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Ignazio R. Marino
Credere e curare
Einaudi 2005
p. 113 , Euro 8.00

 

Tra esperienze personali e riflessioni maturate in venticinque anni di lavoro sul campo, in Europa e negli Stati Uniti, Marino guarda allo smarrimento che sembra avere preso la medicina contemporanea. Un'incertezza che rischia di snaturarne l'essenza, mettendo a dura prova anche il piú fedele dei seguaci di Ippocrate. Credere nella scienza, nelle opportunità di curare le malattie, di restituire la salute. Credere nella medicina come missione, nella quale il medico mette le proprie competenze al servizio degli altri. Ma anche credere in un Dio e nella possibilità di testimoniare la propria fede nell'esercizio della professione medica. È possibile tenere insieme tutto questo? È possibile credere e curare? Ignazio R. Marino, da medico e da credente, si interroga sui limiti di una professione in piena crisi d'identità. Stretta tra il dominio della tecnologia e la rigidità delle regole di mercato, tra la perdita di umanità nel rapporto con i pazienti e il peso dei grandi temi bioetici. Come reagisce chi ha scelto di fare il medico per conoscere le malattie ma soprattutto per volontà di impegno a favore del prossimo? La fede può avere un ruolo e contribuire ad una svolta? Quale futuro attende i medici di domani?

Estratto

“Se vuoi essere un buon chirurgo devi avere un po’ di paura”. Ho sempre tenuto presente questo prezioso insegnamento che il mio professore mi ripeteva ogni volta che tendevo a sottovalutare un intervento che avevo già eseguito in precedenza e per questo mi sembrava facile. E’ la stessa frase che ripeto oggi ai giovani che si specializzano nella mia divisione di chirurgia dei trapianti, quando mi sembrano troppo sicuri di sé. Ho paura di chi non ha paura. I dubbi e i timori sono pregi per un medico, ancora di più per un chirurgo, perché inducono a tenere alta l’attenzione e a prendere sul serio ogni dettaglio, che si tratti di un sintomo riferito da un paziente o di una piccola anomalia durante un intervento. Fermo restando che gli errori dei medici non possono essere azzerati, tuttavia il rigore, la precisione e la consapevolezza del rischio a cui si espone una persona che, con fiducia, mette la sua vita nelle mani di qualcun altro, sono aspetti che contribuiscono a restringere i margini di errore. Anche il dubbio va coltivato con costanza, perché senza di esso vi è il rischio di pensare che ogni cura sia sempre meccanicamente ripetibile, mentre invece ogni malato rappresenta una storia a sé e va considerata in quanto tale. (…)
Un buon medico è il risultato di una combinazione di fattori: solidarietà umana e sensibilità verso il dolore altrui, formazione, impegno, attitudini innate verso il sacrificio, il tutto supportato da una psicologia adatta, che dovrebbe essere valutata attentamente nel momento dei test attitudinali per l’iscrizione alla facoltà di medicina, al fine di individuare il tipo di predisposizione che ogni candidato possiede nel mettersi a disposizione degli altri e nei confronti della sofferenza umana. Nessun corso all’università e nessun compagno di lavoro con maggiore esperienza insegna quello che si prova una volta entrati a fare parte dello staff medico o chirurgico di un ospedale. Si impara a spese proprie, e a spese dei malati, confrontandosi ogni giorno con le persone che stanno male, che a volte hanno i giorni contati, che spesso soffrono in maniera indescrivibile. Nessuno insegna nemmeno a relazionarsi con i familiari dei pazienti che chiedono notizie ma soprattutto certezze, anche quando non c’è praticamente nulla di certo da riferire. In altre parole, i medici non sono preparati ed attrezzati ad affrontare la sofferenza fisica e psicologica dei pazienti, e probabilmente questo è uno dei
motivi per spiegare perché risultano così complessi i rapporti tra i medici e i familiari e, in alcuni casi, con gli stessi ammalati. Forse è proprio per questa incapacità, per questo limite, che si sviluppa la tendenza a distaccarsi emotivamente dalle vicende umane, più per eccesso di difesa che per disinteresse. (…)
La condivisione della sofferenza implica dolore ma sono sicuro che sia di grande aiuto per chi cerca nel medico non solo spiegazioni ma anche conforto umano. (…). Avendo vissuto per venticinque anni a contatto con medici, infermieri e con una popolazione di pazienti appesi ad un filo di speranza, in attesa di un trapianto, ho avuto modo di osservare la tensione crescere in periodi particolarmente difficili, quando si concentravano in reparto molti malati critici o in concomitanza di decessi ripetuti. Il nervosismo era palpabile ma bastava che uno solo dei pazienti si sentisse meglio per fare abbassare il livello di agitazione e riportarlo al di sotto della soglia di guardia. A volte si rischia di perdere il controllo. E’ un’esperienza che ho provato, tanti anni fa, quando all’Università di Pittsburgh lavoravo nel reparto di terapia intensiva del centro trapianti: trentadue letti destinati ai pazienti più critici, tutti in pericolo di vita. Per qualche incomprensibile coincidenza, per alcune settimane si erano susseguiti casi complicatissimi, alcuni pazienti erano deceduti dopo il trapianto, altri si erano spenti in attesa che arrivasse un organo per loro, ogni giorno dovevo affrontare il fallimento del nostro operato e confrontarmi con famiglie distrutte dal dolore, che apprendevano da me la perdita del loro caro. Ricordo i lunghi colloqui con una famiglia per discutere dell’interrogativo più arduo: attendere ancora o interrompere le terapie al loro familiare, che non avrebbe più potuto trarre giovamento dalle cure intensive a cui era sottoposto? Mi sentivo sempre più in difficoltà.
Una notte ci arrivò la segnalazione di un organo, un fegato, che sarebbe stato adatto per un trapianto pediatrico. Pensai subito a Francesca, una bambina di sei anni, italiana, che aveva già subito tre trapianti di fegato ma che in quel momento stava di nuovo male ed aveva bisogno di un nuovo organo perché il suo non funzionava più a causa di un rigetto cronico. Chiamai in Italia i genitori di
Francesca e ci attivammo per il trasporto della piccola paziente negli Stati Uniti, con un aereo messo a disposizione dall’aeronautica militare italiana. Andai ad aspettare il loro arrivo all’aeroporto e mi commosse il gesto di rispetto e di augurio che l’equipaggio volle dedicare a quella bambina incerta nei suoi passi, schierandosi in picchetto d’onore e saluto militare sulla pista d’atterraggio all’uscita dell’aereo.
Non c’era più tempo, dovevamo correre perché l’organo, che era stato prelevato alcune ore prima, rischiava di deteriorarsi se non fosse stato trapiantato al più presto. Arrivati in sala operatoria tutto era già pronto e l’intervento iniziò senza complicazioni. Riuscimmo a sostituire il fegato malato con quello sano e, una volta constatata la funzionalità del nuovo organo, finalmente facemmo una pausa prima di concludere il trapianto. Ricordo che stavo bevendo una tazza di caffè nella stanza dei medici quando un’infermiera venne a chiamarmi, c’era qualche cosa che non andava. Francesca non riuscì a sopportare il peso di un ennesimo intervento chirurgico lungo e complesso, il suo cuore cedette e tutti i nostri sforzi andarono persi nel nulla. Il colloquio con la famiglia fu così drammatico e commovente che anche noi medici non riuscimmo a trattenere le lacrime. Pur con la consapevolezza che era stato un miracolo riuscire a fare arrivare la piccola paziente dall’Italia in quelle condizioni così gravi e che avevamo tentato il tutto per tutto per riuscire a darle una speranza, nulla poteva essere di consolazione di fronte al fatto che non avevamo più Francesca.
La mattina successiva andai in ospedale come ogni giorno ma dovetti scappare dopo pochi minuti. Avevo la netta sensazione che se fossi rimasto ancora dentro quella terapia intensiva mi avrebbero portato fuori per ricoverarmi in un reparto di psichiatria. Non esagero. Sentivo che non ce la facevo più e chiesi ad Howard Doyle, uno dei miei migliori amici e che capiva quello che stavo provando, di sostituirmi finché non mi fossi sentito un po’ meglio. Passai una settimana lontano dai malati più critici, mi concentrai su un progetto di ricerca, mi limitai a lavorare in sala operatoria. E in questo modo, distogliendo l’attenzione da una sofferenza che non ero più in grado di gestire con le mie forze e concentrandomi su un tipo diverso di lavoro, riuscii a superare la mia crisi.
Esistono regole da tenere sempre presente e che valgono per tutti. Ogni medico, infermiere o persona che per qualunque motivo vive a contatto con gli ammalati, deve stare attento a non superare la soglia che gli permette di convivere con la sofferenza e il dolore altrui che inevitabilmente diventa anche proprio. Quando il dolore diventa insopportabile non sei più utile agli altri, anzi puoi diventare dannoso. Per fortuna nella maggior parte dei casi i medici, ed in particolare i chirurghi, “hanno un’ottima memoria selettiva”, come è solito dire con arguzia e una punta di ironia Andreas Tzakis, un famoso chirurgo dei trapianti. Quello che sembra insopportabile sul momento, penso per esempio ai medici che lavoravano con i malati di AIDS alla fine degli anni ’80, fa innescare un meccanismo per cui lo si dimentica in tempi rapidi mentre, al contrario, ci si ricorda molto bene dei successi ottenuti. Anche questa è una buona arma di difesa per sopravvivere e continuare a fare il proprio lavoro ogni giorno.