gettito standard, pari al prodotto dell'aliquota standard per lo specifico imponibile regionale. Ne risulterà perciò premiata la Regione che applicherà aliquote maggiori e verrà penalizzata quella che applicherà aliquote minori, poiché la perequazione ignorerà il gettito in più ottenuto dalla prima così come quello in meno ottenuto dalla seconda. Sono tale profilo, quindi, la norma stimola le Regioni ad evitare rilassamenti sul fronte dello sforzo fiscale e le spinge anzi ad aumentare la pressione sui propri contribuenti.
Nello stesso spirito appare pienamente convincente la scelta legislativa di lasciare alla Regione l'eventuale aumento di gettito ascrivibile ad un recupero dell'evasione, in modo che a tale riguardo si eserciti una spinta a comportamenti virtuosi da parte del governo regionale.
Non mancano i problemi tecnici nella definizione dei valori di riferimento necessari per configurare i livelli standard delle aliquote e il livello iniziale di evasione. Nel breve periodo è ovvio che ci si baserà sui dati storici. Nel lungo periodo occorrerà probabilmente assumere riferimenti dinamici, tratti dal confronto tra dati regionali. Si tratta, tuttavia, di problemi ben noti alla teoria e alla prassi dei rapporti perequativi, sicché ne essere data per scontata la soluzione.
Quanto al fabbisogno sanitario, è logicamente necessario, oltre che praticamente inevitabile, riferirsi dapprima alla quantificazione operata dal Ministero in sede di definizione della quota capitaria, poiché essa rivela l'unica "verità" oggi nota in base alle analisi e ai dati disponibili. Ma il legislatore stesso si rende conto della provvisorietà di tale soluzione e la limita ad un periodo non superiore al triennio. Sarebbe infatti paradossale effettuare la scelta strategica del federalismo in base anche a ragioni di efficienza, e poi non ammettere che ci possono essere risparmi di spesa in sede regionale grazie ad una più oculata gestione delle risorse. Bisogna quindi pensare ad un riferimento dinamico, tratto dalla stessa evoluzione dei comportamenti delle Regioni.
Non si tratta però di realtà facilmente decifrabile, poiché i futuri dati di spesa sanitaria rifletteranno in ciascuna Regione sia il livello di efficienza che quello di tutela sanitaria, e quest'ultimo potrà essere uguale o maggiore o minore di quello corrispondente all'erogazione dei livelli essenziali e uniformi di cui parla il legislatore, senza contare che l'assistenza è un prodotto complesso, con infinite combinazioni possibili tra livelli di efficienza e di risultato nelle singole prestazioni. E' quindi prevedibile che nessuna analisi statistica darà risultati incontrovertibili circa la funzione che nella concreta dinamica dei vari sistemi regionali lega risorse a livelli essenziali di assistenza sanitaria. In pratica, dunque, il riferimento quantitativo deriverà necessariamente da qualche decisione "politica", sia pure con il supporto di studi che si auspicano sistematici e approfonditi. Un ruolo fondamentale in tale determinazione dovrebbe opportunamente essere assegnato all'Agenzia per i servizi sanitari regionali. E comunque importante chiarire lo schema di ragionamento cui tale decisione dovrebbe ispirarsi.

A questo riguardo si può considerare il fabbisogno monetario di una Regione come il prodotto tra il fabbisogno standard e un coefficiente correttivo che condensa le peculiarietà demografiche, sociali ed epidemiologiche di tale Regione rispetto alla media del sistema. Per il calcolo concreto di tale coefficiente, un metodo accettabile potrebbe far riferimento agli elementi considerati nella quota capitaria, naturalmente aggiornati a cadenza annuale. Il coefficiente da applicare ad una Regione sarà quindi dato dal rapporto tra la quota calcolata per tale Regione e la quota media nazionale.
Per il fabbisogno standard, in presenza di divari significativi nell'efficienza della spesa sanitaria tra Regioni, è evidente che non si può assumere come riferimento l'efficienza, quale che sia, della Regione beneficiaria, poiché si rischierebbe di premiare l'inefficienza. D'altra parte sarebbe irrealistico imporre il massimo livello di efficienza a Regioni che ne sono lontane per difetti strutturali non immediatamente sanabili. Nello spirito di dare ragionevoli stimoli a comportamenti virtuosi, si suggerisce, una volta cessato il riferimento alla spesa storica che la legge limita al primo triennio di applicazione della nuova disciplina, di partire dalla media e di convergere gradualmente verso un livello di efficienza più elevato che potrebbe essere opportunamente fissato al livello medio delle tre Regioni più efficienti.

4. POTERI E FORME D'INTERVENTO DELLO STATO NEI SISTEMI SANITARI REGIONALI

Si consideri da ultimo il problema del possibile intervento statale nella sfera operativa della Regione quando il comportamento regionale riveli elementi di non ottemperanza alla legge. La normativa evidenzia tre casi al riguardo.
Il primo discende da quanto sin qui detto e si collega all'ipotesi di insufficiente assistenza sanitaria; il secondo discende dal più vasto quadro dei rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali che si sostanzia nel recente "patto di stabilità interno"; e il terzo discende dall'ipotesi di mancata introduzione da parte della Regione di alcune fondamentali innovazioni organizzative in campo sanitario.
Il primo caso è regolamentato dallo stesso provvedimento che ha introdotto il federalismo fiscale, il più volte citato art. 10 della legge 133/99 che al comma 1, lettera i) dichiara che la misura dei trasferimenti perequativi e delle compartecipazioni è condizionata al rispetto di appropriati parametri quantitativi nell'assistenza erogata. Tale mancato rispetto potrebbe risultare controverso, dato il concetto più volte ribadito di un prodotto assistenziale composito che potrebbe esibire alcune componenti soddisfacenti e altre insoddisfacenti. Aiuta a risolvere il problema la prevenzione legislativa che non mette in gioco l'erogazione di trasferimenti e compartecipazioni bensì la loro misura.
Ciò esime dall'esprimere un giudizio netto in termini di risultato positivo e negativo e consente di pensare a una penalità graduata sulla gravità delle lacune assistenziali. Il che riduce la delicatezza del giudizio ma obbliga a esprimere valutazioni quantitative, sia pure in larga approssimazione, sia dal lato dei risultati sia da quello delle sanzioni.
Il suggerimento è di usare inizialmente sanzioni leggere, poco più che simboliche, ma di dare pubblicità al caso, poiché appare giusto e conveniente diffondere la consapevolezza della situazione presso quella comunità regionale di elettori-cittadini-pazienti cui deve rispondere il governo regionale sanzionato.
Il secondo caso contempla in buona sostanza una spesa eccessiva rispetto ai criteri del piano di stabilità interno introdotto dall'art. 28 della legge 448 del 23 dicembre 1998 (la finanziaria '99). E' quindi una patologia economia che può manifestarsi anche in presenza di adeguati livelli assistenziali (e al limite, in presenza anche di elevata efficienza gestionale in un servizio sanitario regionale che ha tuttavia perseguito obiettivi troppo elevati rispetto alle risorse disponibili).
Naturalmente il caso sarà più grave se contiene anche la patologia assistenziale, nel senso che non livelli alti di tutela sanitaria ma livelli alti di inefficienza hanno generato il deficit. Il caso è analizzato con precisione dal citato art. 28 della legge 448/98 per quanto riguarda l'esercizio 1999, per il quale si prevedono scadenze, modalità di accordo, sanzioni. Lo spirito di tale norma è però esteso al prossimo regime di federalismo fiscale dal Dlgs 229/99 che integra il Dlgs. Introducendovi un art. 19-ter denominato "Federalismo sanitario, patto di stabilità e interventi a garanzia della coesione e dell'efficienza del Servizio sanitario nazionale". Deriva da tale norma un'appropiata visione dinamica del problema, così articolata:
- il ministro della Sanità, sentita L'Agenzia per i servizi sanitari regionali, determina valori di riferimento relativi alla utilizzazione dei servizi, ai costi e alla qualità dell'assistenza e segnala alle Regioni gli eventuali scostamenti osservati;
- le Regioni, anche con il supporto di detta Agenzia, elaborano piani di riorganizzazione di durata non superiore al triennio;
- il ministro e la Regione interessata stipulano una convenzione che contempla le misure di sostegno all'anzidetto programma ma anche le "forme di penalizzazione e di graduale e progressiva riduzione o dilatazione dei finanziamenti per le Regioni che non rispettino gli impegni convenzionalmente assunti" e disciplina altresì, nei casi di inerzia regionale nell'attuazione dei programmi concordati, le ipotesi e le forme di intervento del Consiglio dei ministri: ai sensi dell'art. 2, e c. 2- octies del Dlgs 502/99 integrato dal Dlgs 299/99, il Consiglio, previa consultazione dell'Agenzia nonché della Conferenza Stato-Regioni, può attuare un "intervento sostitutivo, anche sotto forma di nomina di un commissario ad acta".
E' superfluo sottolineare la gravità della situazione contemplata in detta ipotesi d'intervento, poiché i destinatari della sanzione governativa sarebbero i responsabili della politica sanitaria della Regione, ossia i massimi rappresentanti della comunità regionale stessa.
Essenziale appare in tale contesto la cautela procedurale che coinvolge, sia pure per pareri non vincolanti, anche l'Agenzia per i servizi sanitari regionali e la Conferenza Stato-Regione. Ma soprattutto si spera che l'approccio gradualistico delle penalizzazioni economiche progressive serva ad evitare di arrivare all'estremo dell'intervento statale sostitutivo.
Il terzo caso di intervento è configurato dalle congiunte disposizioni dei punti 2- bis, 2- quinques e 2 - octies del 2 comma dell'art. 2 del rinnovato Dlgs 502/92. Il primo punto prescrive l'istituzione per legge regionale di una Conferenza permanente per la programmazione sanitaria e socio-sanitaria regionale, assicurandone il raccordo o l'inserimento nell'organismo rappresentativo delle autonomie locali, ove istituito. Il secondo prescrive che la legge regionale disciplini il rapporto tra programmazione attuativa locale, definendo in particolare le procedure di proposta, adozione e approvazione del piano attuativo locale e le modalità della partecipazione ad esse degli enti locali interessati.
L'ultimo punto, ossia il già citato brano sulle sanzioni, prevede, quando la Regione non adotti i provvedimenti anzidetti, il possibile intervento sostitutivo del Consiglio dei Ministri secondo la procedura sopra illustrata. Vale anche in queste ipotesi l'osservazione sulla estrema delicatezza politica dell'azione governativa, cui si aggiunge, nei riguardi della fattispecie del punto 2- quinquies sulla programmazione, la difficoltà di concepire tecnicamente un intervento centrale che non si estrinsechi in atti di gestione o nell'imposizione di norme nazionali ma detti norme procedurali e sostanziali in un ambito, quale quello, appunto, della programmazione, che rientra nell'autonomia regionale. A maggior ragione, quindi, occorre operare perché non si arrivi a tali estremi.
In conclusione, le ipotesi di intervento contemplate nella nuova normativa appaiono in linea astratta congrue alla luce del potere-dovere dello Stato di garantire a tutti i cittadini il diritto costituzionale alla salute, ispirate ad un saggio gradualismo nelle forme di azione di tipo economico, sempre delicate sul piano politico e molto preoccupanti nelle ipotesi d'intervento sostitutivo dello Stato ai poteri regionali.
Il nuovo assetto del "federalismo sanitario" ha comunque buone probabilità di evitare pericolosi scontri tra istituzioni e di portare a risultati migliori rispetto alla tradizione centralistica, purchè si sviluppi rapidamente nel Governo e nelle Regioni una cultura politica e amministrativa che sia adeguata alla nuova forma dei rapporti tra centro e periferia. Un accresciuto ruolo della Conferenza Stato-Regioni e dell'Agenzia per i servizi sanitari regionali appare pertanto essenziale per la riuscita del nuovo disegno strategico della sanità italiana.

5. LA DETERMINAZIONE DELLA QUOTA CAPITARIA

In appendice all'esame sulle implicazioni del federalismo fiscale appare opportuna una riflessione sulla quota capitaria che ha sin qui guidato la ripartizione del Fondo sanitario nazionale. E' ben vero che tale Fondo è destinato a scomparire fra poco, ma è previsto che la quota capitaria sopravviva nella forma e nella sostanza nel periodo transitorio ed è prevedibile e auspicabile, in base quanto osservato in precedenza, che essa continui oltre tale periodo ad essere un importante riferimento sostanziale nelle analisi sull'evoluzione dei sistemi sanitari regionali e nelle decisioni di politica perequativa.
Più che il dato di spesa assoluto interessa l'informazione che la formula della quota capitaria sintetizza sui rapporti tra i fabbisogni sanitari pro capite nelle varie Regioni. Da questo punto di vista non interessa esaminare le esperienze italiane fino al 1996, poiché troppo influenzate dalla spesa storica. E' solo con il riparto del Fondo sanitario nazionale per il 1997 che il legislatore italiano tenta di cogliere rigorosamente gli elementi che determinano i differenziali di spesa necessaria nelle varie Regioni. Ed è appunto ai criteri usati nella formula di quota capitaria per il riparto del Fondo 1997 che si riferiscono le osservazioni che seguono.
Ponderazione per sesso: è ragionevole considerare la variabile sesso nei limiti in cui è già presente nel riparto 1997, ossia per la classe di età centrale. Peraltro il tema merita un approfondimento sul piano metodologico, volto a chiarire la significatività o meno di differenze legate al sesso per quanto riguarda la spesa sanitaria per altre classi di età e in particolare per le classi di età elevata. Si è ben consapevoli che, pur in presenza di una diversa incidenza della spesa sanitaria per sesso, potrebbe essere irrilevante la considerazione di questo fattore qualora risultasse che la composizione per sesso tra le Regioni fosse uniforme; ma è appunto un argomento da approfondire.
Ponderazione per età: non ci sono dubbi che questo debba essere il fattore fondamentale nella ripartizione tra Regioni. Si tratta di valutare quanto fine debba essere la articolazione e come debba essere esattamente configurata. Da questo punto di vista la articolazione in 7 classi di età introdotta nel riparto del 1997 rappresenta una buona base di partenza. Si suggerisce peraltro una articolazione in linea tendenziale più fine e in particolare si ritiene che sarebbe opportuno passare appena possibile alla seguente classificazione:
0-1, 2-4, 5-12, 13-20, 21-44, 45-54, 55-64, 65-69, 70-74, 75-79, 80 e più.
Le ragioni di questa proposta stanno essenzialmente nel desiderio di cogliere in modo più aderente alla realtà i fabbisogni sanitari dell'infanzia e quelli dell'età anziana che, come è noto, sono i fabbisogni che più massicciamente si trasformano in domanda di prestazione sanitarie, sia ospedaliere che specialistico-ambulatoriali.
Si suggerisce di applicare la ponderazione per classi di età a tutta la spesa ospedaliera e non soltanto alla quota di beni e servizi, come invece è stato fatto in Italia con il riparto del 1997. E' probabile che l'aver escluso in tale riparto la ponderazione per la quota relativa al personale sia dovuto alla considerazione che il personale nel breve periodo costituisce un costo fisso. A ciò si obietta che nel medio e lungo periodo anche i costi fissi diventano variabili e che dunque è bene che la ripartizione sia fatta considerando la correlazione tra l'intera spesa ospedaliera e la domanda articolata per classi di età.
c) Per quanto riguarda le altre variabili considerate nella formula del riparto, si sottolinea la correttezza nel considerare il tasso standardizzato di mortalità secondo il metodo già applicato che valuta la mortalità nel primo anno di vita e la mortalità per il periodo 1-74 anni. Si suggerisce tuttavia di dare a questo fattore un peso che sia decrescente nel tempo, per due motivi: perché la maggiore mortalità di fatto corrisponde spesso a una minore necessità di spesa sanitaria, data la nota correlazione tra costi unitari e anzianità della popolazione; e soprattutto perché la mortalità non è un fatto completamente esogeno ma dipende anche dalla organizzazione sanitaria, ed è quindi bene che nel tempo questo fattore, nella parte legata idealmente all'offerta, tenda a scomparire per lasciare posto nei criteri di riparto ai soli fattori oggettivi.
d) Altri fattori a cui è collegato il rapporto di quote minori del Fondo, in particolare indicatori epidemiologici: vale a questo riguardo la proposta appena formulata per il tasso di mortalità e cioè che vi sia peso decrescente nel tempo dato a tali fattori.
e) Non vi sono obiezioni invece per quanto riguarda il parametro relativo alla densità di popolazione su cui al massimo è da raccomandare un approfondimento metodologico per valutare se il peso dato a questo parametro, che nel riparto per il 1997 incideva sull'1% del Fsn, sia congruo o non meriti invece una correzione.

* Documento predisposto dal Consiglio Superiore di sanità, Sezione I, Gruppo A (Ripreso dalla rivista "Politiche sociali" n. 3-4/99, p. 20).