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Appunti n.123 (articoli principali)
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Quale volontariato per la nostra società
Giuseppe Pasini - Presidente Fondazione “Zancan”, Padova
Due aspetti del volontariato stanno riaffacciandosi alla riflessione culturale, in rapporto a due problemi emergenti. Il primo aspetto riguarda l’identità del volontariato soprattutto nel contesto del “non profit”; il secondo concerne la sua capacità di difendere i diritti dei poveri, in un momento di crisi dello Stato Sociale.
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I due aspetti sono stati oggetto di approfondimento, in un seminario di studio promosso nello scorso aprile a Monteortone (PD) dalla Fondazione E. Zancan, al quale hanno partecipato rappresentanti dei centri di coordinamento nazionali e dei gruppi più significativi del volontariato operante in Italia.

L'identità
Il problema dell'identità del volontariato non è nuovo: emerse fin dal primo convegno nazionale organizzato a Napoli della Caritas Italiana nel settembre 1975. All'interrogativo 'chi è il volontariato?', fu data, una definizione presentata come 'essenzialmente provvisoria' ed esclusivamente orientativa, dal momento che - si disse - il volontariato è un fenomeno magmatico, in continua evoluzione, proteso quasi ad inseguire l'evoluzione della società, per adattare il suo servizio ai bisogni emergenti.
"Volontario - questa fu la definizione provvisoria di Napoli - è il cittadino che, adempiuti i suoi doveri di stato (famiglia, professione...) e quelli civici (vita amministrativa, politica, sindacale...), pone se stesso a gratuita disposizione della comunità. Egli impegna prioritariamente sul territorio le sue capacità, i mezzi che possiede, il suo tempo, in risposta creativa ai bisogni emergenti. Ciò, attraverso un impegno continuativo di servizio, di coscientizzazione della comunità, di intervento politico, attuato preferibilmente a livello di gruppo".
Si tratta di una definizione che nel corso degli anni - coerentemente alla dichiarata provvisorietà del volontariato - ha subito diverse evoluzioni, modifiche, integrazioni, soprattutto in rapporto alla distinzione tra 'volontari' e 'volontariato', e in rapporto alle tre funzioni complementari del volontariato: il servizio diretto alle persone, il servizio sociale ossia di coscientizzazione e responsabilizzazione della comunità, l'impegno politico, ossia il contributo per realizzare un diverso assetto legislativo, amministrativo, gestionale dello Stato.

Ma quali sono i motivi che spingono a riscoprire oggi l'identità del volontariato? Se ne possono cogliere almeno tre:

- anzitutto negli ultimi anni, si è diffusa una notevole confusione tra volontariato e le varie articolazioni del Terzo settore: associazionismo (educativo, sportivo, del tempo libero ...), cooperazione sociale, forme di auto-aiuto (alcoolisti anonimi, associazioni di famiglie con subnormali...), fondazioni, espressioni varie di autogestione (scuole materne gestite da famiglie...), ecc. Un sintomo di questa confusione è costituito dal balletto delle cifre sulla consistenza numerica del volontariato. La Fondazione Italiana del volontariato, che è probabilmente il centro di ricerca più attrezzato in materia, parla di circa mezzo milione di volontari, considerando tali le persone che impiegano almeno cinque ore settimanali di servizio volontario; la ricerca della Doxa del settembre '98 affermava che in Italia operano circa 9 milioni di volontari; l'inchiesta multiscopo condotta dall'ISTAT, da come risultato la cifra di 3.700.000 volontari. E' problematico decidere quale cifra risponda o si avvicini di più alla verità. Si deve concludere pertanto che esistono idee molto divergenti sull'identità del volontariato.
E' significativa, in proposito, l'intervista rilasciata dal Prof. Franco Garelli ad Avvenire il 12 febbraio c.a., a proposito dei dati F.I.Vol. "Le ricerche serie ci dicono che i volontari, compresi quelli non assidui, si aggirano sui 3,5-4 milioni. Questi circa 450.000 (della F.I.Vol.) rappresentano lo "zoccolo duro. E' possibile però,- concludeva Garelli,- che circolino cifre sballate o gonfiate. Nel nostro paese proliferano istituti, definiti impropriamente di ricerca, abituati a modellare i risultati sulla volontà di chi commissiona il sondaggio".
- Il secondo motivo nasce dal dubbio che la confusione tra 'volontariato' e 'altro', non sia casuale, il che significa che alcune realtà 'non profit' trovano utile essere inserite nel contenitore generico del volontariato pur non essendo volontariato. Lo si può arguire dai diversi modi con cui viene recepito da alcune componenti del Terzo settore l'interrogativo sull'identità del volontariato. Si registrano almeno due posizioni:
a) alcuni non colgono nemmeno il perché del problema, non capiscono cioè perché alcuni organismi reclamino la distinzione tra quello che è volontariato e quello che volontariato non è, dal momento che - affermano - l'unica cosa importante è la crescita della solidarietà, non importa attraverso quali strade - volontariato, cooperazione sociale, associazionismo etc. - si persegua questo obiettivo;
b) altri tendono a rifiutare una distinzione tra volontariato e "non profit", in quanto vi vedono quasi un tentativo di gerarchizzare le varie espressioni del Terzo settore. Un sintomo di questa sensibilità è emerso nell'assemblea del C.N.C.A. di gennaio u.s. dove uno dei consiglieri regionali ha dichiarato a nome del gruppo di lavoro che presiedeva, di rifiutare la definizione di "volontariato puro" contenuto nella relazione del presidente Albanesi", anche per la connotazione etica dell'aggettivo 'puro', quasi che vi fosse dell'impurità nelle attività delle altre organizzazioni del 'non profit'. Ciò che rende volontaria una prestazione, un servizio, una organizzazione, l'attività di una persona, sta nella modalità di approccio, nell'atteggiamento culturale, nella capacità di 'rimettere al centro', nel prendersi cura di chi sta male, nell'approccio di condivisione ai problemi degli altri, nella presa in carico dei bisogni del territorio e della gente che vi abita...; non qualifica assolutamente l'identità del volontario la retribuzione/non-retribuzione delle prestazioni" (CNCA Informazioni n. 12.2.99).

- Un terzo motivo che sollecita l'approfondimento sull'identità del volontariato, scaturisce dal fatto che nell'attuale clima culturale, tutto impregnato dalla logica del profitto, della produttività, dell'efficienza economica, si va diffondendo una mentalità - ammantata di razionalità e di pretesi sostegni scientifici - tendente a scoraggiare il volontariato tacciandolo di anacronismo, paternalismo, assistenzialismo e incoraggiare invece altre forme di privato sociale, quali l'impresa non profit, le forme di mutuo aiuto, la 'banca del tempo', etc. con la giustificazione che l'anima della solidarietà sociale è costituita dalla mutualità e dalla reciprocità, le sole caratteristiche in grado di restituire dignità alle persone, attivandole come soggetti sociali 'alla pari', e mettendo così le fondamenta di un'autentica società dei diritti.

Il seminario di Monteortone ha ribadito due principi:
a) anzitutto la gratuità, intesa come assenza di guadagno, economico o di altro tipo, è caratteristica costitutiva del volontariato: esso si presenta quindi come lavoro spontaneo non retribuito. E' stato precisato, peraltro che questa connotazione va sempre collegata con l'attenzione alle fasce deboli e con l'obiettivo della promozione umana, nel senso che il servizio spontaneo e gratuito del volontariato è sempre in funzione dell'impegno solidale per la promozione umana e l'integrazione sociale di tutti i cittadini, a partire delle persone gravemente svantaggiate;
b) inoltre la gratuità non va separata dallo 'spirito di gratuità' intesa come oblatività, altruismo, attenzione della persona, fedeltà ai propri doveri, spirito di servizio... e che dovrebbe sia ispirare la vita ordinaria e professionale del volontario, sia tendenzialmente diventare un valore caratterizzante l'intera società. E' stata accettata e intesa in questo senso perciò l'affermazione fatta da Livia Turco, Ministro degli Affari sociali, in occasione dell'ultima Conferenza nazionale sul volontariato tenuta a Foligno: "La gratuità, che è la sostanza e la ragione d'essere del volontariato, deve diventare sempre più parte di un'etica pubblica condivisa".

Il ruolo
Il secondo nodo da sciogliere, riguarda il ruolo del volontariato nell'attuale contesto socio culturale e socio politico. La caratterizzazione promozionale del servizio e l'attenzione preferenziale alle fasce deboli, vanno infatti calate nell'attuale crisi dello Stato sociale, nella quale non solo si registra una crescita numerica delle famiglie povere e delle famiglie con pesanti difficoltà economiche, ma anche tendenze politiche di ulteriore restrizione della spesa pubblica e una preoccupante permanenza dei tassi di disoccupazione, che non potranno non avere ricadute sul piano delle disuguaglianze sociali. Il rischio da evitare è
che il volontariato, pur con tutte le buone intenzioni, assuma di fatto il ruolo di ammortizzatore sociale delle inevitabili conflittualità, riducendo il proprio intervento a pura assistenza.

Le linee di presenza-azione del volontariato, nel quadro di questa situazione, secondo la riflessione della F. Zancan, sembrano essere le seguenti:

- il volontariato deve proporsi sempre più come testimone e come stimolo di un metodo di lavoro, che imposta i servizi e le risposte, a partire da una lettura attenta e seria dei bisogni e delle domande delle persone. Concretamente, di fronte ai bisogni nuovi e alle aree non tutelate, esso deve dimostrare capacità di dare visibilità a tali bisogni, ideare e promuovere nuove risposte, coinvolgere le istituzioni pubbliche. Di fronte ai bisogni tradizionali e alle risposte consolidate, il salvaguardare la centralità delle persone, significa impegnarsi per facilitare l'accessibilità ai servizi realizzando, ove necessario, una forma di accompagnamento, inoltre creare una specie di monitoraggio dal basso per verificare l'effettiva fruibilità dei servizi, eliminando o almeno riducendo la piaga dei 'diritti negati';

- una seconda linea di presenza-azione riguarda la concertazione intesa anzitutto come capacità di lavorare assieme tra associazioni di volontariato e con soggetti 'non profit' e poi, coerentemente anche come capacità di lavorare con l'Amministrazione pubblica.
Uno dei nodi da sciogliere è la collaborazione tra volontariato e Terzo settore, che deve avvenire nella chiarezza e nella massima disponibilità. Non si tratta di concepire le varie articolazioni del Terzo settore in termini di gerarchia. Il volontariato non è migliore delle cooperative sociali o delle associazioni educative...: semplicemente svolge funzioni diverse con caratteristiche proprie.
Ma il grande obiettivo della costruzione di una società solidale esige la più sincera e costruttiva collaborazione. Il Prof. Ardigò, presente al seminario di Monteortone, si esprimeva in questi termini: "L'integrazione tra i due poli del Terzo settore - volontariato e cooperazione sociale - è dunque il tema strategico del prossimo futuro. E ciò senza presumere di far prevalere nettamente una polarità sull'altra. Potremmo dire che il nuovo compito richiede una produzione di senso personale per il dono ai non abbienti e ai marginalizzati anche dentro le strutture dell'impresa sociale da rendere sempre più efficienti e competitive. Reciprocamente coloro che sono impegnati nel volontariato per prestazioni di servizio libero, personale e non pagato sarebbe grave che non si curassero, nel proprio impegno e nel lavoro entro le istituzioni, di contribuire al mix tra dono e razionalità... Essere capaci di fare sistema sociale complesso significa cercare di far convivere la crescita dell'economia sociale, per gli imput dei vertici delle imprese non profit (anche col supporto in futuro delle fondazioni ex bancarie) e insieme salvaguardare le basi morali del volontariato più diffuse nelle piccole comunità di volontari, spesso a forte motivazione religiosa e interpersonale. Si tratta di un compito assai arduo anche se è tutt'uno con la vivacità umana della crescita".

- Una terza linea riguarda la diffusione della solidarietà e anche della coscienza democratica. L'inserimento di singoli cittadini in un organismo di volontariato consente loro di esercitarsi oltre che nella solidarietà anche nel confronto democratico, sviluppando relazioni interpersonali, che costituiscono un valore aggiunto al servizio. Questa esperienza deve riversarsi anche all'esterno, diventando spinta ad uscire dall'esclusione, attivazione di una rete amicale, promozione di solidarietà di base.
A fronte di processi di disgregazione sociale, che colpiscono anche ceti non svantaggiati, come pure di forme di esclusione connesse a eventi non immediatamente connessi alla scarsità di reddito (vedi la diffusione di malattie fortemente invalidanti come il morbo di Alzheimer), sempre più si dovrà creare cultura solidale e assumere una funzione di coesione sociale puntando su tutto ciò che unisce i ricchi e i poveri, i malati e gli ancora sani, i normali e i disagiati psichici, su un 'continuum' non ideologico, ma concretissimo qual è il nostro comune destino umano. Questo non vuol dire rimuovere l'analisi delle cause o la giusta gerarchia delle priorità, ma puntare all'obiettivo del coinvolgimento, sempre più largo, della comunità locale.

I gravi in classi ordinarie: verso quale integrazione
Giancarlo Cottoni - Centro documentazione per l’integrazione scolastica, Parma
L’intervento che segue è stato svolto dall’autore al Seminario nazionale sull’integrazione degli alunni in situazione di gravità promosso dal Ministero della Pubblica Istruzione a Bergamo nei giorni 6-8 maggio 1999
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Anche se nel corso della mattinata è già stato disegnato per questo convegno uno sfondo assai ampio di principi, di valori, di osservazioni della realtà, di problemi, per i quali la ricerca propone la soluzione o ancora sta tentando di risolvere, è inevitabile per me, nell'affrontare il tema della scolarizzazione nelle classi ordinarie degli alunni in situazione di gravità, aggiungere a ciò che è stato detto alcune considerazioni, che pertanto costituiscono una premessa alla mia comunicazione.
Si tratta di una serie di considerazioni molto rapide, la cui brevità è giustificata solo dal fatto che vengono rivolte a degli addetti ai lavori, ai quali basta ricordare con pochi cenni concetti che sono loro noti.

La scuola di tutti
Il problema dell'integrazione scolastica delle persone in situazione di gravità non è un problema particolare, ma è il problema dell'integrazione nella scuola, osservato al massimo livello di tensione ideale, di competenza professionale, di creatività innovativa, di efficacia nel funzionamento dell'istituzione.
Se si distingue l'integrazione degli alunni in situazione di gravità, fino a isolarla dall'integrazione di tutti gli altri alunni, si va verso una divisione, che non solo è orientata a limitare ulteriormente il campo delle relazioni di alunni ai quali bisogna offrire l'intero campo delle possibilità relazionali al fine di identificarvi poi quelle che sono efficaci per loro, ma anche alimenta la tentazione di applicare questa discriminazione ogni volta che l'impreparazione professionale, che resiste al cambiamento, giudica come situazioni di gravità quelle che per sua responsabilità non riesce di fatto ad affrontare.
Dovremmo essere tutti d'accordo che fra la realtà e l'utopia, indispensabile per vivere e per operare coerentemente, l'unico collegamento accettabile è quello della continua ricerca delle forme di attuazione dei principi e dei valori propri dell'utopia.
Il pericolo che corriamo in questo convegno è quello di non fare assieme e coerentemente questa ricerca, ma di procedere al confronto fra utopie diverse, con la giustificazione apparente e insufficiente che confrontiamo fatti diversi che accadono nella realtà, come se per il solo fatto che accadono fossero in qualche modo veri e buoni.
Non è da sottovalutare la tentazione, che coglie chiunque, quando, per carenza o inadeguatezza della ricerca, risulta molto difficile la realizzazione dei principi dell'utopia scelta: la tentazione di negare la validità di quei principi.
Non dobbiamo lasciare che una realtà non sollecita a rimuovere le inadempienze ma anzi disponibile ad accettarle come dati normali, abbia il potere di suggerire un cambio di utopia.
Non dobbiamo accettare come unici spazi a disposizione per operare, quelli lasciati liberi da queste inadempienze, contro le quali invece dobbiamo impegnarci, perché diminuiscano e spariscano, rimuovendo in tal modo gli ostacoli che ci negano la libertà di realizzare quello che abbiamo riconosciuto come e buono.

Interventi speciali in contesti normali
Noi mutiamo dalla cultura e dalla prassi mediche l'orientamento a concentrare i problemi nello spazio e nel tempo, come accade nei luoghi di cura (ospedali, cliniche, cronicari, ecc.), per rendere più facile la soluzione.
Questo orientamento non è valido nei rapporti pedagogici di insegnamento-apprendimento, che hanno bisogno di un contesto relazionale il più ampio possibile, proprio per potere arrivare ad identificarvi le forme relazionali più efficaci per ciascuno.
Dobbiamo a quell'orientamento pedagogicamente invalido l'errore di trasferire alla struttura la specialità degli interventi necessari per certi alunni.
Occorre invece poter fare interventi speciali nel contesto scolastico normale e ordinario.
Usiamo e spesso confondiamo due accezioni del concetto di gravità, ora attribuendolo alle carenze funzionali e relazionali dell'alunno, come fa il medico, ora giudicando la difficoltà della scolarizzazione, come devono fare i docenti.
Dovrebbe essere chiaro che è il giudizio dei docenti quello sulla base del quale devono essere prese tutte le decisioni riguardanti la scolarizzazione.

La definizione di soggetto in situazione di gravità, tentata anche dalla Legge 104/92, va approfondita.
Riproporrei volentieri la definizione stilata a Parma nientemeno che nel 1986. Dicevamo allora che per riconoscere una situazione di gravità, è necessaria una triplice constatazione:

a) compromissione molto grave delle funzioni e ridottissimo livello delle capacità di relazione, in particolare di comunicazione;
b) possibilità di recupero funzionale molto incerte o, inesistenti allo stato attuale della ricerca scientifica, medica, psichiatrica, psicologica; quindi notevole difficoltà nell'invenzione di forme nuove di relazione e di comunicazione, molto diverse da quelle consuete;
c) necessità assoluta, continua e completa di personale assistente, che compensi la mancanza di autonomia personale.

Queste condizioni devono essere riscontrate tutte; mancandone anche una sola si può parlare di difficoltà anche notevole di scolarizzazione, ma non di situazione di gravità.
Non mi soffermo sul quesito se un ragazzo in situazione di gravità sia scolarizzabile o no, dal momento che il quesito è platealmente legato a un unico modo limitato, selettivo, superato e inaccettabile di concepire la scuola.
Quanto più è difficile il tentativo di integrazione, soprattutto quello con una persona in situazione di gravità, tanto più deve essere alto il livello di integrazione fra gli altri componenti del gruppo: nella scuola fra i docenti, gli altri allievi, l'altro personale coinvolto.
Consigli di classe, teams di docenti, classi di allievi, che non vivono fra loro i principi e i valori dell'integrazione, non aiuteranno veramente nessuno a realizzarla; una classe di allievi non guidata e sostenuta nel vivere l'integrazione di gravità; i rapporti non integrati fra capo di istituto e docenti, fra personale docente e non docente, fra scuola e famiglie degli alunni, costituiranno ostacoli, a volte decisivi, per la riuscita dell'inserimento di un allievo in situazione di gravità.
Per un alunno in situazione di gravità l'apprendimento è possibile: naturalmente non un apprendimento prefissato, ma solo quello che appartiene al suo personale potenziale di sviluppo.
E' dunque necessario approfondire il concetto di apprendimento, mettendo in luce la limitatezza della concezione mediamente circolante, oltretutto di fatto attuata al di fuori di ogni efficace controllo.
Ricordo che l'apprendimento è la crescita del livello di competenza nell'aver rapporto con sé, con gli altri e con la realtà.
Il possesso delle nozioni non è il fine dell'apprendimento: esse infatti sono solo lo strumento, col quale si aiuta l'allievo ad elevare la sua competenza relazionale e comunicativa, che può crescere per la sinergia delle sue capacità di relazione in via di sviluppo continuo lungo la linea, che va dal livello già raggiunto a quello ulteriormente raggiungibile, cioè lungo la successione degli obiettivi di crescita personale man mano identificati.
La presenza di un alunno in situazione di gravità è un'occasione straordinaria, che si offre a tutte le persone presenti sul posto, per vivere e attuare certi valori: conoscenza e attenzione alla sofferenza e ai bisogni degli altri, compassione intesa come partecipazione alla sofferenza, comprensione e accoglienza, disponibilità all'aiuto, pazienza, solidarietà, confronti formativi, ridimensionamento degli impulsi e dei timori, valorizzazione corretta della realtà propria e di quella altrui, ecc.
Sono i valori in carenza o in assenza dei quali l'educazione o è debole o è inesistente.

L'inserimento scolastico di un alunno in situazione di gravità
La difficoltà di questi inserimenti, che, come dicevamo, si presenta al suo massimo livello, esige che la scuola sia agile nell'adeguarsi e nel rinnovarsi.
Coloro che devono indurre e guidare questo cambiamento devono dettagliatamente identificare ciò che nella scuola deve cambiare.
E' dunque molto importante vedere bene quei tratti della realtà scolastica media, che favoriscono, rallentano o impediscono il suo rinnovamento.
Purtroppo abbiamo solo il tempo di fare un cenno a ciò che ostacola il rinnovamento.
Nella scuola sono correnti prassi ben riconoscibili, molto diffuse, riconoscibili a vari livelli, espressioni di distorsioni ideologiche, comportamentali e operative, che abbassano il livello qualitativo del servizio globale reso alla società, ostacolano l'integrazione di tutti, e in particolare quella di un alunno in situazione di gravità.
Osservando la silenziosa, anestetizzata e larga accettazione di queste prassi, vedo il pericolo che esse siano considerate normali e valide, linee legittime della struttura scolastica e tratti voluti e autorizzati del suo funzionamento.
Esse invece devono essere oggetto dei nostri interventi riformatori: basta rimboccarsi le maniche e incominciare ad agire.
Posso solo fare un elenco di titoli:
- la conduzione burocraticamente centralizzata dell'istituzione, ora forse in via di correzione;
- la mancanza di flessibilità nella struttura e nel funzionamento dell'istituzione scolastica;
- la prevalenza della competenza amministrativa su quella pedagogica;
- la preparazione di base mediamente inadeguata dei docenti e dei dirigenti;
- l'inadeguata loro selezione in vista dell'assunzione;
- la mancanza all'interno della scuola di una struttura di formazione continua in servizio;
- l'impiego part-time del personale scolastico;
- la mancanza di conoscenza approfondita degli alunni, sia sul versante delle funzioni che su quello delle capacità di relazione;
- la tendenza alla selezione nel dialogo con gli allievi, per la mancata comprensione di quanto si potrebbero valorizzare le capacità di tutti, con una conduzione individualizzata e personalizzata;
- la confusione fra classificazione e valutazione;
- la confusione fra programmazione e piano di lavoro e programmazione individualizzata;
- la centralità della lezione trasmissiva, la fatica nell'uso di forme multimediali di comunicazione, la carenza della ricerca come metodo di studio;
- la carenza della verifica e del controllo a ogni livello, nonché la quasi assenza della consuetudine di documentare ciò che si è vissuto, perché altri possono conoscerlo.

L'inserimento di un alunno in situazione di gravità deve essere graduale.
E' doveroso programmare una sorta di "marcia di avvicinamento" dell'alunno in situazione di gravità verso la sua classe, prevedendo due modalità che si integrano e in certi momenti si sommano:

il momento della classe che va verso di lui: compagni vanno a trovarlo nel vano dove è ospitato all'inizio, con tempi previsti e forme organizzative. Può essere che sia bene iniziare con visite di singoli compagni o di piccoli gruppi, fino ad arrivare a visite dell'intera scolaresca.
Significati delle visite, atteggiamenti da tenere, interventi individuali e collettivi, valutazioni collegiali dell'accaduto in ogni visita, ecc., tutto dovrà essere chiarito, avendo presente l'alto valore formativo, culturale, sociale ed umano di queste straordinarie occasioni.

Il momento dell'alunno in situazione di gravità, che si avvicina alla sua classe con gradualità di tempi e di forme di presenza.
La classe può fermare il suo lavoro inizialmente per i tempi brevi di una visita del compagno in situazione di gravità; ma può arrivare anche a svolgere insieme con lui una particolare attività, che rientri significativamente nella programmazione individualizzata, oppure farlo partecipare, se è possibile, a un momento semplicissimo della vita della classe, quando questo permetta o la partecipazione dello spettatore o la sua partecipazione con un contributo estremamente semplice.
Esistono forme semplici di partecipazione, anche solo assistendo al lavoro degli altri, se questi desiderano vicino a sé chi, nell'essere sul posto e vedendo e sentendo in qualche modo, realizza tutta la partecipazione possibile per lui.

Si afferma e si raccomanda da più parti che la scuola sia attrezzata, e si è arrivati da tempo a un concetto di struttura scolastica attrezzata, come se fosse diversa dalle scuole ordinarie.

Ci siamo chiesti quali debbano essere queste attrezzature e ne abbiamo tentato l'elenco essenziale:
- eliminazione delle barriere architettoniche;
- un apposito vano opportunamente arredato per ospitare l'alunno in situazione di gravità nei momenti di riposo e di assistenza;
- un assistente ausiliario;
- un docente di sostegno particolarmente preparato;
- un contesto scolastico (altri alunni e docenti) preparati a collaborare;
- un accordo di programma fra scuola, AUSL, Ente locale, famiglia dell'alunno in situazione di gravità;
- un P.E.I. particolarmente curato e su misura;
- un servizio igienico adatto;
- servizi di trasporto e di mensa, se necessario;

Questa attrezzatura non può essere invocata per caratterizzare un centro attrezzato: infatti è l'attrezzatura di ogni buona scuola.
E' invece necessaria una politica scolastica nazionale e locale, che progetti un piano interistituzionale per attrezzare tutte le scuole, a partire via via da quelle che inseriscono alunni in situazioni di gravità.

L'apprendimento personalizzato degli alunni in situazione di gravità
Occorre che l'individualizzazione dell'insegnamento sia attuata al massimo livello nelle classi dove sono inseriti alunni in situazione di gravità.
In queste classi deve essere normale l'uso di tutte le metodologie e le tecniche didattiche proprie dell'individualizzazione.
La formazione di base e in servizio dei docenti e dei dirigenti non deve prescindere da queste basilari conoscenze professionali.
Se vogliamo ricordare qualche articolazione di questa metodologia, ricordo:
- il funzionamento per gruppi;
- il funzionamento a classi aperte;
- la ricerca come metodo di studio, non dimenticando che vera ricerca è quella che trova la soluzione di un problema;
- la problematizzazione delle nozioni;
- l'uso di proposte organizzate a difficoltà graduate;
- il mutuo insegnamento fra gli allievi;
- molte esperienze a contatto diretto con la realtà;
- l'uso di materiali vari e di molte strumentazioni: dai sussidi audiovisivi, a quelli informatici, alle macchine per la duplicazione, ecc.
- l'adozione delle strumentazioni proprie delle attività che un tempo chiamavamo integrative: fotografia, costruzioni, pittura, coltivazioni, allevamenti, misurazioni, raccolte, ceramica, falegnameria, ecc.., che rendono la vita nella scuola più naturale e più ricca di stimoli formativi e di occasioni di rapporti semplici, adatti ai ragazzi.

Teniamo ben presente che una classe che lavora, usando queste strumentazioni, accoglie molto meglio la presenza problematica di un compagno in situazione di gravità, per la maggiore ricchezza di occasioni di rapporto fra tutti i presenti.
Il numero degli alunni della classe che comprende un alunno in situazione di gravità, deve essere opportunamente contenuto, in modo da rendere possibile una completa individualizzazione, anzi la personalizzazione del rapporto insegnamento-apprendimento.
Occorre che i docenti, nell'ambito della conoscenza degli stadi di sviluppo dell'intera età evolutiva, e con particolare attenzione a quelli della primissima età, abbiamo ben chiari i livelli di crescita, che mediamente vengono raggiunti dagli altri alunni prima dell'entrata a scuola o durante la frequenza dei livelli scolastici precedenti.

In quale scuola fare tutto questo

Le cose dette non dovrebbero lasciare dubbi nel rispondere alla domanda in quale scuola fare tutto questo.
Ma vediamo di articolare la risposta, tenendo presenti osservazioni, indicazioni, consigli e pressioni, che arrivano da più parti.
Anche quando vengano riconosciuti come momenti di autentico apprendimento quelli che ho elencato nel libretto che sto per darvi (distribuito ai partecipanti del convegno, ndr), molto spesso viene posta la domanda se debbano essere considerati come obiettivi della scuola, quando la maggioranza degli altri ragazzi vive quegli apprendimenti in momenti precedenti la scolarizzazione.
La domanda è rinforzata dallo sfondo di una lunga tradizione della scuola, che, pensando e curando come suoi gli apprendimenti legati alla crescita intellettuale, arriva a teorizzare che essi siano il suo compito esclusivo.
La tesi che sorregge le proposte di apprendimento che vi propongo, è quello di ritenere che la scuola abbia l'obbligo di rispondere ai bisogni di apprendimento, quali che siano, di ogni ragazzo obbligato e frequentarla.

Ma, anche accettando questa tesi, c'è chi si chiede se questo obbligo istituzionale debba essere assolto dalla scuola ordinaria o da una scuola particolare (ad es. speciale).
L'alternativa poggia, come già detto, sulla mancata distinzione fra specialità dell'intervento e specialità della struttura.
Nessuno può disconoscere che per un allievo in situazione di gravità, come del resto per tanti altri con problemi di crescita, occorrano interventi speciali: le limitazioni relazionali e comunicative esigono infatti interventi su misura, insolite attenzioni, scelte di metodologie alternative, adozione di forme diverse di organizzazione, uso di particolari attrezzature e sussidi, ecc.
Questi interventi più accurati hanno la loro piena giustificazione solo in quanto finalizzati a permettere la convivenza nello stesso contesto relazionale di alunni anche molto diversi come capacità; cioè solo in quanto abbiamo come scopo l'arricchimento e la facilitazione delle relazioni e delle comunicazioni fra tutti.
Quando invece vengono fatti dopo che in una certa misura, a volte molto grande, si sono isolati gli alunni che hanno bisogni particolari, e fra essi gli alunni in situazione di gravità, questi interventi perdono lo scopo principale, per il quale si doveva pensarli, quello appunto di stimolare le capacità di relazione, e tendono ad assumere le caratteristiche di una terapia, orientata a condurre, per quanto possibile, verso una sorta di guarigione relazionale o a gestire una patologia relazionale ritenuta cronica.
Non dimentichiamoci che il problema dell'integrazione non ha il suo luogo nelle persone, e in particolare in quelle con problemi, e fra esse quelle in situazione di gravità, ma compare nei rapporti fra le persone: nella scuola, nei rapporti che questi alunni hanno con gli altri e in quelli che gli altri hanno con loro.
Limitare o negare questi rapporti, sottraendovi certi alunni, significa limitare o negare le loro possibilità di integrazione.
E' appunto ciò che accade, come dicevamo, quando la specialità degli interventi viene trasferita alla struttura, nella quale essi vengono fatti, quando cioè si pensa che gli alunni in situazione di gravità invece che nelle scuole ordinarie debbano stare in scuole speciali.
E' invece nelle scuole ordinarie, ripeto, che deve esserci la possibilità di fare interventi speciali per ogni alunno che abbia particolari bisogni di sostegno alla crescita e all'apprendimento: come appunto deve essere fatto al massimo livello di impegno anche per gli alunni in situazione di gravità.

Conclusione
Tutte le considerazioni svolte fin qui convengono nel riconoscere che la scolarizzazione degli alunni in situazione di gravità è tanto possibile efficacemente quanto la scuola possiede un'alta valenza educativa e cura che le relazioni fra tutti evolvano verso una profonda integrazione.
Con una appassionata volontà-capacità di educare, cioè di aiutare la crescita, e con la ricerca continua di più alti livelli di integrazione, possono essere avviati a soluzione i problemi e gradualmente superate le difficoltà, che oggi incontriamo nella scuola, quando viene frequentata da alunni in situazione di gravità.
Questa alta valenza educativa e questo livello di integrazione fra tutti non ci sono sempre nella scuola consegnataci dalla tradizione.
E' questo il dato centrale che deve impegnare la nostra attenzione e la nostra volontà di rinnovamento.
Se la scuola non si rinnova come capacità formativa globale, i problemi comparsi per l'emergere di nuovi bisogni educativi diventano insolubili e le difficoltà insuperabili: perché mancano le idee, la competenza, la collaborazione interprofessionale e interistituzionale, la capacità di usare sussidi e attrezzature adatte.
E' una verità che riguarda tutti gli alunni e dunque l'intera società.
Con grande impegno di tutti dobbiamo liberarci dal rischio di rimanere schiacciati dalla contraddizione di una scuola che ha visto decretato l'obbligo di tutti a frequentarla, anche quelli in situazione di gravità, e che non si prepara rinnovandosi, per rispondere ai bisogni di crescita di tutti i suoi allievi.

Le preoccupanti proposte di Legge in materia di adozione e riforma dell’assistenza.
Donata Micucci - Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie, ANFAA
Riportiamo di seguito l’intervento di Donata Micucci al convegno promosso dall’ANFAA a Genova lo scorso 29 maggio, “Adozione in Pericolo - Esigenze e diritti dei bambini senza famiglia; le proposte di legge in discussione al Parlamento”
(indice)
L'entrata in vigore della legge 431/67 perfezionata poi dalla 184/83, legge attualmente in vigore, ha introdotto nel nostro ordinamento l'istituto giuridico dell'adozione legittimante, rivoluzionando il concetto di adozione esistente fino ad allora poiché ha messo al centro dell'interesse i diritti dei bambini e non più i bisogni dell'adulto. L'adozione legittimante ha significato il recepimento di alcuni concetti fondamentali sul piano etico, giuridico ed operativo:

a) ai genitori biologici non sono più riconosciuti diritti assoluti sui loro nati: ad essi va riconosciuta la priorità assoluta e incondizionata per provvedere all'educazione e al mantenimento dei propri figli

b) "il minore ha diritto ad essere educato nell'ambito della propria famiglia" (art. 1 della legge 184/83). A coloro che sono privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei parenti deve essere data una famiglia idonea costituita da coniugi con o senza figli biologici.

La legge 184/83 ha disciplinato inoltre l'affidamento familiare, che può essere disposto a favore di quei minori temporaneamente privi di un ambiente familiare idoneo. Queste leggi hanno avuto risultati estremamente positivi: alla data del 31.12.1997 sono stati adottati 85.378 minori (60.689 italiani e 24.689 stranieri). Va ricordato che diversi di questi sono bambini portatori di handicap, malati o che hanno subito, prima del loro inserimento nella famiglia adottiva, abusi e maltrattamenti anche gravi. Migliaia di bambini e ragazzi, inoltre, sono stati accolti in affidamento familiare. L'aver dato una famiglia a questi minori ha fatto evitare loro le sofferenze e le conseguenze - spesso drammatiche, causate dal ricovero in istituto e li ha sottratti all'emarginazione sociale determinata dalla delinquenza, dalla prostituzione, dalle diverse forme di disagio che colpiscono - certamente non tutti -, ma una gran parte dei minori che hanno subito una lunga istituzionalizzazione.

Ridotto il numero dei bambini in istituto
Grazie anche a queste legge, e alle iniziative assunte dall'ANFAA e da altre associazioni e organizzazioni di base contro il ricovero in istituto di bambini e adolescenti, il loro numero è diminuito dai 310mila del 1960 (dati tratti dalle pubblicazioni dell'ISTAT) ai 20mila del 1997 (in base a una ricerca svolta dal Centro Nazionale di Documentazione ed analisi e l'adolescenza i cui dati sono stati comunicati nella Conferenza nazionale sull'infanzia e l'adolescenza promossa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri- Dipartimento per gli affari sociali, svoltasi a Firenze nel novembre 1998). Il numero dei minori che sono costretti a passare anni fondamentali della loro vita in un ambiente non idoneo per un sano e corretto sviluppo psico-fisico, è ancora drammatico. Non è certamente imputabile, però, alla legge 184/83, ma alla sua mancata piena attuazione.
Oltre agli ottimi risultati prodotti da queste leggi sul piano individuale, non va dimenticato di sottolineare il grande risparmio - in termini di centinaia di miliardi - che la riduzione dei ricoverati in istituto, ha significato per lo Stato.
Inoltre, trent'anni di applicazione delle leggi sull'adozione hanno determinato una valida giurisprudenza (vedi anche le sentenze della Corte Costituzionale) e una prassi interpretativa ormai consolidata che consente ai giudici di operare in modo valido. E' vero che troppo spesso i provvedimenti necessari per la tutela dei bambini privi di assistenza materiale e morale e di quelli la cui famiglia versa in gravi difficoltà, sono assunti dai Tribunali per i minorenni in tempi estremamente lunghi. Questo problema - grave perché non dobbiamo dimenticare che per un bambino il permanere per uno, due, tre e non raramente, più anni in una situazione problematica è estremamente, e a volte anche irrimediabilmente, dannoso - può, però essere solo risolto se, a fianco dell'impegno personale dei singoli giudici e operatori sociali coinvolti, ai Tribunali per i minorenni venissero forniti i necessari strumenti (organici adeguati, attrezzature valide, ecc) e soprattutto se fosse assicurato un efficiente funzionamento dei servizi socio-assistenziali da parte dei comuni singoli o associati. Il migliore funzionamento dei servizi ovviamente, non può essere assicurato da una legge sull'adozione e sull'affidamento familiare, ma solamente da una organica e valida legge quadro di riforma dell'assistenza. Al riguardo il testo approvato dalla Commissione affari Sociali della Camera dei Deputati è, purtroppo, estremamente deludente.

I dati sopra riportati (drastica riduzione dei minori ricoverati, numero di adozioni e di affidamenti familiari realizzati) constatano la estrema validità di queste leggi, il ché avrebbe dovuto indurre il Parlamento a introdurre, nell'ambito della riforma della legge sull'adozione, solo quelle modifiche - per la verità abbastanza limitate - necessarie per una maggiore tutela dei diritti e delle esigenze dei minori soli o con famiglie in difficoltà. E' da tenere in considerazione inoltre che con l'approvazione della legge 476/98 di "Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a l'Aja il 29 maggio 1993. Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n.184, in tema di adozione di minori stranieri", sono state introdotte nel nostro ordinamento quelle norme necessarie per regolamentare più compiutamente l'adozione internazionale e per stroncare il mercato dei minori stranieri.

Il testo unificato di riforma
Buon senso vorrebbe che le esperienze positive acquisite siano conservate e valorizzate.
Purtroppo la scelta operata dal Senato nell'apportare le modifiche alla legge 184/83, scelta che speriamo possa però essere riconsiderata, è stata quella di riscrivere quasi tutte le norme della legge 184/83.
La Commissione speciale per l'infanzia ha iniziato nei mesi scorsi, l'esame dei numerosi disegni di legge presentati e attualmente sta esaminando il testo unificato predisposto dal relatore del Comitato Ristretto, Sen. Callegaro.
Questo testo accanto ad alcune - molto poco in verità - norme valide, quali quelle che prevedono l'obbligatoria assistenza di un difensore del minore, dei suoi genitori biologici e degli altri parenti durante tutto il procedimento di adottabilità e che eliminano la possibilità di ricorso presso il Tribunale per i minorenni accelerando in tal modo l'iter per la dichiarazione di adottabilità, ne contiene diverse estremamente negative sia in materia di adozione che di affidamento familiare. Se approvate, queste norme, rischiano di produrre effetti deleteri nei confronti di migliaia di minori privi di assistenza materiale e morale da parte dei loro genitori e parenti o con una famiglia in difficoltà.
Al fine di evitare che i minori potessero essere dichiarati adottabili a causa delle condizioni di povertà economica dei lori genitori, l'ANFAA e altre organizzazioni avevano chiesto e ottenuto che nella legge 431/1967 fosse inclusa la duplice caratterizzazione morale e materiale della privazione di assistenza da parte dei genitori e dei parenti e si erano battute, con successo, affinchè questa dizione fosse mantenuta anche dalla legge 184/83.
D'altra parte, in questi anni di attuazione delle norme sull'adozione, non è mai stato provata l'esistenza di stati di adottabilità pronunciati unicamente a causa della mancanza di mezzi economici dei genitori dei minori.
Lo stesso ricovero in istituto, non è di per sé elemento sufficiente per la dichiarazione di adottabilità del minore: infatti se permane un interessamento dei suoi genitori (visite, telefonate, lettere), il bambino o il ragazzo non può e non deve essere dichiarato adottabile.
Ovviamente è necessario predisporre interventi e aiuti per ovviare alla situazione di povertà dei genitori, ma ciò, come già indicato prima, non può essere normato attraverso una legge sull'adozione e l'affidamento familiare, bensì attraverso una adeguata riforma dell'assistenza e attraverso la predisposizione di servizi sociali più adeguati (casa, lavoro, scuola). L'esistenza di una situazione di povertà, non può essere però di ostacolo alla dichiarazione di adottabilità di un minore che si trovi in situazione di privazione di assistenza morale e materiale da parte dei suoi genitori e parenti.
Il testo predisposto dal Sen. Callegaro prevede invece che, anche nei casi in cui il minore è privo di assistenza morale e materiale da parte dei suoi genitori o parenti, se questi sono in situazione di povertà, anche se a causa dei propri comportamenti personali (ad esempio tossicodipendenza, alcoolismo, vagabondaggio, altre forme di disadattamento) il tribunale non possa dichiararlo adottabile, se non dopo essersi accertato che gli Enti locali abbiano fornito ai genitori contributi economici e altri interventi sociali.
Inoltre, secondo questo testo, all'atto di apertura del procedimento di adottabilità, nel caso di inesistenza dei genitori, devono essere convocati non solo i parenti che hanno avuto rapporti significativi col minore, il che è corretto, ma tutti i parenti entro il quarto grado (nonni, zii, cugini primi,,,) che anche se non si sono mai interessati del bambino, hanno diritto a partecipare agli accertamenti e anche alla nomina di un difensore.

La differenza di età
Il testo unificato, inoltre, prevede l'innalzamento della differenza massima di età tra adottanti e adottando dagli attuali 40 a 45, senza che ve ne sia alcuna necessità.
Infatti la situazione attuale è la seguente: le domande di adozione nazionale relative al quinquennio 1993-1997 sono state 89.444. Nello stesso periodo le domande non accolte per la mancanza di minori adottabili sono state oltre 85.000. Quasi tutti i 20mila minori ricoverati in istituti di assistenza/beneficenza non sono privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti e quindi non possono essere dichiarati adottabili. Una più penetrante azione della magistratura minorile e dei servizi socio - assistenziali consentirebbe, certamente, di accelerare le pratiche relative alla dichiarazione di adottabilità e di approfondire gli accertamenti per l'individuazione dei minori privi di assistenza morale e materiale, ma non porterebbe ad un aumento considerevole del numero dei minori adottabili (che non ha superato mai in Italia le 3.000-3.500 unità).
Anche per i minori stranieri la situazione è analoga: nel quinquennio 1993-1997 le idoneità rilasciate dai Tribunali per i minorenni sono state 21.352, mentre i minori stranieri giunti in Italia nello stesso periodo sono stati meno della metà. Migliaia di coppie non sono pertanto riuscite, per la mancanza di minori adottabili, a realizzare l'adozione internazionale.
A seguito dell'attuazione della Convenzione dell'Aja, il numero dei minori adottabili del Terzo Mondo è destinato a ridursi, in considerazione della crescente disponibilità di famiglie disposte ad adottare nei paesi d'origine, del superamento del mercato dei minori stranieri, e del fatto che gli aspiranti genitori adottivi sono in aumento in tutte le nazioni industrializzate. L'innalzamento a 45 della differenza massima di età, è quindi una norma assurda e inaccettabile (come per le stesse ragioni sarebbe assurdo estendere la possibilità di adozione a singoli, conviventi).
Inoltre, il testo unificato prevede, all'art. 7 comma 3, la possibilità di deroga da questo limite e da quello relativo alla differenza minima dei 18 anni, con una formulazione così generica che potrebbe persino consentire l'adozione di neonati da parte di ottantenni. L'estensione del numero delle persone che potrebbero presentare domanda di adozione, servirebbe soltanto ad aumentare in misura considerevole il numero delle coppie insoddisfatte. E' una norma fatta per illudere la gente, il che è un comportamento censurabile, perché significa procurare sofferte delusioni a persone che offrono una positiva disponibilità.
Riteniamo al contrario, in base ai dati che dimostrano l'enorme divario esistente tra minori adottabili e aspiranti coppie adottive, che la differenza massima di età dovrebbe essere diminuita dagli attuali 40 anni a 35: con questa proposta non si danneggerebbe un solo bambino italiano e straniero, in quanto tutti continuerebbero ad essere adottati ne più ne meno di quanto avviene attualmente, ma con il vantaggio di essere accolti da genitori più giovani, il che è senz'altro un dato positivo.
Riducendo la differenza massima di età, sarebbe anche minore il numero delle domande presentate al Tribunale per i Minorenni e da questi smistate ai servizi sociali, rendendo in tal modo possibile effettuare una valutazione più approfondita delle capacità educative degli aspiranti adottanti. Dobbiamo ricordare che per i suddetti motivi, già la legge 184/83 aveva abbassato la differenza massima di età, prevista dalla legge 431/67 allora in vigore, da 45 anni agli attuali 40, senza alcuna conseguenza negativa per i bambini.
Non va comunque dimenticato, che già l'art. 44, comma c) della normativa in vigore prevede, nei casi in cui non vi siano coppie disponibili all'adozione in possesso dei requisiti previsti dall'art. 6 della legge 184/83, la possibilità di adozione "in casi particolari" anche da parte di singoli o di coniugi con differenza di età superiore ai 40 anni, e ciò per evitare al minore la permanenza in una situazione di privazione di cure affettive ed educative.
Il testo unificato stabilisce inoltre all'art. 17 che i Tribunali per i Minorenni e i servizi socio-assistenziali devono effettuare le indagini relative all'accertamento dell'idoneità dei coniugi entro 60 giorni dalla presentazione della domanda.
Si tratta di una norma assurda che costringerebbe Tribunali per i Minorenni e servizi socio-assistenziali a dedicare gran parte del loro lavoro unicamente alla valutazione, in tempi ristrettissimi, di domande che, nella stragrande maggioranza dei casi, rimarrebbero poi senza risposta per mancanza di bambini disponibili. Si sprecherebbe così tempo prezioso, che potrebbe più proficuamente essere utilizzato per gli accertamenti necessari a individuare tempestivamente i minori privi di assistenza morale e materiale, per l'adozione di quei provvedimenti necessari per evitare ai bambini la negativa esperienza del ricovero in istituto e per sostenere gli adottati e gli adottanti.
I Tribunali per i Minorenni e i Servizi Sociali dovrebbero avere invece la facoltà di privilegiare la valutazione di quelle coppie che danno la disponibilità per l'accoglienza di minori grandicelli, malati o handicappati, che formano la maggioranza dei minori dichiarati adottabili (i neonati non riconosciuti sono circa 300 all'anno, di cui una buona parte presenta problemi di salute o di handicap).

L'identità dei procreatori
L'art. 22 del testo unificato prevede poi, la possibilità per l'adottato divenuto maggiorenne, di accedere all'identità dei procreatori. Come abbiamo più volte affermato, la famiglia adottiva è una famiglia a tutti gli effetti, con i suoi rapporti e i suoi problemi, come tutte le famiglie.
Se è vero, quindi, che bisogna tenere conto della storia individuale e irripetibile di ognuno, è inaccettabile che i rapporti interni della famiglia in quanto adottiva possano essere disciplinati da una legge dello Stato.
Non ha senso, quindi, che una legge dello Stato rimetta in discussione questi principi andando a regolamentare le modalità di incontro fra figli adottivi con chi li ha generati. E' il diretto interessato, il figlio, che potrà decidere in piena autonomia tenendo conto che la sua libera scelta non dovrebbe andare contro i diritti riconosciuti degli altri.
Di certo, a nostro avviso, non compete allo Stato e a nessun altro organismo stabilire se le radici del figlio debbano essere ricercate nella famiglia che lo ha amato, protetto ed educato oppure nel DNA di coloro che lo hanno generato e lasciato totalmente privo di assistenza morale e materiale e che, abbastanza spesso, lo hanno anche maltrattato.
Per queste ragioni il Parlamento non dovrebbe modificare norme vigenti. In particolare dovrebbero essere confermate le disposizioni che tutelano il segreto del parto e, pertanto, prevengono gli infanticidi.
Inoltre, il Parlamento dovrebbe tenere fede al principio già affermato dalla legge attuale che stabilisce che "con l'adozione i rapporti dell'adottato con la famiglia d'origine", norma assolutamente indispensabile se l'adozione è intesa come rapporto di genitorialità vera e completa.
L'esperienza di chi ha potuto seguire situazioni in cui i figli adottivi hanno rintracciato o sono stati rintracciati dai genitori biologi dimostra che questi incontri non si sono mai rivelati positivi, ma spesso hanno prodotto effetti destabilizzanti e spesso devastanti sulla personalità dei ragazzi. Allora, come bene diceva la presidente del Tribunale per i Minorenni di Torino, Giulia De Marco, vogliamo forse riconoscere a questi ragazzi il diritto di farsi del male?

L'affidamento familiare
Anche per quanto riguarda l'affidamento familiare il testo unificato presenta delle norme inaccettabili, in quanto stabilisce all'art. 4 comma 4, che l'affidamento familiare non può superare la durata di 24 mesi e può essere prorogabile una sola volta, per altri 12 mesi.
Non si riesce a capire cosa succede al bambino o al ragazzo che, trascorso il periodo concesso per legge, non può tornare nella sua famiglia e non può, per la sua età, inserirsi autonomamente nella società, non essendo in grado di provvedere a se stesso. Finirà in istituto o in comunità? E' da notare in proposito, che nessun limite di durata è previsto per il ricovero in istituto o per la loro permanenza in comunità alloggio. E' necessario, invece, pensare al problema che si presenta nel campo degli affidamenti familiari, quando i ragazzi raggiungono la maggiore età e non sono in grado di provvedere autonomamente a se stessi, poiché attualmente molto spesso i Comuni interrompono ogni intervento.
Sarebbe quindi opportuno prevedere la possibilità di proroga dell'affidamento a scopo educativo anche dopo il compimento della maggiore età da parte del soggetto interessato. Nel testo unificato viene inoltre stabilito che gli affidamenti familiari, debbano essere disposti dal giudice tutelare, anche laddove esista il consenso dei genitori esercenti la potestà o del tutore. Attualmente in questi casi, gli affidamenti familiari sono disposti dai servizi socio-assistenziali degli Enti Locali, che ne danno successivamente notizia al giudice tutelare.
Non si capisce per quale motivo, negli affidamenti familiari, debba intervenire l'autorità giudiziaria anche nei casi in cui vi sia il pieno accordo tra i servizi e gli esercenti la potestà parentale.
Questa norma, non può essere accettata anche in considerazione delle gravi carenze degli uffici dei giudici tutelari che non riescono a svolgere in maniera accettabile le funzioni loro attribuite dalle attuali leggi. Sono pochissimi i giudici tutelari che eseguono accurati controlli sugli elenchi dei minori ricoverati in istituto o effettuano le visite semestrali negli istituti assistenziali, anche a causa dell'insufficienza del numero delle persone addette a questi compiti.
Da ultimo non si comprende perché gli affidamenti familiari possano essere realizzati solo da famiglie con figli minori e non anche da persone singole, come prevede l'attuale legge.

Auspichiamo che la Commissione speciale per l'infanzia del Senato, voglia riesaminare il testo unificato facendo tesoro dell'esperienza maturata da 30 di applicazione delle leggi 431/67 e 184/83. In considerazione inoltre del fatto che non vi è alcuna urgenza per l'approvazione delle modifiche della legge 184/83 (come già detto l'unica emergenza era rappresentata dalla necessità della ratifica della Convenzione de L'Aja per una più compiuta regolamentazione dell'adozione internazionale, ratifica che è stata positivamente normata dalla legge n. 476/98), la Commissione dovrebbe disporre un'articolata serie di audizioni di magistrati, rappresentanti di regioni, enti locali, operatori, organizzazioni sociali in modo da avere un quadro preciso della situazione.


Residenze Sanitarie Assistenziali nelle Marche: di che cosa parliamo?
Fabio Ragaini - Gruppo Solidarietà
Lo scorso 25 giugno il Gruppo Solidarietà ha promosso a Jesi un incontro di approfondimento riguardante la situazione delle RSA nella Regione Marche. Hanno partecipato all’iniziativa Giuseppe Mascioni, Assessore regionale alla sanità, Franco Pesaresi capo dello staff dell’assessorato alla sanità della Regione, Enrico Brizioli, direttore sanitario della AUSL di Jesi. Di seguito la relazione introduttiva a cura del Gruppo Solidarietà.
(indice)
L'attenzione che in questi anni abbiamo posto sulle RSA ha una motivazione ben precisa: occuparsi di RSA - della loro organizzazione e del loro funzionamento - significa occuparsi di servizi rivolti ad una fascia di popolazione molto debole (occuparsi dei deboli dovrebbe essere lo specifico del volontariato), i cosiddetti anziani cronici non autosufficienti non curabili a domicilio; una fascia di popolazione che nell'intero territorio nazionale e anche nella nostra regione soffre oltre che per gli effetti di gravi malattie anche per la scarsa adeguatezza dei servizi che dovrebbero rispondere alle loro esigenze.

E' evidente che ogni scelta regionale (le non scelte sono spesso scelte ben più pesanti) ha le sue ricadute in termini di maggiore o minore tutela degli utenti; ogni scelta avrà davanti minori o maggiori costi economici, maggiore o minore attenzione ai "bisogni" delle strutture, maggiore o minore attenzione alle esigenze delle persone. E' naturale, non potrebbe essere diversamente, che il nostro punto di vista assume e mette al centro quest'ultimo ambito.

Vorremmo, pertanto, uscire da questo incontro con la speranza di ricevere da parte della Regione Marche la risposta ad alcune domande ed una chiara indicazione del futuro che si vorrà percorrere.

Affrontare il presente non può prescindere da una duplice analisi:
a) Le norme regionali fin qui emanate,
b) Quello che è poi successo nei territori della Regione Marche.

La normativa regionale
Il quadro normativo fa riferimento fondamentalmente a 3 Atti;
- la D.R. 3240/92, successiva all'Atto di disattivazione (n. 99/92) della funzione ospedaliera di alcuni presidi, che detta le Linee guida per le funzioni di RSA di queste strutture.
- La legge n. 36/95, che istituisce due RSA per soggetti con sclerosi multipla e distrofia muscolare le cui norme valgono anche per le RSA "istituite, da istituire o da ristrutturare".
- Il PSR (L.R. 34/98) recentemente approvato, che introduce all'interno del sistema residenziale extraospedaliero oltre le RSA altre due strutture (RST e RSR) e riconosce dei nuclei (NAR) di assistenza residenziale all'interno delle residenze assistenziali.
A completamento di questo quadro normativo, crediamo, vada inserito il programma di intervento regionale relativo alla 2ª fase del programma di investimento ai sensi della l. 67/88 al fine di verificare numero, p.l. complessivi e localizzazione delle RSA.

Non dobbiamo, in questa sede, analizzare in dettaglio la normativa e la coerenza degli atti riguardanti le RSA nelle Marche; il quadro si presenta fortemente lacunoso, con un sostanziale slegamento degli Atti sopracitati. Segnaliamo soltanto alcuni aspetti che ci paiono maggiormente significativi.

Partiamo dal PSR. All'interno del complessivo sistema residenziale extraospedaliero esso indica la tipologia di utenza di queste strutture (condizione stabilizzata con richiesta di intensità assistenziale alta a causa della presenza di patologie croniche multiproblematiche), stabilisce inoltre i p.l. (1331) che nel quinquiennio dovranno essere realizzati (325 nella prov. di Pesaro, 420 in quella di Ancona, 242 e 344 ripettivamente nelle prov. di Macerata ed Ascoli Piceno).
Nessuna indicazione precisa viene data per gli standard assistenziali; si fissa, invece, un rapporto personale/posti letto minimo di 0,7/1. Non deve essere però dimenticato che la proposta arrivata in Consiglio indicava degli standard, a nostro parere, totalmente inadeguati riguardo ad alcune figure sanitarie; infatti con un modulo di 20 p.l. si prevedeva: 10 h. settimanali di MMG e di fisioterapista, 8 h. giornaliere di infermiere.

Le indicazioni riguardanti le RSA contenute nel PSR si pongono accanto agli altri 2 Atti precedentemente citati.

- Il primo Atto (D.R. 3240, dell'ottobre 1992) nasce all'indomani della disattivazione ospedaliera di 15 presidi e detta alcune prime indicazioni (non abrogate) per la fase di riconversione (funzione e tipologia di utenza, organizzazione, dimensionamento, procedure di ammissione). Indicazioni talmente provvisorie che lo stesso Atto prevedeva entro sei mesi un aggiornamento dello stesso. Aggiornamento ancora, dopo 7 anni, atteso.

- Il secondo (la L.R. 36/95), riguarda la realizzazione di 2 RSA, definite Case Alloggio per persone affette da Distrofia muscolare o Sclerosi Multipla; una legge che meriterebbe una analisi dettagliata; va però ricordato che la norma transitoria (art. 11), stabilisce che i contenuti della legge si applicano anche per le RSA "degli anziani di età superiore ai 65 anni non autosufficienti e disabili, istituite, da istituire o da ristrutturare".

Alcune indicazioni possono comunque essere ricavate dalle norme sopra citate.

*1) la definizione della tipologia di utenza delle RSA (anziano non autosufficiente stabilizzato non assistibile a domicilio, ecc....) Del. 3240 e PSR;

*2) il pagamento della quota alberghiera (40.000 L., secondo la D.R. 3240; con costi da calcolare secondo la L.R. 36/95) dopo il 90º giorno di degenza se proveniente dall'ospedale, dal primo giorno se proveniente dal domicilio;

*3) riguardo gli standard strutturali ed organizzativi, ferme restando le indicazioni nazionali, la l.r. 36 pur occupandosi di due strutture rivolte ad una tipologia particolare di utenza, stabilisce che le norme in essa contenute valgono anche per tutte le RSA istituite, da istituire o da ristrutturare. Tutte le RSA dovrebbero pertanto adeguarsi alle indicazioni contenute all'art. 3 di questa legge (Aspetti strutturali ed organizzativi).

*4) L'indefinizione degli standard di personale. Come si è visto essi non sono stati indicati nel PSR; quelli indicati dalla l.r. 36 fanno riferimento esclusivamente ai destinatari di quella legge, soltanto nella D.R. 3240 si fa riferimento agli standard di personale che dovranno essere rispettati terminata la fase transitoria. Indicazioni che rimangono non vincolanti. Basti pensare alla situazione riguardante la presenza del medico che varia sia per numero di ore settimanali che per tipologia (medico dipendente della USL con specialità non definita, Medici di medicina generale, medici di guardia).

Sui p.l. regionali che in questo momento sono riconosciuti come RSA ed effettivamente funzionanti il dato dovrebbe essere fornito dall'assessorato. In particolare andrebbe conosciuto:
- quanti sono per effetto della disattivazione ospedaliera del 1992 (15 strutture e 280 p.l.?) e quanti con il finanziamento della prima fase del programma relativo all'art. 20 della legge 67/88 (13 strutture per 429 p.l.?).
Altra cosa è se poi queste strutture funzionano rispettando il mandato delle RSA, ma questo è un altro aspetto, importantissimo per le molte implicazioni conseguenti, che approfondiremo meglio in seguito.

Se tutto quanto sopra indicato può essere ritenuto corretto e se dunque siamo di fronte ad un quadro normativo incompleto; una volta identificati quanti sono i p.l. di RSA devono essere poste alcune domande alla Regione Marche:

- Come hanno funzionato e come stanno funzionando tutte quelle strutture che nelle Marche si chiamano RSA?

- Si stà rispettando la tipologia di utenza come indicato dal PSR e più in generale come stabilito dal DPR 14.1.97?

Altre domande si impongono e riguardano un duplice aspetto:
se le RSA attivate hanno rispettato il loro mandato e soprattutto (ed anche conseguentemente) sulla destinazione di tutti quegli utenti che dovrebbero essere destinati alle RSA. Dove finiscono, in quali condizioni, tutti quegli utenti che dovrebbero essere destinati ad essere accolti nelle RSA; cioè quale continua ad essere la risposta per i cronici non autosufficienti non curabili a domicilio?

Come hanno funzionato in questi anni le RSA?
A questo punto è fondamentale capire come hanno funzionato le RSA delle Marche, verificando se le stesse hanno rispettato il mandato loro assegnato. E' importante anche avere chiarezza, più in generale, sulla situazione della residenzialità extraospedaliera disegnata dal PSR che introduce nuove tipologie di strutture (RST e RSR int-est). Ci sono infatti alcune domande alle quali con chiarezza la Regione Marche deve dare risposta.

- Gran parte delle RSA (almeno di quelle, se non sono le uniche, derivanti dalla disattivazione della funzione ospedaliera del 1992); in realtà funzionano come strutture che gestiscono la fase post-acuta di pazienti in dimissione dall'ospedale; non si sa bene se continuano ad essere un reparto ospedaliero di medicina, una struttura di riabilitazione intensiva o altro. Tutto questo succede da 7 anni, tutti lo sanno ma nessuno interviene. Ciò è grave per un duplice motivo:

a) perchè malati in fase post-acuta vengono gestiti da strutture che non hanno alcun titolo per farlo (pensiamo solo agli esiti di patologie vascolari che necessiterebbero di riabilitazione all'interno dei p.l. ospedalieri);

b) perchè occupando i p.l. con pazienti in fase post-acuta queste strutture non rispondono alla funzione loro assegnata di risposta residenziale a soggetti malati non autosufficienti in "condizione stabilizzata" non curabili a domicilio.

Si è così in presenza di una doppia grave iniquità da un lato strutture con altro mandato gestiscono pazienti che avrebbero bisogno di essere trattati presso altri servizi; dall'altro l'utenza che dovrebbe afferire alle RSA viene inviata nelle strutture assistenziali che (a parte l'ambiguità normativa riguardante le Case protette - cui peraltro le normative nazionali non fanno mai cenno - delle quali, credo, nessuno sappia con precisione quanti siano i p.l. complessivi nelle Marche, ne come funzionano in termini di personale) non hanno alcuna legittimità ad accogliere persone malate e non autosufficienti.

Ci si trova così che strutture che si chiamano RSA vengono meno al loro mandato e cosa molto grave, ad esempio, dimettono - anzi, scaricano - malati cosiddetti "stabilizzati" (chiaramente non autosufficienti), anche quando essi non siano curabili a domicilio. Quei pazienti cioè per i quali le RSA sono state pensate, nate ed anche finanziate.

Per questo è importante capire quante siano effettivamente le RSA nella nostra regione perchè il rischio evidente è che esse funzionino (nonostante standard spesso insufficienti anche per una RSA) da strutture di passaggio per la gestione della fase post-acuta (come ad es. le RSM del PSR). E dunque che, al di la del nome, quelle pochissime strutture che da qualche anno vengono chiamate con il nome di RSA di fatto non funzionino come tali; vanificando così quelli che erano gli obiettivi del P.O.A. (che tutti continuiamo a citare per la qualità dei contenuti, del quale contemporaneamente ogni anno che passa verifichiamo il sostanziale fallimento dal punto di vista delle realizzazioni) che indicava la RSA, quale risposta adeguata ai bisogni degli anziani malati non autosufficienti non curabili a domicilio.

Queste sono le indicazioni del POA riferite alle RSA: "Costituiscono una forma di risposta alle situazioni di bisogno sanitario di persone ultrasessantacinquenni non autosufficienti o a grave rischio di non autosufficienza, che per ragioni molteplici non possono essere assistite in ADI o OD"; il POA stima poi il fabbisogno residenziale in (280-350.000 p.l.), contro i 140.000 previsti dalla finanziaria 1988. Chiarisce poi il significato di RSA: "La denominazione Residenza Sanitaria Assistenziale è stata preferita rispetto ad altre dizioni perchè l'aggettivo "sanitaria" sottolinea che si tratta di una struttura propria del SSN, a valenza sanitaria, di tipo extraospedaliero (residenza), la cui gestione è finanziabile con il FSN e di cui le USL possono garantire direttamente la gestione; l'aggettivo "assistenziale", rimarca che la residenza ha anche una valenza socio-assistenziale indiscibilmente connessa alla valenza sanitaria, il che legittima l'impiego da parte del SSN di figure professionali di tipo sociale (..) Le RSA devono essere realizzate tipologicamente secondo quanto descritto dal DPCM 22-12-89".

E' allora opportuno l'aggancio con il PSR; infatti riteniamo che se non si riesce a fare chiarezza (se non la fa la regione) le indicazioni del Piano riferite alla residenzialità extraospedaliera (ovvero la previsione di più tipi di residenze) possano essere usate dalle Aziende sanitarie esclusivamente per utilizzare le strutture presenti nel proprio territorio (generalmente date dalla riconversione ospedaliera) come "polmone" per l'ospedale così da ridurre il più possibile le degenze, indipendentemente dalla tipologia di struttura. Nei fatti questo significa che nessuna RSA funzionerà come tale.

Gia da prima, almeno un anno, dall'approvazione del PSR, le sigle RST, RSM, RSR venivano cospicuamente utilizzate (basti pensare che nella penultima bozza di statuto - 1997 - dell'Istituzione creata dal comune di Jesi per i servizi rivolti agli anziani si parlava della gestione di un reparto RSM). A PSR approvato è una realtà sotto gli occhi di tutti; si veda ad es. "L'ospedale di comunità" di Arcevia (così come presentato nell'inserto n. 16 di "Panorama della sanità"), recentemente inaugurato, che nella stessa struttura di 20 p.l. ne destina 12 a RSA, gli altri sono equamente divisi in 4 RSR e altri 4 RST) la volontà di avallare formalmente la funzione che, a nostro avviso illegittimamente, è sempre stata svolta; si inserisce una nuova sigla e così si sgombra definitivamente il campo circa il mandato della struttura. Per alcuni aspetti si mantengono le regole più "favorevoli" delle RSA come ad esempio il pagamento della quota alberghiera dopo il 90º giorno o dal primo se provenienti dal domicilio. Perchè chiamarsi RSA e dimettere pazienti da RSA qualche problema poteva anche crearlo; ma quando le strutture le ritrasformiamo chiamandole con un nuovo nome (RST o RSR) a quel punto problemi non possono più insorgere.

Allora deve essere chiara la responsabilità della Regione Marche che con il massimo della chiarezza deve dire:
- per ogni tipo di struttura (RSA, RSR int-est, RST): dove sono localizzate, quante sono, e con quanti p.l.;
- con quali standard minimi di personale (medici, infermieri, fisioterapisti, OTA) le strutture devono funzionare.

Chiediamo anche con chiarezza che si dica alle Aziende Sanitarie che non possono cambiare la destinazione d'uso delle strutture del loro territorio, solo perchè hanno bisogno di decongestionare l'ospedale, inviando così, da un lato, malati con problemi complessi presso strutture che non sono attrezzate per farlo; dall'altro espellendo da quelle poche RSA presenti, malati che avrebbero diritto di starci.
Questo chiediamo con forza alla Regione Marche.

Se questo non viene fatto, continueremo tutti (Regione, AUSL, Comuni, associazioni) ad essere omissivi, fingendo di non sapere che ci sono strutture che si chiamano con un nome (con preciso mandato) che svolgono funzioni del tutto diverse da quelle assegnate (nonostante che non siano in grado di farlo).

Mi pare opportuno, a questo punto, soffermarci su un altro aspetto: quello relativo alla cosiddetta quota alberghiera.

Sappiamo che, al momento (qualcosa cambierà con l'entrata in vigore il 1º gennaio 2.000 del sanitometro), la RSA è l'unica struttura sanitaria che prevede (tale indicazione è contenuta nelle Linee guida del Ministero della sanità n. 1/94) che i cosiddetti costi "alberghieri" siano a carico dell'utente (si afferma infatti: "l'indirizzo prevalente è quello di prevedere l'assunzione da parte dell'utente delle spese alberghiere o sociali .."). Non è qui la sede per una riflessione sul "fenomeno della quota alberghiera". Ci chiediamo però perchè, se finanziariamente il sistema non regge, questa quota (tassa) deve essere prevista solo per una categoria di malati (gli anziani cronici) e solo per un tipo di struttura del SSN (L'ospedale ad esempio è la struttura più utilizzata e più costosa).
Nella nostra regione, il pagamento della quota alberghiera scatta, dal 1º giorno indipendentemente dalle condizioni sanitarie dell'assistito, se lo stesso proviene dal domicilio; al 91º giorno se in dimissione ospedaliera.

Visto l'utilizzo fin qui fatto delle RSA è facile capire quali risultati si sono potuti produrre.
Pensiamo alla condizione di soggetti anziani con pluripatologie, colpiti da ictus che come già detto, impropriamente, vengono inviati in RSA in fase post-acuta per la riabilitazione; o di soggetti che inviati in RSA nel periodo di degenza vengono colpiti da malattie acute. Sono soggetti che al 91º giorno, sono spesso ancora gravemente malati, potremmo definirli ancora "acuti"; richiedono interventi sanitari rilevanti (soprattutto di natura medica) e avrebbero avuto, probabilmente, necessità di cure ospedaliere; soggetti che dopo non aver ricevuto le cure adeguate (vedi gli interventi di riabilitazione ospedaliera) si trovano anche a dover pagare la cosiddetta quota alberghiera. Ripetiamo, sono soggetti, che nulla hanno di stabilizzato.
Questo tema si aggancia con quanto avevamo sopra evidenziato producendo effetti fortemente negativi in termini di equità e di giustizia. Sono strutture che si chiamano RSA, assumono una funzione diversa gestendo pazienti che non dovrebbero afferirvi, ma mantengono le regole delle RSA.
Insomma, molti di questi soggetti avrebbero bisogno di livelli di prestazioni a livello ospedaliero o comunque ad alta "intensività"; oltre a non riceverlo devono pagare anche la "quota alberghiera".

Problemi di equità e giustizia vanno posti anche per gli accessi di malati provenienti dal domicilio (per i quali il pagamento della quota alberghiera scatta dal primo giorno di degenza).
Come più volte ripetuto riteniamo che non possa essere il luogo di provenienza a determinare i criteri, ma soltanto le condizioni sanitarie; non è per nulla detto che la provenienza dal reparto ospedaliero sia condizione di maggiore gravità.
Riteniamo che, a prescindere dalla provenienza, ci si debba accertare se le condizioni del richiedente abbiano i requisiti per l'accesso alla RSA.
Ma sulle questioni relative agli accessi e alle dimissioni la riflessione deve investire le modalità di funzionamento delle UVD. Quando e come intervengono? Perchè si dimettono dalle RSA persone ancora gravemente malate? Perchè le UVD permettono l'ammissione di soggetti in fase post-acuta che richiedono interventi che le RSA non possono e non devono offrire?

Un altro problema si pone e deve essere affrontato ed è quello relativo al modello organizzativo e agli standard assistenziali delle RSA. Perchè se questa è la struttura che deve/dovrà gestire il malato non autosufficiente "stabilizzato" non curabile a domicilio questa dovrà prevedere standard di personale adeguati per la funzione.
Su questo aspetto, riteniamo, occorra porre molta attenzione perchè se, alla fine, gli standard assistenziali saranno quelli che l'ultima proposta di PSR prefigurava riteniamo essere di fronte ad un quadro di incompatibilità tra obiettivi di struttura e condizioni per raggiungerli.

Nel ripercorrere ed analizzare la situazione delle RSA nelle Marche, ma anche guardando i percorsi di altre regioni ci troviamo di fronte a situazioni nelle quali si tende sempre più (in contrasto, a nostro parere, con le pur non sempre lineari normative nazionali sulle RSA) a concepire ed a realizzare RSA come struttura di passaggio in un percorso che parte dall'ospedale, passa per la RSA e si conclude quando il malato non sia curabile a domicilio presso una residenza assistenziale.
E' una tendenza talmente forte che, siamo al punto, sembra assumere una funzione impropria una RSA che non svolga questo ruolo.
Tale concezione, peraltro fortemente radicata in molti operatori sanitari, ritiene che la struttura che debba ospitare permanentemente qualunque non autosufficiente stabilizzato sia una residenza assistenziale con un variabile supporto di tipo sanitario.
La sanità, in questa visione, dovrebbe occuparsi (competenza e titolarità) solo dei malati in fase acuta; all'assistenza spetterebbe la "cura" dei cronici.

Oppure quando si conceda alle RSA, non in teoria, ma nei fatti di accogliere quell'utenza per cui è nata si è spesso in presenza di standard (vedi la proposta nello schema di PSR) assistenziali così bassi (a volte inferiori a quelli delle "Case protette" di alcune regioni italiane), da chiedersi se sia valsa la pena lottare per la realizzazione delle RSA.
Perchè, riteniamo, se la funzione di lungodegenza, deve essere delegata alla RSA questa deve essere in condizione (di personale e strutturale) di gestire questo tipo di malato. Deve essere cioè capace di gestire un malato cronico multiproblematico.

Occorre allora allargare la riflessione sul ruolo e la funzione dei p.l. ospedalieri di riabilitazione e in particolare di lungodegenza e all'altro estremo di quelli dei NAR (Nuclei di assistenza residenziale), all'interno delle Case di Riposo, così come previsti dal PSR.

Se la RSA rientra all'interno di un sistema di servizi a rete è di fondamentale importanza che il sistema ospedaliero di riabilitazione-lungodegenza, sia effettivo (quell'1 per mille abitanti diventi tale), così da avere all'interno delle AUSL le strutture deputate per la gestione del paziente nelle fasi di intensività riabilitativa e nella post-acuzie.
L'avviamento dei p.l. di lungodegenza, ad esempio, potrebbe portare, in tempi brevissimi, alla riconversione dei p.l. previsti di RST in p.l. RSA che sono assolutamente carenti.
Ma è essenziale, lo ripetiamo, che alla previsione dei p.l. si aggiunga anche quella delle strutture nelle quali questi stessi vengono realizzati. Brucia troppo la situazione che si è creata in questi anni. Situazione ampiamente descritta precedentemente. Per questo chiediamo un Atto regionale nel quale si identifichi tipo di struttura, funzione, standard assistenziali e localizzazione.

Diverso ed anche complesso è il discorso riguardante i cosiddetti NAR previsti dal PSR. Complesso perchè di fatto, a nostro avviso, diventa impossibile poter distinguere l'utenza del NAR da quella della RSA. O meglio, difficilmente, un utente non autosufficiente destinato ai NAR che oggi vive all'interno delle Case di Riposo non avrebbe i requisti per essere ospitato in una RSA. Un malato che avrebbe diritto di ricevere lo stesso trattamento (strutturale, di personale, di spesa alberghiera) di un ricoverato in RSA.
Per questo la differenziazione tra NAR (la Casa Protetta) e RSA rimane, dal nostro punto di vista, poco praticabile.
La rete di strutture che accoglie il "non autosufficiente" dovrebbe essere composta dalle RSA, chi vuole accoglierlo o continuare a farlo deve "convenzionarsi-accreditarsi" con il SSN.

Non dobbiamo però dimenticare la condizione di tutti quei malati non autosufficienti (e sono tanti) che non stanno né all'interno delle RSA né delle Case protette; sono ospiti di strutture assistenziali che non hanno alcun titolo per accoglierli; con standard di personale che nessuno conosce e con quota alberghiera che non ha bisogno di essere calcolata perchè è tutta a carico dell'utente.

Avviandoci alla conclusione, prima di dedicare alcune riflessioni alle RSA disabili, vogliamo integrare le nostre precedenti domande e proposte, con queste ultime richieste:

1) la definizione della conduzione medica della struttura (dotazione oraria e "tipo" di medico), che secondo noi, dovrebbe essere affidata preferibilmente ad un geriatra.

2) definire un tetto alla quota alberghiera a carico dell'utente (così come hanno fatto Liguria e Lazio), che non va mai dimenticato rimane un malato, spesso molto grave; così da avere quote non superiori alle 50.000 al giorno. Quota alberghiera, accettabile però alla condizione, che gli assistiti non debbano ricorrere, come spessissimo accade, alla assistenza privata a causa della scarsità di personale delle strutture.

3) Abrogare la distinzione tra accesso dall'ospedale e dal domicilio; con lo scatto della quota alberghiera anche dal 61º giorno a patto che la RSA, chiaramente non gestisca la post-acuzie.


Le RSA disabili
Un discorso del tutto diverso per le problematiche che pone è quello relativo alle RSA disabili. Sappiamo che a livello nazionale il dibattito su queste strutture è molto acceso soprattutto per la concreta possibilità che sotto il nome di RSA si possano ricrearsi o mantenersi piccoli istituti.
La nostra proposta è che le RSA disabili siano concepite come Comunità alloggio permettendo la possibilità di prevedere RSA composte da un solo nucleo di 10 persone mantenendo così il carattere della dimensione familiare. Questo potrebbe aiutare a sostenere la creazione di una rete di piccole residenze la cui titolarità potrebbe rimanere del settore socio-assistenziale.

Segnalazioni librarie
Recensioni di libri presenti al Centro Documentazione - a cura di: Samuele Animali, Sibilla Giaccaglia, Daniela Giaccaglia
(indice)

aids


D'Angella Francesco (a cura di), Il lavoro sociale con le persone in aids, Gruppo Abele, Torino 1998, pp. 103, L.14.000.

Un percorso tra le problematiche dell'assitenza, della prevenzione e della cura dell'AIDS. Dopo una prima parte che riporta alcuni dati sulla sua diffusione, sulle politiche per farvi fronte, sul trattamento farmacologico, particolare attenzione è dedicata alle case-alloggio, che hanno rappresentato il primo servizio non istituzionale nato per accompagnare le persone nel percorso invalidante tipico della malattia e sono diventare un modello assistenziale significativo anche con riguardo ad altre situazioni di assistenza a persone affette da patologie gravi e invalidanti.

anziani


Cavazzuti F., Cremonini G., Assistenza geriatrica oggi, Ambrosiana, Milano 1998, pp. 540, L.80.000.

Il testo, rivolto in particolare agli infermieri, si propone quale importante strumento di lavoro al fine di sviluppare la capacità degli operatori di valutare al meglio i bisogni degli anziani e quindi di fornire adeguate risposte terapeutiche e assistenziali. Arricchito dal riferimento ai più moderni orientamenti nel campo dell'assistenza geriatrica, il testo dedica ampio spazio ad aspetti come la valutazione multidimensionale, la qualificazione professionale, le metodologie operative.

Giunco Fabrizio (a cura di), Aiutare chi aiuta, Cooperativa In Dialogo, Milano 1997, pp. 157, L.18.000.

L'età senile come risorsa da rivalutare e da comprendere. Focalizzato sulle difficoltà di chi assiste un anziano non autosufficiente, il progetto "aiutare chi aiuta" (da cui nasce il libro) si propone di aiutare ad offrire interventi più adatti ai problemi in gioco, sia sul piano pastorale e pedagogico che sul piano tecnico ed operativo. Il progetto si articola in tre aree di intervento (supervisione a gruppi di volontari, promozione e conduzione di gruppi di mutuo aiuto, promozione di comunità alloggio). Il libro riporta altresì le linee-guida della revisione organizzativa della Commissione "Anziani in difficoltà" della Caritas Ambrosiana.

bioetica


Calò Emanuele, Il ritorno della volontà, Giuffre', Milano 1999, pp. 186, L.25.000.

I cosiddetti diritti di nuova generazione (la terza, dopo i diritti di libertà ed i diritti economici), che si impongono sul finire di questo secolo, sono una nuova formulazione dei diritti umani, resi più aderenti alla realtà dal preventivo riconoscimento delle differenze. Sul piano giuridico ciò comporta conseguenze come "un diverso modo di emersione della volontà (ad esempio, da parte del lavoratore o del consumatore) oppure la diretta attribuzione di rilevanza alla volontà di coloro ai quali era in precedenza negata (ad esempio ai minori, agli infermi...)"; ciò in quanto non si può parlare di diritti della personalità "tralasciando di considerare l'autonomia di giudizio della persona umana".

chiesa


Gutiérrez Gustavo, Densità del presente, Queriniana, Brescia 1998, pp. 231, L.25.000.

Gustavo Gutiérrez è uno tra i più noti teologi latino americani; con il suo volume "teologia della liberazione" (1971) ha aperto la strada alla feconda riflessione teologica che è nata nel sud-america a partire dalle esperienze di situazioni di estrema miseria e di oppressione politica. Il presente volume raccoglie i principali articoli pubblicati da Gutierrez nell'ultimo decennio; una riflesssione che salda attenzione alla vita concreta della gente ed esperienza di fede della comunità cristiana.

cooperazione


Ambrosini Maurizio, Lodigiani Rosangela, Intraprendere per gli altri, Cooperativa In Dialogo, Milano 1997, pp. 192, L.32.000.

Un'indagine promossa dalla Caritas Ambrosiana e dall'Ufficio di pastorale sociale e del lavoro della Diocesi di Milano, con l'obiettivo di identificare presupposti, forme organizzative e nodi problematici ancora irrisolti della cooperazione sociale, quale "modalità innovativa di politica occupazionale, secondo una logica di valorizzazione delle comunità locali e di collaborazione tra attori e risorse diverse". L'analisi dei casi presi in esame porta ad evidenziare alcuni punti di forza o di debolezza, ma anche ad ipotizzare una sorta di circolarità tra cooperazione sociale e comunità locale, in cui la costituzione e l'avvio d cooperative sociali non è lo sbocco terminale delle risorse solidaristiche, ma fattore propulsivo di nuove iniziative.

Comoglio Mario (a cura di), Il cooperative learning, Gruppo Abele, Torino 1999, pp. 160, L.20.000.

Principi, modalità di applicazione, fondamento scientifico, caratteristiche significative, condizioni di efficacia del Cooperative learning, come alternativa, dal punto di vista didattico-educativo, rispetto ai metodi di stampo individualistico e competitivo. Si tratta in particolare di valorizzare, nel processo di apprendimento, la variabile rappresentata dal rapporto interpersonale come il perno attorno al quale ruotano tutte le altre variabili (quali ad esempio motivazione, processi cognitivi, organizzazione della classe, valutazione ecc.).

disagio giovanile


De Leo Gaetano, Patrizi Patrizia, Trattare con adolescenti devianti, Carocci, Roma 1999, pp. 197, L.28.000.

Un'esplorazione delle forme e dei modi del trattamento educativo, psicologico e sociale degli adolescenti sottoposti alle attenzioni della giustizia penale. La prima parte del volume delinea lo sfondo dell'intervento, occupandosi delle premesse teoriche, dell'evoluzione storica delle risposte istituzionali e del metodo operativo (che vede interagire garanzie di natura scientifica e garanzie di natura normativa). La seconda parte del volume si sofferma invece sui concetti chiave della promozione della responsabilità e della mediazione dei conflitti.

ecologia


Carley Michael, Spapens Philippe, Condividere il mondo, Ambiente, Milano 1999, pp. 171, L.35.000.

Rivolgendo la propria attenzione alle pratiche in cui può concretizzarsi l'idea di sviluppo sostenibile gli "Amici della Terra", la più estesa rete ambientalista del mondo, ha studiato per i prossimi anni un progetto basato sul concetto di "Spazio Ambientale". Tale opzione, ampiamente illustrata nel testo, si basa sull'analisi delle risorse che ognuno può produrre e consumare, per una equa condivisione delle ricchezze del pianeta. Uno studio attento sia all'efficienza delle innovazioni tecnologiche sia all'equilibrio ambientale.

economia


Chomsky Noam, Dieterich Heinz, La società globale, La Piccola Editrice, Celleno 1997, pp. 159, L.23.000.

Il neoliberismo è una dottrina che ha dichiarato una vera e propria guerra economica contro la maggioranza della popolazione mondiale e gli intellettuali, fino ad oggi, non hanno saputo dare una chiara risposta alle sfide rappresentate dalle politiche di globalizzazione dei mercati. L'analisi delle politiche della globalizzazione, tuttavia, ha smitizzato molte delle sue idee fondamentali, prima fra tutte quella del mercato, ed ha evidenziato la contraddizione tra democrazia e capitalismo: "Solo quando si sarà raggiunta la democrazia di e per le maggioranze dell'umanità, allora il processo umano sarà giunto non alla fine della storia ma della preistoria dell'uomo".

De Marchi E., La Grassa G., Turchetto M., Oltre il fordismo, Unicopli, Milano 1999, pp. 222, L.28.000.

Un ripensamento di alcune categorie chiave delll'analisi economica (impresa, mercato, stato, regolazione): il primo dei quattro saggi che compongono il volume cerca di delineare le matrici culturali del post-fordismo; il secondo si occupa dei rapporti tra stato e impresa come elementi strutturali e complementari del sistema capitalistico, mentre gli ultimi due saggi si occupano rispettivamente dell'evoluzione dell'impresa come organizzazione e del rapporto tra mercato e regolazione nel capitalismo.

Michalos Alex C., Un'imposta giusta: la tobin tax, Gruppo Abele, Torino 1999, pp. 142, L.20.000.

L'eccessiva mobilità dei capitali speculativi, che traggono le migliori opportunità per conseguire enormi profitti proprio dai fenomeni di forte destabilizzzazione dei cambi e dei corsi azionari, provoca crisi finziarie che si ripercuotono sui mercati di tutto il pianeta con conseguenze devastanti. Il libro costituisce una cassa di risonanza della proposta formulata qualche anno fa dal premio Nobel James Tobin circa l'introduzione di un'imposta sui movimenti speculativi a breve di capitale e contribuisce a smantellare la costruzione teorica monetarista che impedisce una seria attività di regolamentazione, supervisione e controllo dell'iniziativa privata e del mercato.

educazione


Canevaro Andrea, Chieregatti Arrigo, La relazione di aiuto, Carocci, Roma 1999, pp. 269, L.36.000.

L'intervento di aiuto ripensato i termini di "relazione d'aiuto": l'accompagnamento può essere interpretato come la ricerca di una comprensione e di una sintonia che vada al di là del momento del bisogno. Un percorso tra pedagogia, psicologia e filosofia, esaminando alcune relazioni di aiuto (insegnante-allievo, medico-paziente, uomo-donna nella coppia) e analizzando le problematiche della reciprocità anche sotto profili come quello dei rapporti tra culture diverse, del pluralismo, della solidarietà.

Covington Martin V., Teel Karen Manheim, Prevenire i fallimenti scolastici, Erickson, Trento 1999, pp. 117, L.30.000.

Il testo propone un modo interessante ed innovativo per affrontare il problema del fallimento scolastico che, in casi purtroppo ancora numerosi, conduce all'abbandono. Gli insegnanti vengono invitati a stimolare la curiosità degli studenti valutando gli interessi personali del singolo alunno. La proposta mira ad eliminare la motivazione negativa del brutto voto sostituendola con la promozione della curiosità e della creatività.

Di Pietro Mario, L'abc delle mie emozioni, Erickson, Trento 1999, pp. 135, L.34.000.

La cura del benessere emotivo degli alunni nella scuola dell'obbligo come strumento di prevenzione del disagio e della dispersione scolastica. In un testo che si rivolge direttamente al bambino viene presentato un metodo che gli consente di acquisire consapevolezza ed autocontrollo delle emozioni. Un sussidio didattico per insegnare al bambino a pensare in positivo ed a minimizzare l'impatto di stati d'animo spiacevoli.

Tuffanelli Luigi (a cura di), Intelligenze, emozioni e apprendimenti, Erickson, Trento 1999, pp. 262, L.36.000.

Sullo svantaggio iniziale che accompagna come un destino alcuni alunni nel loro impatto con la scuola si può intervenire con stili attributivi adeguati a fronteggiare l'insuccesso nello studio, con la costruzione di un percorso di educazione emozionale, con la progettazione di percorsi di auto-apprendimento e con altri espedienti del medesimo tipo. La diversità di stili cognitivi ed intelligenze o gli effetti dell'esposizione eccessiva alle insidie dei media possono trovare un'adeguata risposta nella corretta e consapevole considerazione dell'interazione tra aspetti cognitivi ed aspetti emozionali nei processi di apprendimento.

famiglia


Beccaro Alberta, I procedimenti camerali nel diritto di famiglia, Giuffre', Milano 1999, pp. 746, L.90.000.

La monografia è focalizzata sulle norme processuali relative al rito in camera di consiglio (quello cioè che prevede un'attività istruttoria più approssimaiva, un maggior potere discrezionale del giudice, una decisione contenuta in decreti revocabili con vari limiti di impugnazione) ed sul crescente utilizzo di questo rito nel campo del diritto di famiglia. Il testo si occupa, sotto il profilo processuale, dell'omologa della separazione consensuale, del divorzio congiunto, della modifica delle condizioni di separazione e di divorzio, dell'ammissibilità della dichiarazione giudiziale di paternità, dell'adozione di persone maggiori di età e di altri istituti connessi a questi menzionati.

Marzotto Costanza, Telleschi Riccardo (a cura di), Comporre il conflitto genitoriale, Unicopli, Milano 1999, pp. 267, L.34.000.

La mediazione familiare costituisce ormai una risorsa indispensabile per la ri-organizzazione delle relazioni familiari dopo la separazione coniugale. Questa raccolta di saggi costituisce una riflessione, condotta secondo le diverse prospettive adottate dagli autori che hanno contribuito al volume (psicologia, sociologia, diritto, psicoanalisi, servizio sociale), sulle esperienze italiane di mediazione familiare e sui modelli teorico-tecnici di riferimento. Alla presentazione degli aspetti socio-culturali delle problematiche affrontate segue la presentazione degli strumenti veri e propri del processo di mediazione, anche sulla base delle diverse esperienze conosciute.

immigrazione


AA.VV., Immigrazione, Anterem, Roma 1998, pp. 352, s.i.p.

Ottavo rapporto della Caritas di Roma sull'immigrazione, che raccoglie i darti diponibili sul fenomeno immigrazione sotto i diversi profili dell'inquadrmaneto del caso italiano nel più ampio contesto mondiale, della presenza degli immigrati in rapporto alla loro provenienza continentale e ripartizione territoriale, del loro inserimento culturale e nel mondo del lavoro, delle specificità territoriali che caratterizzano il fenomeno a livello di singole province e con particolare riferimento al Lazio.

Coluccia Anna (a cura di), Immigrazione, Giuffre', Milano 1999, pp. 195, L.26.000.

Il volume presenta, nei diversi saggi che lo compongono, dati, ricerche empiriche e contributi teorici che concorrono a delineare la specificità dello status di immigrato considerata in particolare dal versante criminologico. La tesi è che la devianza degli immigrati va affrontata in termini diversi rispetto a quella degli autoctoni, anche in quanto il processo di vittimizzazione si manifesta e si evolve in termini caratteristici. Una particolare attenzione è riservata al caso dell'immigrazione cinese.

Mancini Letizia, Immigrazione musulmana e cultura giuridica, Giuffre', Milano 1997, pp. 175, L.25.000.

Uno studio sociologico-giuridico dell'immigrazione come fenomeno culturale; in particolare sono oggetto di analisi i conflitti tra la cultura giuridica degli immigrati egiziani e quella italiana. In particoalare viene in rilievo la questione se il diritto delle società di accoglienza deve contribuire alla formazione di comunità distinte e contemplare un diritto particolare applicabile ai membri di queste comunità, ovvero deve incoraggiare il formarsi di un'identità individuale secondo la quale ciascuno possa decidere come collocarsi in relazione alla cultura e rispetto alla comunità di appartenenza.

internazionale


AA.VV., Guatemala, La Piccola Editrice, Celleno 1998, pp. 343, L.30.000.

Un rapporto promosso dalla chiesa guatemalteca per preservare la memoria storica della violenza politica e delle violazioni dei diritti umani compiute durante l'interminabile guerra civile che ha insanguinato questo paese del centroamerica. Desiderio di cambiamento e impossibilità di realizzarlo attraverso i percorsi della legge hanno portato molti ad intraprendere la lotta armata come unica apparente via possibile di liberazione. Ora le migliaia di testimonianze che costituiscono questo rapporto servono da monito per il futuro, in un rifiuto totale e categorico della cultura della violenza.

lavoro


AA.VV., Padri e figli: le nuove forme della disoccupazione, Giuffre', Milano 1999, pp. 288, L.38.000.

Atti del congresso internazionale tenutosi a stresa nel Maggio 1998, con l'obiettivo di analizzare le caretteristiche della nuova disoccupazione, confrontando l'esperienza italiana con quella di altri paesi europei e degli Stati Uniti. Il declino demografico non ha attenuato l'incidenza della disoccupazione giovanile che, in nuove forme rispetto agli anni '80, continua a rappresentare un grave problema economico e sociale; né esiste un vero mercato del lavoro per uomini maturi, il che crea delle situazioni drammatiche quando si ritrovano disoccupati i principali percettori di reddito di una famiglia. E' necessario pertanto far emergere nuove imprese, anche attivando canali finanziari e di credito, e garantire più stabilità dei redditi.

Crupi Vincenzo (a cura di), La partnership nel lavoro sociale, Gruppo Abele, Torino 1999, pp. 128, L.15.000.

L'irrobustirsi del tessuto associativo e l'evolversi del volontariato da un approccio individuale ai problemi delle persone ad un approccio di sviluppo della comunità locale hanno contribuito al ripensamento del modello di welfare, spingendo verso un diverso assetto delle funzioni degli attori sociali sulla base, in particolare, del principio di sussidiarietà. Nasce così la consapevolezza della necessità di una cultura della partnership, una cultura, cioè, che attraverso una visione politica dei problemi e degli attori in gioco porti a rinsaldare la comunità locale, ovvero il patto di fiducia e interdipendenza tra i gruppi sociali che interagiscono in un territorio.

Galloni Nino, L'occupazione tradita, Riuniti, Roma 1998, pp. 96, L.15.000.

Partendo da esempi concreti, soprattutto italiani, vengono evidenziate le cause dell'inefficacia delle politiche economiche che intendono promuovere l'occupazione; vengono inoltre individuati gli interessi contrari ad una vera politica dell'occupazione. Il ruolo della proprietà delle imprese può andare contro lo stesso mercato e gli interessi dei consumatori; diventano inoltre sempre più labili le speranze dei giovani di inserirsi nel mondo del lavoro o comunque, come negli Stati Uniti, l'occupazione a tempo pieno tende a trasformarsi in lavoro precario e mal pagato.

Monthé Daniel, L'utopia del tempo libero, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 96, L.24.000.

La società del tempo libero è un'utopia. I vantaggi della cosiddetta "fine" del lavoro non compensano la perdita dell'azione socializzatrice che esso svolgeva quando a dominare era il modello organizzativo fordista, con la catena di montaggio ed i tempi cronometrati. Il tempo libero si degrada in tempo di consumo e regala ulteriori privilegi a chi dispone di un reddito confortevole (e di possibilità di consumare), a differenza di chi, per esempio pensionato o disoccupato, dispone di risorse scarse. "Privilegiare la coesione sociale riducendo il consumo di beni dei più ricchi e delle classi medie è il solo modo per evitare che la nostra società continui a scivolare verso ineguaglianze ancora maggiori".

minori


Coles Robert, L'intelligenza morale dei bambini, Rizzoli, Milano 1998, pp. 268, L.28.000.

Studi di ambito pedagogico degli ultimi anni hanno dimostrato che i bambini non sviluppano soltanto una intelligenza di tipo logico-razionale ma anche una di tipo morale. Per intelligenza morale si intende la capacità di affrontare questioni etiche, religiose e spirituali. L'autore invita genitori ed educatori a stimolare questo lato della personalità del fanciullo garantendogli la possibilità di riuscire a rispettare gli altri e se stessi nel proseguo della vita.

nomadi


Geraci S., Maisano B., Motta F., (a cura di), Salute zingara, Anterem, Roma 1998, pp. 304, s.i.p.

Un'esperienza di promozione della salute condotta tra gli Zingari, nata da un progetto della Caritas di Roma. I diritti acquisiti di tutela preventiva della salute sono nascosti o illeggibili per la popolazione zingara e non è affatto semplice re-inventare modalità di approccio e di intervento e ricostruire percorsi relazionali e terapeutici di fronte ad una comunità così diversa da quella a cui si appartiene, per di più tra regolamenti concepiti sulla base del sospetto e politiche pensate per il controllo prima che per la tutela: l'urgenza non esime dal capire.

pace


Muller Jean-marie, Vincere la guerra, Gruppo Abele, Torino 1999, pp. 158, L.22.000.

Secondo l'autore i tempi sono ormai maturi per dare vita ad un corpo di intervento civile che partecipi in modo efficace ai processi di pace ed agli interventi con motivazioni umanitarie; la prevenzione e la gestione delle crisi e dei conflitti esigono infatti una politica di prevenzione, una diplomazia di mediazione e una strategia civile di intervento, oltre che una vera propria riformulazione del diritto internazionale sulla scorta dei principi affermati dalla Dichiarazione universale dei diriti dell'uomo.

politiche sociali


AA.VV., Le politiche sociali in Europa, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 158, L.28.000.

Rapporto realizzato dal Centre for Economic Policy Research che analizza le interazioni tra politiche sociali ed integrazione economica dell'Unione Europea. Il procedere dell'integrazione accentua la necessità di coordinamento e di armonizzazione delle politiche sociali in tutte le loro diverse forme (vincoli al licenziamento dei lavoratori, sussidi di disoccupazione, pensioni); le politiche sociali potranno così diventere un fattore assai significativo nella realizzazione del progetto europeo.

prostituzione


Leonini Luisa (a cura di), Sesso in acquisto, Unicopli, Milano 1999, pp. 168, L.20.000.

Chi sono le persone che consumano sesso a pagamento e per quali ragioni? Il libro cerca di rispondere a queste domande illustrando aspetti del mondo della prostituzione che di solito rimangono nascosti, inesplorati. Partendo da un'analisi dei rapporti tra uomini e donne, si illustrano le possibili motivazioni dei clienti, le loro fantasie, tracciando delle tipologie di maschi che entrano in relazione con le prostitute.

psichiatria


AA.VV., La salute mentale nel mondo, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 623, L.50.000.

Opera collettiva di studiosi americani di livello internazionale, il libro, che raccoglie ed organizza un vasto materiale di informazioni sulla salute mentale nel mondo, apre la strada ad una globalizzzazione della psichiatria analizzando la malattia mentale così come si manifesta in particolare tra le popolazioni dei paesi poveri. Ciò permette di contestualizzare più efficacemente i problemi oggetto del lavoro di ricerca e di intervento di professionisti di salute mentale, sociologi, amministratori e operatori dei settori sociali e sanitari interessati.

Cerrai Moreno (a Cura), Gli strumenti della riabilitazione: esperienze a confronto, Del Cerro, Tirrenia 1998, pp. 151, L.30.000.

Il testo si basa sul resoconto di un convegno organizzato da direttori medici degli Istituti Privati di Riabilitazione della Toscana, mossi dalla necessità di individuare schemi di lavoro comuni. Uno studio aggiornato e ben organizzato sulla situazione delle strutture ospedaliere ed extraospedaliere, utile strumento di lavoro per coloro che operano nel campo della riabilitazione psichiatrica.

Ferro Antonio Maria, Jervis Giovanni (a cura di), La bottega della psichiatria, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 235, L.55.000.

"L'esperienza, la sensibilità e il talento dell'artigiano sono le caratteristiche salienti dell'attuale esercizio della psichiatria nei Servizi Pubblici". Come accadeva nella bottega medioevale, teoria e pratica sono cresciute in maniera sinergica in questi 20 anni di applicazione della legge 180: i saggi raccolti in questo volume tentano di tracciare un bilancio di questa esperienza, cercando di indicare possibili orientamenti futuri, sempre nella linea di una feconda contaminazione tra dialogo e riflessione nella prassi psichiatrica.

Maccarrone Benedetto, Madre e neonato, Carocci, Roma 1999, pp. 175, L.28.000.

L'interazione con il paziente psicotico organizzata sul modello dell'atteggiamento che la madre ha verso il neonato, soprattutto per evitare il rischio di scadere nella routine della relazione terapeutica. Un libro indirizzato agli operatori psichiatrici più giovani, nel tentativo di "trovare forme di trasmissione della disciplina psichiatrica che siano finalizzate non solo alla conoscenza dei quadri clinici ma soprattutto al sostegno della mente dell'operatore" per "metterlo in condizione di cogliere e familiarizzare con le reazioni emotive che scaturiscono nel corso dell'incontro con il paziente".

Volpi Vittorio (a cura di), Bambini e adolescenti che soffrono, Edizioni Sapere, Padova 1997, pp. 203, L.22.000.

Il testo si occupa delle problematiche del disagio psichico in età evolutiva; i vari saggi che lo compongono si soffermano in particolare sui problemi della prevenzione, sulla realtà dei bambini ospedalizzati, sui caratteri dell'esperienza psicotica nell'infanzia e nell'adolescenza, sulle manifestazioni del disagio psichico in ambito scolastico. Nella prospettiva degli autori la malattia mentale è vista come "negazione della propria sensibilità emotiva, cui si ricorre di fronte a troppo grandi difficoltà affettive".

psicologia


Berman Alan L., Jobes David A., Il suicidio nell'adolescenza, Scientifiche Magi, Roma 1999, pp. 382, L.38.000.

Il costante aumento dei suicidi tra gli adolescenti ha spinto alcuni studiosi della psicologia umana a cercare delle tecniche di prevenzione per aiutare coloro che manifestano intenzioni suicide. Partendo da casi realmente accaduti vengono illustrate le varie teorie per la valutazione delle tendenze autodistruttive e le tecniche di trattamento per i suicidari. Un libro scritto da esperti di suicidologia che può essere valido aiuto per coloro che operano nel settore e per chiunque abbia a che fare con i giovani.

De Camillis Stefano, Ricci Rita, I giovani adulti, Scientifiche Magi, Roma 1999, pp. 111, L.15.000.

Il giovaneadulto viene definito come un nuovo soggetto sociale più maturo di un adolescente ma un giovane che non ha ancora raggiunto il processo di autonomizzazione di un adulto. Ma quali possono essere i problemi e le difficoltà relazionali di un giovaneadulto? Gli autori di questo libro rispondono a tali domande inquadrando il giovaneadulto nell'attuale società e presentando tre storie come possibili psicoterapie per i giovaniadulti in difficoltà.

De Grada Eraldo, Fondamenti di psicologia dei gruppi, Carocci, Roma 1999, pp. 319, L.39.000.

Il volume presenta uno dei possibili approcci allo studio dei fenomeni che caratterizzano i gruppi sociali, in particolare quelli nei quali il peso dei fattori istituzionali risulta relativamente ridotto rispetto a quello dei fattori psicologici (gruppi ristretti a carattere spontaneo). Le fondamenta problematiche di una disciplina come lo studio psicologico dei gruppi sociali non impediscono di individuare alcuni criteri di definizione e classificazione dei gruppi e di impostare un'analisi che pone in evidenza in particolare alcune delle loro caratteristiche strutturali.

Dryden Windy, Superare il senso di colpa, Calderini, Bologna 1997, pp. 125, L.18.000.

Un libro impostato sotto forma di domande e risposte, che intende in primo luogo chiarire la distinzione tra i concetti di senso di colpa e la sua controparte positiva, il rimorso costruttivo, per poi individuare quali possono essere le soluzioni ed i percorsi per superare con successo il senso di colpa. L'obiettivo di fondo è quello di arrivare a pensare a sé stessi come esseri umani fallibili, in cui aspetti buoni, cattivi e neutri si combinano in una miscela complessa; in tale prospettiva le sensazioni legate al senso di colpa sono soltanto mere convinzioni emotive.

Grün Anselm, Autostima e accettazione dll'ombra, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, pp. 131, L.18.000.

Un testo che coniuga il piano psicologico e quello evangelico nell'indicare la via per recuperare consapevolezza e sicurezza in se stessi, con la dimensione spirituale che non scavalca il piano psicologico ma, al contrario, lo presuppone: anche il credente deve confrontarsi con la propria realtà psicologica. Lo sviluppo di una sana autostima consente di superare il proprio senso di impotenza, ritrovando fiducia tanto nella comunità degli uomini che in Dio.

Markham Ursula, Figli sotto pressione, Calderini, Bologna 1995, pp. 151, L.18.000.

Si parla spesso di stress, ma forse non si è mai legato tale fenomeno al mondo dei bambini; eppure lo stress è un problema anche per i più giovani sottoposti a tensioni scolastiche, familiari o di altro tipo. Il libro si occupa dello stress giovanile a partire proprio dallo studio dei sintomi, fino a farne un'analisi delle cause e a proporre dei consigli per affrontare da giovani e da adulti le tensioni di tutti i giorni.

Miller Alice, Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 133, L.35.000.

Il dramma del bambino che è l'orgoglio dei suoi genitori è nella sua capacità di coglierne i bisogni inconsci e di adattarvisi, mettendo a tacere i suoi sentimenti più spontanei (rabbia, indignazione, paura, invidia). Rimane soffocato lo sviluppo della personalità più autentica del bambino, che da adulto sarà depresso oppure si nasconderà dietro una facciata di grandiosità maniacale. Le emozioni hanno infatti una grande rilevanza per lo sviluppo umano e condizionano il nostro comportamento razionale o costruttivo.

Miller Alice, Le vie della vita, Garzanti, Milano 1998, pp. 223, L.35.000.

"Come si riflettono sulla vita dell'individuo e sui rapporti con il prossimo le prime esperienze di dolore e di amore?" Le impressioni ricevute nell'infanzia hanno un'importanza determinante sulle nostre scelte e sul nostro destino. Prendere coscienza di tali impronte diventa così condizione indispensabile per una vita piena e responsabile nell'ambito familiare e sociale. L'autrice costruisce e racconta sette storie esemplari che aiutano a capire come il passato e l'educazione ricevuta influiscano sulle scelte attuali.

sanità


AA.VV., I malati di Alzheimer, Utet Libreria, Torino 1999, pp. 121, L.22.000.

Per una risposta adeguata alle esigenze delle persone colpite dalla malattia di Alzheimer è essenziale che venga riconosciuta la loro condizione di malati. Se la competenza è del settore sanitario, i cittadini hanno infatti diritti concretamente esigibili. Il volume affronta non solo gli aspetti sanitari ma anche quelli giuridici; fornisce, inoltre, utili consigli sui compiti spettanti ai servizi e sulle azioni di tutela dei diritti. Il volume può essere acquistato direttamente presso l'Associazione promozione sociale, Via Artisti 36, 10124 Torino. Tel. 011/812.44.69.

Basaglia Nino, Gamberoni Loredana (a cura di), L'infermiere della riabilitazione, Edi-ermes, Milano 1998, pp. 229, L.35.000.

Il titolo del volume ne sintetizza i contenuti e il destinatario; il testo illustra con pregevole chiarezza le competenze necessarie per un inserimento efficace dell'infermiere all'interno dell'équipe riabilitativa. Il libro si segnala anche per l'utilità in ambito didattico, sia per gli studenti che per gli infermieri che vogliono approfondire le tematiche specifiche inerenti la riabilitazione.

Caretta Flavia, Petrini Massimo, Ai confini del dolore, Citta' Nuova, Roma 1999, pp. 245, L.25.000.

Un volume dedicato al tema "Medicina e spiritualità", in una considerazione unitaria e non dualistica della realtà vitale dell'uomo. La considerazione scientifica della malattia tende a riconoscere come interessanti solamente i processi biologici, mentre l'uomo soffre tutto intero nella malattia. Per questo la religione e più in generale i fattori spirituali esercitano un'influenza innegabile sul rischio di malattia, sull'eziologia, sulla terapia, sulla prognosi e sulla guarigione; in tutte le tradizioni, non per niente, la medicina è un dono della divinità.

Di Dio Busa Francesco ( a cura di), Terapia cognitivo- comportamentale in riabilitazione, Edi-ermes, Milano 1998, pp. 208, L.35.000.

Il volume illustra i contenuti, le applicazioni e la metodologia della terapia cognitivo comportamentale in riabilitazione. L'opera offre importanti indicazioni operative, corredate di schede di rilevazione e di automo auto-monitoraggio, già predisposte per le singole problematiche. Il testo si presenta pertanto come un valido contributo ad un qualificato ed adeguato approccio professionale alla riabilitazione.

Fortunati Varia, Roversi Elena, Le aziende del servizio sanitario nazionale, Clueb, Bologna 1998, pp. 376, L.48.000.

Le tecniche e gli strumenti contabili per l'attuazione della programmazione e del controllo economico nelle aziende sanitarie e la valutazione della qualità dell'assistenza sanitaria. Programmazione, controllo e gestione delle aziende sanitarie come componenti vitali di un modello di welfare mix, al di là della dicotomia "o tutto stato o tutto mercato", coniugando qualità, efficienza ed equità. Gestire con criteri economico-aziendali le aziende sanitarie non significa mutuare tout-court i criteri di programmazione e controllo delle imprese, ma tener conto delle peculiarità di tali aziende nel guidarne i processi innovativi.

società


AA.VV., Annuario sociale 1999, Gruppo Abele, Torino 1999, pp. 685, L.30.000.

Una cronologia dei fatti del 1998 corredata da un apparato di schede, tabelle e grafici con i dati più aggiornati sulle questioni più attuali e di rilievo in particolare nell'ambito delle problematiche dell'esclusione e del disagio. Da "AIDS" a "zingari", una raccolta di dati e di notizie che costituisce un utile strumento di documentazione e approfondimento per associazioni, giornalisti, amministratori, politici, ricercatori, operatori del mondo del lavoro, della giustizia, della scuola, del sociale.

AA.VV., Attacchi all'informazione nel 1998, Gruppo Abele, Torino 1999, pp. 180, L.28.000.

In paesi governati da leggi restrittive del diritto di cronaca i giornalisti si trovano continuamente di fronte al dilemma se imporsi l'auto-censura o rischiare la prigione. Il volume presenta una serie di rapporti che riguardano i giornalisti uccisi durante l'anno, i giornalisti detenuti, i regimi più ostili alla stampa e la situazione della libertà di stampa nei vari paesi in cui questa viene sistematicamente minacciata o negata, evidenziando come la mancanza di mezzi di informazione vigili e liberi contribusca ad impedire lo sviluppo della democrazia ed aggravi le eventuali crisi economiche e politiche.

AA.VV., Privacy, Giuffre', Milano 1999, pp. 407, L.50.000.

Le leggi che disciplinano il diritto di accesso ai documenti e la tutela dei dati personali e sensibili, pur costituendo due aspetti significativi delle trasformazioni recenti che hanno interessato i rapporti tra privati e pubblica amministrazione, sono ispirate a valori diversi e non si armonizzano tra loro. L'opera si occupa dei problemi teorici e pratici che nascono da questa mancata armonizzazione, con particolare attenzione ai casi pratici che si manifestano nell'applicazione delle norme statutarie e regolamentari emanate o modificate da Regioni, Comuni, Province, Università ed Enti pubblici.

Honess Claire E., Jones Verina R. (a cura di), Le donne delle minoranze, Claudiana, Torino 1999, pp. 335, L.34.000.

I saggi raccolti in occasione del convegno "Donne delle minoranze: ebraismo e riforma", tenutosi all'Università di Reading (Inghilterra) nel 1998, incrinano l'immagine di un'Italia monoliticamente cattolica e indagano la doppia identità - di genere e di comunità - della metà femminile delle minoranze ebraica e protestante. Il racconto di due cammini paralleli, nel tentativo di capire come sono vissute le ebree e le protestanti italiane, quali modelli sono stati loro proprosti, come si è formata la loro identità, quali sono stati i loro rapporti con le altre comunità...

volontariato


Allison Michael, Kaye Jude, Pianificare il non profit, Mc Graw-hill, Milano 1998, pp. 274, L.38.000.

Gli autori ritengono fondamentale che le organizzazioni non profit riescano ad ottenere il massimo dei risultati ottimizzando al meglio le proprie attività. Per arrivare a questi risultati essi ritengono essenziale la conoscenza della pianificazione strategica. Attraverso un processo articolato in sette fasi, gli autori, illustrano come si crea e si implementa un piano strategico, adatto per le organizzazioni non profit, mirato ed efficace.

Ascoli Ugo (a cura di), Il welfare futuro, Carocci, Roma 1999, pp. 297, L.38.000.

La ricerca di percorsi e modelli che consentano di ripensare le strutture e gli assetti del Welfare State passa per un superamento del dualismo stato-mercato, valorizzando sfere di azione imperniate sul volontariato, sulla solidarietà, sulla reciprocità e sulle relazioni sociali. La crescita del cosiddetto Terzo Settore richiede collaborazione tra soggetti privati ed istituzioni pubbliche, dando vita a sistemi misti di protezione sociale. Il libro vuole fornire un organico quadro di riferimento per comprendere questo fenomeno e delineare alcune specifiche prospettive.

Iudica Giovanni (a cura di), Codice degli enti non profit, Giuffre', Milano 1999, pp. 834, L.94.000.

Nella disciplina prevista dal codice civile per il settore non profit prevale il dualismo tra associazioni e fondazioni; tale disciplina è stata recentemente ripensata dal legislatore in maniera tutt'altro che organica per far fronte ai cambiamenti profondi che hanno interessato questo settore. Ciò è avvenuto in conseguenza della diffusione di Enti non profit che esercitano vere e proprie attività imprenditoriali, sottraendosi tuttavia alle norme che regolamentano l'attività dei privati sul mercato. La prima parte del volume si occupa della normativa sovranazionale, la seconda della legislazione statale (disposizioni di carattere generale e in materia di cooperazione, previdenza, sanità, sport, volontariato, aspetti fiscali e ONLUS), la terza passa in rassegna la normativa regionale.

Stefani Giovanni, Ogni uomo semplice, Il Prato, Padova 1998, pp. 195, L.22.000.

Sei storie vere, raccontate in prima persona, di persone impegnate a titolo di volontariato nell'assistenza, nella politica, nella cooperazione internazionale... L'intento del libro è quello di "avvicinarsi alle radici della scelta personale di fare il volontario e di capire qualcosa della molla che scatta nell'animo di chi si dà da fare per gli altri". Gente strana che non pensa ai soldi né al successo, mossa da grandi ideali, o da vicende personali dololorose, dalla fede, dal senso civico o da tutte queste cose insieme.