Psichiatria e salute mentale: orientamenti
bioetici
Comitato Nazionale per la Bioetica
Sintesi e raccomandazioni (24 novembre 2000)
(torna all'indice informazioni)
- La tutela del diritto alla salute – il quale in Italia assurge a diritto
costituzionale e che deve essere inteso comprensivo della salute mentale,
implica, dal punto di vista bioetico, una preliminare riflessione sulla definizione
stessa di equo trattamento e accesso alle cure alla luce dei principi della
dignità dell’uomo. Tuttavia, definire (o ridefinire) i criteri per
un equo trattamento dei pazienti psichiatrici richiede, a sua volta, il riferimento
ad un approccio complesso che sappia contemperare il rispetto dei diritti
del paziente con la sicurezza della società. Mentre il riferimento
a tali diritti pone la questione su di un piano strettamente normativo, la
comprensione del contesto da cui questi traggono origine può giovarsi
di principi etici fondamentali e di ampio respiro quali il principio di giustizia
(inteso come obbligo per il medico, per lo psicologo clinico e per gli altri
operatori qualificati, di tener conto delle conseguenze sociali su terzi di
ogni intervento sanitario e di conciliare il bene del singolo con il bene
collettivo evitando ogni squilibrio e rispettando l’equità nella distribuzione
delle risorse e dei servizi), il principio di beneficialità (inteso
come dovere per il medico, per lo psicologo clinico e per gli altri operatori
qualificati, di promuovere il bene del malato, tutelandone la vita e la salute
anche nell’ambito della prevenzione), il principio di autonomia (inteso come
dovere per il medico, per lo psicologo clinico e per gli altri operatori qualificati,
di rispettare la libera e responsabile volontà del malato, il quale
è detentore del diritto all’informazione diagnostico-terapeutica e
all’espressione del consenso sino alla protesta del rifiuto). Va osservata,
in linea generale, una radicale modificazione del paradigma culturale del
rapporto medico-paziente. Si vanno sostituendo e affiancando al modello tradizionale
basato esclusivamente sul principio di beneficialità, quello basato
prevalentemente sul principio di autonomia, rivendicando così il primato
dell’autodeterminazione della persona in caso di malattia e di una alleanza
terapeutica che comprende, oltre alle cure, anche il prendersi cura del malato.
Non può essere sottovalutata, tuttavia, la natura asimmetrica della
relazione terapeutica e il carattere solo giuridico ed etico della parità
dei due soggetti della relazione in riferimento ai diritti personali, ferma
restando comunque un’incolmabile disparità di competenze conoscitive.
Se è innegabile infatti che una subordinazione oggettivante del malato
è eticamente inaccettabile in quanto lesiva della dignità umana,
ciò non legittima un rovesciamento della relazione, sotto pena non
solo di una discutibile sottovalutazione del patrimonio scientifico-professionale
ma anche del documento all’interesse oggettivo prioritario della tutela della
vita e della salute. Il principio delle garanzie è quindi un essenziale
punto di riferimento dell’etica medica contemporanea.
- La tutela della soggettività del malato assume, quindi, nel quadro
dell’etica medica contemporanea, un valore paradigmatico in quanto è
condizione indispensabile per la costruzione e lo sviluppo della libertà,
la quale va intesa essenzialmente come processo di liberazione che ha origine
da un’esigenza etica fondamentale della persona. La tutela della soggettività
del malato mentale ha pertanto una connotazione etica in quanto è educazione
al sentirsi e al voler essere liberi e quindi promozione della libertà
autentica. Un concetto di libertà così inteso risulta strettamente
connesso al principio di autonomia, che è riferito al rispetto assoluto
della persona. Ma ad evitare equivoci pericolosi va precisato che la tutela
della soggettività del malato non consiste nel credere che egli sia
libero (contro l’evidenza dei condizionamenti patologici di natura cognitiva
e o affettiva) bensì nell’aiutarlo a diventare libero.
Essa è finalizzata al ripristino della comunicazione,
compromessa o interrotta dal disturbo mentale, e rende pertanto possibile
l’ascolto. Aldilà delle modalità diagnostico-cliniche dell’
anamnesi, infatti, l’ascoltare e il saper ascoltare ha anche un elevato valore
etico in quanto è assunzione e riconoscimento del malato non come altro
da me ma come un altro io che dà significato al rapportarsi con lui
e quindi a me stesso. Il valore etico dell’ascolto consiste pertanto in una
scelta di auto limitazione che lo psichiatra, lo psicologo clinico e gli altri
operatori qualificati, compiono espellendo la ricorrente tentazione del narcisismo
e del sentimento di onnipotenza per collocarsi nella dimensione dell’incontro.
Per quanto concerne, infine, la complessa questione dei limiti
intrinseci al consenso informato dei pazienti psichiatrici è necessario
in primo luogo chiarire la natura graduale e mutevole della capacità/incapacità
di intendere e volere. Anche nel caso della schizofrenia va tenuto presente
che il percorso è estremamente vario e differenziato: tra i due estremi
della cronicizzazione con grave deterioramento cognitivo e rilevante disabilità
da una parte, e l’acquisizione di un accettabile condizione di salute dall’altra,
vi è una vasta gamma di sfumature ove si alternano fasi di aggravamento
e fasi remissive, o un grado accettabile di stabilizzazione ben controllata.
Tutto ciò comporta una radicale critica di due orientamenti estremi:
l’uno volto ad escludere sempre e comunque la capacità del malato mentale
a recepire correttamente l’informazione e ad esprimere un valido consenso;
l’altro connotato dall’ingenuo ottimismo in senso opposto. In realtà
va innanzitutto osservato che tra l’assoluta incapacità di intendere
e di volere, propria della demenza, e la "normalità" vi sono
una serie di gradi intermedi, dove deficit cognitivi e alterazioni affettive
possono determinarne diminuzioni ma non l’assenza. Ciò non legittima
comunque la rinuncia all’informazione ma comporta il criterio etico (ma anche
clinico) della cautela nel vagliare caso per caso se, come, quando, fornire
l’informazione e, soprattutto, una scelta puntuale delle modalità e
della misura adatta al singolo paziente in riferimento alla sua situazione
e al suo contesto bio-psicosociale ed esistenziale. A questo proposito ai
fini di una conciliazione tra principio di beneficialità e principio
di autonomia, evitando deragliamenti ed ingenuità, è fondamentale
il criterio per cui "informare è prima di tutto comunicare all’interno
della relazione".
- Tale criteri e orientamenti etici devono essere considerati, nella misura
in cui è possibile trovare corrispondenze tra il piano etico più
strettamente normativo, alla luce di alcuni diritti umani fondamentali. Va
sottolineato, infatti, che alle persone affette da disturbo/disagio mentale/affettivo
devono essere assicurati i diritti di tutti gli altri membri della comunità,
anche indipendentemente dalla concreta possibilità di esercitarli.
La particolare vulnerabilità di tali soggetti richiede infatti che
sia rafforzato per essi il riconoscimento di una piena cittadinanza il quale
deve essere concretamente difeso e promosso in primo luogo attraverso il rispetto
di alcuni diritti e/o l’adempimento di alcuni doveri fondamentali, quali ad
esempio:
- diritto a un trattamento privo di coercizioni e rispettoso della dignità
umana con accesso alle più opportune tecniche di intervento medico,
psicologico etico e sociale;
- diritto a che venga eliminata ogni forma di discriminazione (sessuale, culturale,
religiosa, politica, economica, sociale, etnica) nelle modalità di
trattamento, anche quando limitative della libertà;
- diritto alla riabilitazione e al reinserimento anche attraverso l’accesso
alla casa e al lavoro;
- diritto a non subire nessuna forma di abuso fisico e/o psichico;
- diritto alla riservatezza;
- diritto alla protezione delle proprietà personali;
- dovere di tutela dalle conseguenze di forme di autodistruttività
(autoaccuse, dichiarazioni di indegnità, etc.) nei confronti della
famiglia, dei datori di lavoro, dell’autonomia giudiziaria;
- dovere di realizzare condizioni ottimali di degenza e di comunicazione con
l’esterno nei luoghi di ricovero;
- dovere di difendere la genitorialità, da attuarsi nel pieno rispetto
del preminente interesse dei minori. A tal fine è necessario un bilanciamento
tra il dovere di beneficialità nei confronti dei pazienti e l’interesse
del minore ad una crescita sana ed equilibrata.
- Per quanto concerne invece più specificatamente la questione dell’assistenza
ai pazienti psichiatrici in Italia, è opportuna una considerazione
di carattere generale sulla legge n. 180 del 1978, poi trasferita negli art.
33, 34 e 35 del SSN. La legge n. 180 rappresenta certamente una conquista
scientifica, culturale e civile, in quanto ponendo fine all’istituzione manicomiale
e aprendo nuove strade all’organizzazione di un sistema di assistenza sanitaria
senza manicomi, ha costruito le condizioni per restituire piena cittadinanza
ai pazienti psichiatrici. Il modello italiano, patrocinato dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità, ha influenzato le politiche di salute mentale
in molti altri paesi, tese a sostituire i manicomi con forme di assistenza
territoriali più efficaci ed efficienti. Tuttavia, a distanza di oltre
venti anni dalla sua entrata in vigore, è quanto mai necessaria una
seria riflessione sulla sua concreta applicazione, al di là del pur
importante completamento della chiusura degli Ospedali Psichiatrici. Tale
chiusura, infatti, a causa dell’assenza o del cattivo funzionamento delle
strutture alternative, come per es. i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura
negli ospedali (quali strutture intermedie tra territorio e ospedali), rischia
di produrre nuovi problemi, in primo luogo sulla salute del singolo, ma anche
sull’equilibrio, sull’economia e sulla stessa salute della famiglia, a cui
rimane il maggior onere, spesso insopportabile, di sostegno del congiunto
sofferente. Infatti nei casi in cui i servizi non sono in grado di fornire
programmi terapeutico-riabilitativi territoriali realmente efficaci, con un
profondo impegno verso il paziente, le famiglie restano i referenti principali
dell’assistenza, e ciò dà luogo spesso all’abbandono o anche
all’innesco di reazioni violente, che sono talvolta all’origine di gravi fatti
di cronaca. Simili fenomeni riattivano mai sopiti pregiudizi sulla malattia
e stigmatizzazioni del paziente psichiatrico, che si prestano a facili strumentalizzazioni,
tese a far crescere nell’opinione pubblica e nel mondo politico il disagio
per la "pericolosità sociale" del malato di mente e la conseguente
richiesta di un suo maggiore controllo, che ancora una volta potrebbe essere
attuato in modo coercitivo, e quindi non terapeutico e rispettoso dei suoi
diritti.
Da un simile quadro emergono alcune questioni di fondamentale
importanza che chiamano in causa direttamente la responsabilità delle
istituzioni nell’applicazione della legge n. 180. Tali aspetti riguardano
in particolare:
- la migliore formazione degli operatori psicosociali e dei medici di base;
- la creazione di strutture riabilitative a diversi livelli di protezione;
- una maggiore attenzione per l’assistenza psichiatrica dei minori, in particolare
per il disagio mentale che si evidenzia in adolescenza;
- la creazione di strutture per i minori;
- un maggiore intervento nella prevenzione e nella diagnosi precoce;
- la presa in carico di malati gravi che rifiutano sia le cure mediche che
quelle psichiatriche e sono a rischio di comportamento violento;
- l’informazione e discussione pubblica per la lotta al pregiudizio verso
il malato mentale.
A tal proposito si raccomanda l’applicazione del Progetto obiettivo
"Tutela della salute mentale" 1998-2000. Si tratta infatti di un provvedimento
che se realmente applicato può contribuire a risolvere molti dei problemi
dell’assistenza psichiatrica ed aumenta il livello di efficacia e qualità
dei servizi, fornendo un contributo decisivo per lo sviluppo di quel "laboratorio
italiano" che nel campo della salute mentale ha destato, in molti paesi,
vasto apprezzamento e interesse. Più in particolare, il Progetto obiettivo
salute mentale 1998-2000 ha il merito di avere affrontato in modo corretto la
questione della prevenzione nei gruppi a rischio sia riguardo alla malattia
mentale che ai suoi possibili esiti suicidari, sia all’educazione alla salute
mentale, sia all’intervento precoce. Per quanto concerne in particolare la salute
mentale del bambino, merito del Progetto obiettivo è quello di avere
riconosciuto la continuità evolutiva dell’individuo dall’infanzia all’età
adulta, pur essendo carente di una previsione esplicita di interventi per pazienti
adolescenti. Va inoltre osservato che è assente una chiara distinzione
tra le aree della psichiatria, della psicologia, della neuropsicologia e della
riabilitazione soprattutto in riferimento alla differenza di obiettivi, metodi
e organizzazione degli interventi, con ricadute negative nell’assistenza anche
in ambito psichiatrico. Si sottolinea infine positivamente la delineazione di
un patto per la salute volto a coordinare ed integrare le agenzie formali ed
informali che, a vario titolo, possono contribuire a costruire un progetto di
salute mentale di comunità. Il Progetto obiettivo prevede inoltre che
l’Istituto Superiore di Sanità promuova ricerche volte a valutare l’efficacia
degli interventi di prevenzione primaria. Esso prevede infine che gli Istituti
Universitari di psichiatria assumono la responsabilità operativa di almeno
un modulo di Dipartimento di Salute Mentale, cioè la responsabilità
di tutte le strutture territoriali e ospedaliere necessarie ai servizi di salute
mentale di una comunità di circa 150.000 abitanti. Tale disposizione
è l’unica che garantisca una formazione qualificata degli operatori in
psichiatria e che possa collegare la ricerca attivata nel campo osservazionale
fornito dal territorio alle prove dell’efficacia pratica degli interventi. Tale
acquisizioni, per la loro oggettiva importanza, sono destinate nei prossimi
anni a cambiare il volto dell’assistenza psichiatrica.
- In questa prospettiva, il CNB formula le seguenti raccomandazioni di carattere
più specifico:
- destinare e utilizzare da parte delle istituzioni nazionali e regionali,
anche tenendo conto dell’importanza che l’O.M.S. attribuisce alla salute mentale,
i Fondi sanitari nazionali e regionali necessari ad istituire almeno tutti
i servizi previsti dal Progetto obiettivo;
- dare maggior diffusione a informazioni semplici e corrette sulle malattie
mentali anche nelle scuole ed evitare il rischio di interpretazioni riduzionistiche
della malattia mentale. Più in generale, si raccomandano l’equilibrio
e la comprensione della complessità bio-psicologico-sociale della malattia
mentale;
- promuovere una campagna nazionale periodica di lotta allo stigma e al
pregiudizio nei confronti delle persone affette da disturbi e disagi psichici
al fine di rendere effettivo il rispetto dell’uguaglianza, del diritto all’informazione
e la lotta alla discriminazione;
- riesaminare il concetto di "incapacità" collocandolo
nel continuum compreso tra gli estremi della normalità e della perdita
totale di ogni abilità cognitiva. Anche sotto il profilo giuridico
infatti va osservato che la maggior parte dei disturbi psichiatrici riducono
ma non aboliscono la capacità di intendere e di volere. Si raccomanda
di conseguenza la revisione degli istituti civilistici dell’interdizione e
dell’inabilitazione per realizzare forme di tutela più flessibili rispetto
alle attuali, che tengono conto delle nuove esigenze di protezione del sofferente
psichico e ne evitino la stigmatizzazione. In particolare si sottolinea l’opportunità,
alla luce dell’esperienza degli altri paesi europei, di istituire anche nell’ordinamento
italiano la figura dell’amministratore di sostegno;
- concludere il processo di superamento dei manicomi pubblici e privati.
Occorre tuttavia valutare in ogni singolo caso che le alternative nate dall’esigenza
di far fronte all’emergenza non conservino di fatto caratteristiche ancora
manicomiali. Va inoltre sottolineato come la presenza, attualmente, di 9 manicomi
privati che contengono circa duemila internati non abbia, ad oltre venti anni
di distanza dall’arrivo della de-manicomializzazione a seguito della 180,
alcuna giustificazione sotto il profilo etico e clinico;
- assicurare alla famiglia un supporto sufficiente ad assumere, in
collaborazione con l’equipe curante, se indicato, un ruolo attivo nel programma
terapeutico/riabilitativo del congiunto, in un percorso di autonomizzazione
dello stesso. Garantire una organizzazione di riferimento, anche notturno
e festivo, per le emergenze;
- svolgere un’attività continua di prevenzione primaria e secondaria
del disturbo e del disagio mentale/affettivo a cominciare dagli aspetti
biologici e affettivo relazionali partendo dal periodo perinatale e per tutto
il ciclo di vita, assicurando le migliori condizioni educative, lavorative,
di sicurezza sociale, di assistenza sanitaria; formulare una diagnosi precoce
e presa in carico dei giovani dai primi sintomi significativi; attivare qualificati
programmi nelle scuole in collaborazione con le famiglie che, senza suscitare
ingiustificati allarmi e rischi di "psichiatrizzazione", aiutino
a riconoscere e a prevenire il disagio e il disturbo mentale. Le patologie
psichiatriche dell’adulto, infatti, hanno quasi sempre le loro radici nell’età
evolutiva ed i problemi psichiatrici in età adulta saranno più
o meno rilevanti in rapporto alla qualità delle cure fruite in quella
fase della vita. Simili iniziative sono quindi indispensabili alla concreta
realizzazione del diritto alla salute (che si attua anche grazie alla prevenzione),
all’accesso alle cure, e a sostenere e promuovere la solidarietà verso
i soggetti a rischio;
- garantire una particolare attenzione ai segnali diretti e indiretti del
disagio mentale dei soggetti in età evolutiva, al fine di rilevare
il disagio sommerso; dare garanzia di diversi livelli di assistenza delle
situazioni acute e la riabilitazione per i quadri consolidati. Per l’età
evolutiva, favorire le attività assistenziali di day hospital e di
ambulatorio, limitando il ricorso alla degenza. Purtuttavia è necessario
garantire un numero adeguato di posti letto per l’emergernza-urgenza psichiatrica
e per le acuzie che richiedono assistenza continua e osservazione prolungata,
in strutture, diverse dai Servizi psichiatrici di diagnosi e cura, idonee
alle necessità assistenziali e di protezione, ma anche ai bisogni e
ai diritti specifici di questa fascia di età;
- garantire e mantenere la presa in carico dei casi più gravi e
difficili anche quando il trattamento non viene accettuato dai diretti
interessati. Si richiamano in tal senso i principi generali di tutela della
dignità del malato mentale, il parametro rischi/benefici come regola
generale dei trattamenti evitando gli estremi dall’accanimento terapeutico
e dell’abbandono;
- definire i parametri nazionali di accreditamento per le strutture per
la salute mentale. Il controllo della qualità dei servizi è
infatti esso stesso un criterio di garanzia di un equo trattamento e di congrua
allocazione delle risorse destinate alla salute. Le 65 case di cura neuropsichiatriche
(con 7149 posti letto autorizzati di cui 6144 accreditati o convenzionati,
cioè finanziati dalle Regioni) devono essere indirizzate a evitare
che si produca una cronicizzazione dei malati e a riconvertirsi, per quanto
possibile, in strutture riabilitative residenziali e aperte, che abbiano un
rapporto operativo possibilmente con uno o due dipartimenti di salute mentale;
- impegnare e sostenere i "medici di famiglia" in considerazione
dal fatto che molti pazienti si rivolgono ad essi per problemi più
o meno rilevanti di salute mentale. Il medico di medicina generale deve essere
posto in grado di riconoscere la condizione di sofferenza mentale, di saperne
valutare natura e gravità, e di potersi rivolgere ai servizi psichiatrici
sia per consulenze, sia per individuare precocemente le situazioni più
serie che richiedano interventi specialistici;
- assicurare la formazione dei medici, dei pediatri di base, degli operatori
psicosociali, degli infermieri professionali, degli assistenti sociali, degli
educatori professionali e volontari. A tal fine è necessario accrescere
le conoscenze bioetiche di tutti gli operatori e definire obiettivi minimi
affinché una formazione possa dirsi efficace ed eticamente fondate,
tra cui: ai bisogni di salute degli utenti deve essere garantita maggiore
attenzione che non alle esigenze degli operatori; deve essere mantenuta un’apertura
all’integrazione delle competenze e dei contributi delle diverse figure professionali;
devono essere forniti strumenti adeguati alla gestione, da parte degli operatori,
delle diverse dimensioni dell’individuo, della famiglia, del gruppo e della
comunità, nonché alla promozione della salute mentale nella
comunità quali l’elaborazione e realizzazione di specifici programmi
di salute mentale; particolare attenzione, inoltre, deve essere dedicata alla
ricerca e alla formazione sui problemi bioetici della tutela della salute
mentale;
- riconoscere il diritto alla sessualità dei pazienti psichiatrici
pur nell’opportunità di studiare modalità di intervento per
l’informazione e la responsabilizzazione nei confronti della loro vita sessuale;
- rivedere il sistema dei ticket sui farmaci per garantire che i farmaci
di nuova generazione (come gli antipsicotici atipici) che hanno provata efficacia
e minori effetti secondari, siano accessibili a tutti;
- rivedere la natura e i compiti delle istituzioni "Ospedale Psichiatrico
Giudiziario" e delle leggi relative e promuovere un intervento del
Ministero della Giustizia affinché attivi una convenzione con strutture
specifiche per i minori autori di reato e affetti da patologie psichiatriche.
Più in particolare, va sottolineato che gli attuali Ospedali psichiatrici
giudiziari sono sia dal punto di vista istituzionale che sanitario in netta
contraddizione con la legge n. 180 e con un moderno modo di concepire l’intervento
in salute mentale;
- prevenire, attraverso strutture e interventi adeguati, il rischio che
i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura reiterino la prassi manicomiale
con la conseguenza di favorire la cronicizzazione e non il recupero della
malattia. Più in particolare, la contenzione meccanica deve essere
superata in quanto lesiva della dignità del paziente;
- provvedere a che i Dipartimenti di salute mentale, come stabilito dal
recente DGL. 239/99, svolgono il servizio di assistenza sanitaria in carcere.
La tutela dell’integrità psico-fisica del detenuto è infatti
un elementare dovere di giustizia e, inoltre, condizione indispensabile ad
ogni possibile riabilitazione. Le carceri dovranno essere luoghi in cui la
vita quotidiana non divenga essa stessa causa di disagio e disturbo mentale
e che rendano possibile fornire aiuto psichiatrico. Va osservato inoltre che
le alternative al carcere – incluso l’affidamento al Dipartimento di salute
mentale si sono rivelate, nei paesi che le hanno adottate quali ad esempio
la Svezia, molto efficaci quali misure sostitutive alla detenzione.
Conclusioni
Le leggi della Repubblica, dalla Costituzione fino ai progetti
obiettivo "Tutela della salute mentale" affermano che lo Stato garantisce
l’esercizio del "diritto alla salute", e quindi del diritto alla
salute mentale. Ma, l’esperienza della riforma ed ancor prima quella della
legge istitutiva dei manicomi evidenziano come le leggi di per se non siano
capaci di produrre efficacia nel campo della salute mentale. E questo perché
l’esercizio del diritto alla salute mentale dipende fortemente dalle culture
e dagli assetti delle relazioni sociali nelle realtà locali, dal livello
della formazione professionale e delle competenze espresse dai singoli operatori
e dai gruppi di operatori, dagli indirizzi degli amministratori locali e del
manager. Come è apparso dalla trattazione precedente emerge che la
gran parte dei problemi inerenti alla salute mentale è gestita faticosamente
dalle persone che ne soffrono, da sole, in famiglia, con i pari, con i medici
di medicina generale, nel circuito dei medici e degli psicologi privati e
nelle dimensioni della religiosità popolare dove la ricerca della salvezza
è anche speranza di riconquistare la salute. Al servizio sanitario
pubblico si rivolgono le situazioni definite gravi, quelle più
drammatiche, dal punto di vista della sofferenza individuale e famigliare,
più allarmanti dal punto di vista sociale e a maggior rischio di isolamento
ed emarginazione. Spesso succede che i Dipartimenti di Salute Mentale (DSM)
non si facciano adeguatamente carico, nella loro complessità e per
la loro durata, delle situazioni che abbiano definito "gravi" finendo
coll’abbandonarle o alle famiglie o a un circuito assistenziale povero di
risorse quando non francamente neo-manicomiale.
E’ stato proprio per rispondere a tali questioni che, anche
in Italia, si è pensato che un’organizzazione dei servizi che si rifà
alla Psichiatria di Comunità fosse, rispetto al manicomio, più
efficace e rispettosa della dignità della persona. La Psichiatria di
Comunità comporta l’opera di un’equipe multiprofessionale insediata
in un determinato territorio, in condizione di intervenire nelle 24 ore al
domicilio, in ambulatorio, in Ospedale, in residenze a vario grado di protezione,
orientata alla riabilitazione, collegata con i Comuni e gli altri servizi
sanitari, in stretta interazione con le associazioni degli utenti e delle
famiglie, capace di accedere alle opportunità disponibili di Formazione
Professionale, lavoro. cultura assistenza, tempo libero. I trattamenti intervengono
sui livelli biologico, psicologico, sociale, pedagogico, culturale.
Per ovviare alle condizioni di abbandono delle situazioni
gravi e in generale sul tema dell’assistenza psichiatrica e alla sua cronica
carenza di risorse umane, strutturali e finanziarie, è indispensabile
un intervento forte da parte delle Regioni per un rinnovato impegno sul punto
cruciale del disagio, dando un segnale positivo alle famiglie e all’opinione
pubblica.
Dato per acquisito, ma non per scontato, che tutte le Aziende
Sanitarie abbiano reso disponibili le risorse per sostenere le attività
delle équipes multiprofessionali dei Dipartimenti di Salute Mentale
e che gli stessi dispongano degli spazi e degli strumenti necessari al loro
lavoro, la condizione più importante perché quelle che abbiamo
definito le situazioni gravi trovino una gestione rispettosa dei diritti e
della dignità della persona e delle famiglie è costituita dal
fatto che i dirigenti e gli operatori assumano la responsabilità
della presa in carico. Questo perché l’assistenza psichiatrica
si misura quotidianamente con alti livelli di sofferenza delle persone e delle
famiglie, la forte stigmatizzazione sociale delle stesse, i problemi della
tutela, della libertà di scelta e del consenso ai trattamenti fino
al limite della coazione, con l’esigenza di continuità della "presa
in carico" di lunga durata nei progetti di riabilitazione psico-sociale,
con la singolarità e la molteplicità delle concezioni del mondo
delle persone, dei gruppi e delle culture. In ragione di tali peculiari caratteristiche
e dell’obbiettivo di assicurare alla persona malata di mente i trattamenti
ottimali disponibili, Aziende Sanitarie, Organizzazioni Professionali e Sociali
Scientifiche devono garantire la continuità della formazione, la verifica
della qualità delle prestazioni di tutti gli operatori e la valutazione
degli esiti dei trattamenti a livello dei Dipartimenti di Salute Mentale e
della Medicina di Distretto. Ci si riferisce quindi non solo a Medici e psicologi,
ma anche a Infermieri Professionali, Educatori Professionali, Assistenti Sociali,
Operatori socio-sanitarie e socio-assistenziali. Nuovi obiettivi da perseguire
da parte delle Regioni e delle Aziende Sanitarie sono poi quelli dell’informazione
e della formazione rivolte agli utenti ed alle famiglie, a sostegno dell’aiuto
e di associazionismo ed un volontariato sempre più autorevoli e competenti.
In questo contesto di ragioni, i termini, federalismo,
regionalismo e localismo significano l’assunzione di responsabilità
piena da parte degli amministratori e dei manager delle Aziende Sanitarie
rispetto alle garanzie da dare per le attività di salute mentale in
tutte, nessuna esclusa, le comunità locali.
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