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Politiche per l’handicap nella Regione Marche
Gruppo Solidarietà
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Il 31 gennaio 1998, si è svolto a Jesi promosso dal Gruppo Solidarietà, in collaborazione con l’associazione “Il Mosaico” e ANFFAS-Jesi l’incontro su: POLITICHE PER L’HANDICAP NELLA REGIONE MARCHE, dopo la legge 18/96, in attesa del Piano socio assistenziale. L’incontro aveva l’obiettivo di riflettere sugli assetti istituzionali più adeguati per rispondere alle esigenze delle persone handicappate, sui problemi posti dai bisogni del grave handicappato intellettivo, sull’effettivo sviluppo di percorsi volti a realizzare l’integraziione lavorativa. Hanno partecipato alla tavola rotonda: Giuseppe Forti, del Centro Montessori di Fermo; Stefano Ricci, dell’équipe di ricerca LABOS, Piano Socio Assistenziale delle Marche, Marcello Secchiaroli, Consigliere regionale e presidente del Coordinamento regionale L. 18/96, Giuliano Tacchi, Dirigente assessorato servizi sociali, Comune di Pesaro. Di seguito l’introduzione a cura del Gruppo Solidarietà.

Il testo, anche se datato, viene proposto per l'attualità dei temi trattati.


Questo incontro vuole rappresentare un momento di approfondimento; vorrebbe cercare di analizzare ma anche individuare percorsi efficaci nella risposta a situazioni di handicap.
Volutamente in questa introduzione non si prende a riferimento i contenuti della legge regionale 18/'96 e della Proposta di Piano Socio Assistenziale. Vorremmo invece che a partire dai problemi quotidiani si riuscisse ad intravedere alcuni percorsi da compiere per raggiungere l'obiettivo della realizzazione di servizi di qualità. A questo punto si andrebbe poi a verificare se l'attuale normativa regionale e la proposta di Piano paiono sufficienti a raggiungere gli obiettivi prefissati.

Il tema che affrontiamo oggi ha come riferimento in particolare l'organizzazione e la modalità di erogazione dei servizi socio-assistenziali (A.D., A.E.D., Centri Diurni, Comunità alloggio), ma è necessario che tutti riflettiamo di più e meglio riguardo alle politiche riguardanti la casa, i trasporti, il lavoro, ecc..; se vogliamo da un lato che siano sempre meno gli utenti che richiedono i servizi assistenziali e dall'altro se abbiamo come riferimento una politica che si rivolga alla persona handicappata per tutte le esigenze della sua vita ed anche per non considerarla sempre e comunque come bisognosa di assistenza. E' necessario allora che i settori sopra indicati abbiano sempre come riferimento anche le esigenze delle persone in situazione di svantaggio e che su questo tutti ci impegnamo di più.

1) Titolarità dell'intervento ed effettivo svolgimento della funzione, assetto organizzativo e modalità della integrazione istituzionale e operativa

Non è inutile partire dal nostro territorio nel quale si è in presenza di una gestione associata dei servizi, con 17 Comuni, Jesi Comune delegato come capofila; tutti i Comuni associati sono compresi nell'ambito territoriale della stessa ASL, per un territorio di circa 100.000 abitanti. Servizi con gestione associata attualmente attivati: AED (per minori e adulti), 2 C.D., 2 laboratori pomeridiani. Nella gestione associata di questo servizio (in convenzione con una cooperativa) i Comuni pur avendo la piena titolarità non dispongono neanche di un'assistente sociale. Praticamente per ogni aspetto riguardante il servizio devono avvalersi di operatori di un altro Ente con tutte le difficoltà immaginabili anche quando vi è un rapporto chiaro, definito e sereno, cosa quasi sempre assente.
Si ha quindi che il Comune, titolare della funzione, per espletare la stessa deve ricorrere in maniera continuativa e permanente ad operatori di un altro Ente. Enti che possono anche riuscire ad evitare, in quanto non obbligati dalla legge, di definire gli accordi di programma.
Si può così avere il paradosso che ad es. il titolare della funzione (Comune singolo o associato) vorrebbe istituire un tipo di servizio riferito ad un bisogno (ad es. un Centro Diurno per handicappati gravi), ma nella progettazione deve ricorrere ad operatori di un altro Ente che possono avere una impostazione differente (ad es. ritengono opportuno realizzare un servizio diurno a prevalente impostazione prelavorativa, oppure ritengono non opportuna la creazione di un servizio diurno, ritenendo maggiormente adeguato il servizio domiciliare).
Presumibilmente il titolare della funzione realizzerà un tipo di intervento dettato da "tecnici" che appartengono ad un altro Ente.
C'è da chiedersi allora che cosa rimane della titolarità comunale, se questa si sostanzia quasi esclusivamente come Ente finanziatore, di un intervento che poi di fatto, non riesce a gestire e controllare. Ad es. per quale altro intervento a titolarità comunale di natura non assistenziale avviene che l'ente titolare della funzione debba ricorrere in tutte le fasi dell'intervento in maniera permanente ad operatori di un altro Ente?
Questo, secondo noi, è un problema che non può essere sottovalutato. Ne può essere risolto con l'utilizzo di scorciatoie, quali ad es. la delega totale all'Ente che ha in convenzione il servizio. Naturalmente questo problema è tanto più sentito ed, anzi tanto più pesante, quando in un territorio si supera la logica del servizio contenitore, ma si vuole andare verso una rete di servizi che risponda alla domanda "quali servizi per quali utenti, con quali percorsi". Una rete presuppone infatti qualcuno che valuti per scegliere il servizio più adeguato avendo come riferimento un progetto individuale dentro un progetto complessivo; presuppone la definizione delle regole di ogni singolo servizio (Per chi, come ci si entra, come ci si stà, se si esce: come, in quale rapporto stà con gli altri servizi, ecc....).


2) Il progetto individuale dentro un progetto territoriale. La definizione del bacino di utenza

Non si può continuare a proporre una progettualità individualizzata che deve rispondere a criteri di qualità senza avere come riferimento un progetto globale di territorio.
Ad esempio in un Comune di 300-500-3000 abitanti non inserito in un progetto associato c'è da chiedersi quale intervento di qualità può essere realizzato nei riguardi di un soggetto ultraquattordicenne con grave handicap psico-fisico con nulla autonomia. Si può parlare di intervento di qualità quando ad es. si è in presenza di una generalizzata indifferenziata richiesta di ore di Assistenza Educativa Domiciliare?
Ma anche in questo caso si ha che la responsabilità del progetto individuale fa capo agli operatori sociali di un Ente; del progetto territoriale è invece titolare un altro Ente.
Il problema maggiore che si frappone alla rete dei servizi è dato senza dubbio dalla limitatezza dell'ampiezza demografica della stragrande maggioranza dei Comuni. Su questo è chiaro che occorre arrivare alla obbligatorietà della gestione associata. Ma, come dimostra l'esperienza della Vallesina, questa non è sufficiente se non si scioglie il nodo di come consentire l'effettivo svolgimento delle competenze assegnate all'Ente titolare delle funzioni. Questo è dovuto ad un problema locale, dato dalla incapacità di strutturarsi in maniera adeguata, oppure è un problema più generale dato da una sottovalutazione delle necessità organizzative necessarie per espletare la funzione socio-assistenziale?


3) L'adeguatezza della risposta alle situazioni di gravità dopo la scuola dell'obbligo. Organizzazione dell'intervento. Servizi diurni e residenziali

Le situazioni di maggiore gravità e quindi complessità amplificano i problemi sopra delineati. Ci riferiamo in questo momento, in particolare, alla risposta a soggetti che abbiano terminato l'obbligo scolastico con deficit psico-fisico tale da ridurre in maniera notevolissima l'autonomia.
Il primo aspetto è legato alla adeguatezza della risposta, che ha necessità di un doppio requisito:
a) programma individualizzato di qualità;
b) presenza di una rete di servizi.

Se a certe condizioni (definizione dei criteri di accesso, organizzazione delle attività, rapporto con il territorio, ecc....), il Centro Diurno può rappresentare la risposta più adeguata, esso pone innumerevoli problemi di natura organizzativa e di gestione che riguardano:
A) Il progetto individualizzato sulla persona e di struttura (per chi, a quali condizioni, come si entra, ecc.....). Se il primo è di sicura competenza degli operatori della ASL il secondo dovrebbe essere del titolare della funzione. Ma, c'è da chiedersi, ha gli strumenti per farlo? Non sarebbe più opportuno che la responsabilità della struttura avesse come riferimento operatori dell'ASL? Ma a questo punto cosa rimane al titolare della funzione? Regolare questo a livello locale è troppo pericoloso, anche perchè si correrebbe il rischio di modulare la risposta nel modo più semplice (che generalmente non è il più efficace). Oppure come nel nostro territorio, trascinarsi per anni in una situazione di indefinizione.

B) Altro aspetto è quello della residenzialità, che nella regione Marche è esclusivamente sanitaria e privata convenzionata.
Anche quì ci troviamo in una situazione paradossale: finchè la persona riesce a stare a casa i servizi sono di competenza socio-assistenziale; quando questo non è più possibile il settore che diventa titolare è quello sanitario. E magari ad autorizzare il l'ingresso è un operatore che non ha mai seguito l'utente quando lo stesso usufruiva dei servizi del territorio.
Così i Comuni da un lato non "sono stimolati" a lottare contro la residenzialità in quanto questa non grava sui propri bilanci, le Aziende USL cercano al massimo di ridurla, per evitare gli oneri conseguenti.
Se si avesse come riferimento una rete integrata di servizi a partire da una lettura dei bisogni, non si avrebbe una così scarsa presenza di servizi diurni e residenziali.
Si è visto anche come la discrezionalità nella creazione dei servizi non paghi; ne è prova la mancanza dei servizi residenziali che naturalmente, come ribadito anche dalla legge quadro sull'handicap, devono essere di piccole dimensioni e inseriti nel territorio.


4) Un progetto territoriale per il lavoro

L'altro obiettivo da percorrere è una reale politica per il lavoro a favore delle persone handicappate.
Anche qui occorre ritornare alla necessità del progetto territoriale, entro il quale il lavoro non può rappresentare una semplice appendice. Non so se si può dire che in qualche territorio marchigiano questa esista. E' patetico continuare a sentire parlare di inserimenti lavorativi; quando in realtà si è in presenza esclusivamente di interventi socio assistenziali in ambiente di lavoro. Un altro ambito che secondo noi andrebbe approfondito è quello della funzione dei Centri diurni che si caratterizzano con attività lavorative. Aspetto che andrebbe approfondito perchè si rischia di fare confusione tra l'obiettivo della struttura e le attività che vi si realizzano.
I Centri diurni sono:
A) Servizi rivolti a quella fascia di utenti con grave handicap psico-fisico che terminata la scuola dell'obbligo non possono svolgere alcuna attività lavorativa?
B) Servizi rivolti a soggetti con deficit intellettivo che comunque mantengono una seppur ridotta capacità lavorativa?
C) Servizi di pre-formazione professionale per soggetti che con adeguati interventi possono svolgere mansioni semplici nei normali posti di lavoro? Può essere il C.D il luogo della Formazione Professionale?
D) Un pò di tutto quanto previsto nei punti precedenti.

A noi pare molto grande il rischio che sotto altro nome si rieditino i vecchi laboratori protetti.
Secondo noi il percorso finalizzato al lavoro non passa attraverso il Centro Diurno, che deve collocarsi come risposta di carattere educativo-assistenziale a situazioni di grave handicap intellettivo che non consente alcuna forma di integrazione lavorativa.
Una formazione professionale attenta alle esigenze delle persone handicappate e uno specifico servizio territoriale di integrazione lavorativa (il SIL), dotato di specifico personale come dimostrato dalle esperienze realizzate in altre regioni italiane possono rendere effettivamente praticabile l'integrazione lavorativa delle persone handicappate.
Diventa allora urgente che le condizioni e gli strumenti per l'integrazione si realizzino effettivamente.

Giunti a questo punto è necessario indicare alcuni punti irrinunciabili per politiche adeguate alle esigenze delle persone handicappate.

1) Definizione di un bacino di utenza minimale con successive gestioni associate. Condizioni per poter effettivamente praticare la titolarità della funzione.
2) Definizioni obbligatorie delle regole dei servizi e dei rapporti tra gli enti.
3) Definizione del ruolo e della funzione dei Centri Diurni, definendo gli standard minimi territoriali.
4) Sviluppo di una rete di piccole residenze (case alloggio) di competenza socio-assistenziale.
5) Istituzione in ogni territorio dei SIL

Programmazione e gestione dei servizi per l'handicap nelle Marche
Gruppo Solidarietà
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Un recente incontro promosso dal Gruppo Solidarietà (Jesi, 15 gennaio 2000) ha voluto riflettere sulla situazione dei servizi educativi assistenziali rivolti a persone con gravi handicap nella Regione Marche. Diamo di seguito l'introduzione a cura del Gruppo Solidarietà

L'incontro vuole essere un momento di approfondimento che ha come riferimento la promozione della qualità dei servizi per l'handicap. Vorremmo che diventasse una occasione di scambio tra tutti i soggetti interessati ai servizi; da chi li produce a chi li riceve. La scelta dei relatori non è quindi funzionale a sostenere una tesi, né intende presentare esperienze significative; vuole, solo, a partire dalle "appartenenze" di ognuno (Regione, Comune, ASL, Cooperative) "offrire" dei punti di vista utili per una riflessione che riteniamo necessaria.

A quali servizi pensiamo?
Il riferimento sono i servizi extrascolastici per persone handicappate che abbiano assolto l'obbligo scolastico: in particolare persone handicappate:
- con gravissimo handicap fisico e con nulla o limitata autonomia,
- con grave handicap intellettivo (o psico fisico) non avviabili al lavoro,
- con handicap intellettivo lieve, avviabili al lavoro (pieno e protetto).
La riflessione riguarda soprattutto i servizi educativo assistenziali (assistenza domiciliare domestica ed educativa, centri diurni, servizi residenziali), ma può essere estesa anche ai servizi, se e quando ci sono, di integrazione lavorativa. Ci "occupiamo" dunque in particolare dei cosiddetti "gravi", quelli che, a causa della gravità delle loro menomazioni necessitano di interventi permanenti di sostegno.

I soggetti che interagiscono
Tre sono i soggetti che in ogni territorio interagiscono nella "produzione" di questi servizi:
i Comuni (singoli o associati) che hanno la titolarità rispetto agli interventi;
le Aziende sanitarie, attraverso, in particolare, le Unità Multidisciplinari (UM) con le funzioni assegnate dalla legge regionale 18/96;
le organizzazioni non profit, generalmente cooperative sociali, alle quali l'Ente locale, tramite convenzione, affida la gestione degli interventi.

Vorremmo proprio porre l'attenzione, avendo sempre come riferimento la migliore risposta da dare, sull'intreccio di rapporti, competenze, responsabilità tra questi tre soggetti. Si tratta, dal nostro punto di vista, di avere maggiore chiarezza sui ruoli dei soggetti in questione così da ridurre al massimo situazioni di indefinizione. Dovremmo, forse, meglio chiarirci tutti quale significato attribuiamo ad alcune parole chiave, non in astratto ma nella quotidianità dei servizi con i quali ognuno di noi si confronta ogni giorno. Le parole sono: titolarità, funzione, valutazione, controllo, programmazione, progettazione. Ma anche alla parola: integrazione. Tutti la invocano quale condizione per il superamento di alcuni problemi "strutturali", ma paradossalmente non si riesce quasi mai a raggiungere. Alcune volte poi, approfondendo meglio, per molti integrazione ha l'unico significato di ridurre i costi attraverso il passaggio delle competenze, e delle relative spese, dalla sanità all'assistenza o viceversa (ma questo è un altro discorso).

Alcuni punti per l'approfondimento
Nel rapporto tra Ente titolare della funzione ed ente gestore fin dove è possibile che si spinga l'autonomia di quest'ultimo? Nella "programmazione di struttura", come evitare situazioni di confusione tra titolare della funzione ed ente gestore del servizio?
Si hanno quadri molto differenziati: enti locali che confondono gestione con funzione, delegando, nei fatti, l'una e l'altra. O anche situazioni opposte che riteniamo gravissime. Non più di 4-5 anni fa nei servizi del nostro territorio in carico ai comuni, operatori dell'AUSL decidevano quali potevano essere gli operatori dell'ente gestore più adatti a lavorare in un Centro diurno, senza che questo apparisse scandaloso.
Ma quali condizioni sono necessarie per mantenere capacità di programmazione e valutazione? In un quadro di grande frammentarietà dato dal grande numero di piccoli Comuni, come si può effettivamente sostanziare la funzione programmatoria? I Comuni, più piccoli con quali strumenti possono esercitare questa funzione? E' necessario richiamare la gravità della situazione di molti territori nei quali i servizi per le fasce più deboli, e tra questi quelli rivolti alle persone handicappate, hanno una caratterizzazione totalmente "residuale". Basterebbe riflettere in quanti territori della nostra regione esistono comuni associati (anche all'interno delle comunità montane) che gestiscono "reti di servizi" (centri diurni, comunità residenziali, ecc..) e non singoli servizi come l'assistenza domiciliare (sia essa domestica che educativa). Tale residualità si evidenzia anche nelle attività che vengono proposte, spesso senza alcuna finalizzazione, alcuna valutazione delle effettive abilità presenti, senza obiettivi finalizzati alla autonomia. Senza, in conclusione, alcun riferimento alla qualità della vita della persona.

Come si "raccorda", programmazione individualizzata (di competenza delle UM) e programmazione di struttura? Quale confine tra autonomia professionale dell'operatore dell'ente gestore (ma occorrerebbe anche riflettere sulla qualifica professionale dello stesso) e ruolo degli operatori delle UM?
Sulla effettiva presenza, sul ruolo e sulla funzione delle UM occorrerebbe, dal nostro punto di vista, riflettere di più, a partire dalle estesissime funzioni, assegnate dalla legge 18/96 e sostanzialmente rimaste nella proposta di modifica. Ma la riflessione deve riguardare il ruolo di queste équipe e le condizioni per esercitarlo anche per evitare il rischio che diventino un'ulteriore commissione per la "certificazione". A distanza di quasi quattro anni dalla legge; sembra che si discuta molto, forse troppo su alcuni aspetti quali ad esempio i componenti "stabili" o "mobili" delle UM, meno sulle condizioni necessarie perché la presa in carico sia effettiva e conseguentemente percepita dagli utenti. Qui si innesta il punto relativo alla programmazione educativa individualizzata. Anche qui dobbiamo chiederci quali condizioni sono necessarie per una programmazione individualizzata di qualità.
La prima condizione dovrebbe essere la conoscenza della persona. E questa non è certamente scontata. Qui subentra il problema legato al fatto che la stragrande maggioranza dei servizi - rivolti agli utenti cui facevamo prima riferimento - sono a titolarità comunale e dunque gli operatori delle UM spesso non interagiscono all'interno di questi servizi in maniera continuativa. Slegati dalla gestione dei servizi il rischio è che questi operatori di fatto abbiano un ruolo di consulenti obbligatori a prescindere dalla loro specializzazione; contemporaneamente ci sono enti gestori che al proprio interno hanno delle professionalità specializzate con una loro forte autonomia professionale. Ci sono passaggi che gli utenti sentono come obbligatori, ma non utili.
Sempre riferito ad esempio al servizio Centro Diurno interagiscono fortemente operatori di tre enti due dei quali legati da un regime convenzionale e un terzo con funzione di programmazione individualizzata.
La qualifica professionale degli operatori degli enti gestori è l'altro problema. Anche qui abbiamo una situazione molto precaria che richiama ancora la residualità di questi servizi. Oltre al diploma di scuola superiore c'è, di solito, una generica richiesta di "esperienza nel settore".
Ad esempio sarebbe utile conoscere i risultati dell'indagine effettuata dal Coordinamento regionale sulla realtà dei Centri diurni (la tipologia di utenti, le modalità di accesso, le attività, il tipo di personale, la conduzione della struttura, ecc..). Altro aspetto è l'effettiva possibilità che si abbia l'integrazione professionale tra gli operatori comunali e quelli delle Unità Multidisciplinari. Ma anche qui la condizione è che i Comuni siano capaci di esprimere figure professionali in grado di governare i loro servizi. Ritorna dunque con prepotenza il problema degli ambiti territoriali, degli operatori dedicati, della rete dei servizi e del governo della stessa.

Il quadro normativo regionale: la legge 18 e i criteri applicativi
Vorrei concludere con alcune considerazioni sui servizi extrascolastici educativo-assistenziali così come previsto dalla legge 18 e dai criteri applicativi in vigore.

La funzione del servizio Centro diurno
La legge in vigore, i criteri applicativi e la proposta di modifica assegnano al CD, compiti diversificati. Si parla di un generico handicap grave con funzioni di accoglienza, sostegno (socio-educativo e riabilitativo), supporto all'integrazione lavorativa ecc… . La previsione di tali funzioni così rischia di "proporre" un servizio contenitore per situazioni, bisogni ed esigenze molto diverse. Si capisce allora perché nei criteri della legge 18 la Regione intende per CD un servizio con i seguenti requisiti minimi di apertura: almeno 10 mesi all'anno, per 5 giorni a settimana e per 7 ore al giorno. E' evidente che molto diversa è la situazione di un Centro di pre-formazione professionale da quello che gestisce gravi situazioni di handicap intellettivo (i cosiddetti gravi). E gli altri due mesi?

L'assistenza educativa solo per i gravi handicap intellettivi che non abbiano compiuto i 35 anni
C'è da chiedersi quale servizio, quando lo da, può essere erogato da un comune di 1000 o 3000 abitanti ad una persona del suo comune che abbia un grave handicap intellettivo se non l'assistenza educativa. E non si capisce perché a 34 anni una persona può ricevere un'operatore "specializzato" e l'anno dopo un addetto all'assistenza. Non si capisce allo stesso modo perché se la stessa persona va in un CD ha diritto di ricevere un intervento educativo e se rimane a casa, per i più vari motivi no. Vale la pena ricordare che in diverse esperienze regionali di CD si è andati sempre più ad esaurimento di figure assistenziale a favore di figure educative; nella consapevolezza della rilevanza educativa di interventi definiti assistenziali. Ugualmente, non si può condividere la scelta di destinare l'AED solo a soggetti con handicap intellettivo. La valenza educativa dell'intervento è un patrimonio da non perdere; passare dall'AED all'AD significa avere due figure professionali completamente diverse.

Promuovere reali gestioni associate e destinare i CD ai più gravi.
E' evidente che il motivo delle scelte dei criteri è esclusivamente di natura economica. Ma allora non si comprende perché la Regione in questi anni non ha fortemente incentivato gestioni associate (si veda la scarsissima differenza percentuale di contributo tra comune singolo e comune associato), capaci di governare reti di servizi. In questo modo la grandissima parte della richiesta di educativa domiciliare non avrebbe più senso di esistere in quanto confluirebbe all'interno dei Centri socio educativi, perni importanti nella rete dei servizi.