Appunti n.125 (articoli principali) (indice Appunti)
Sul ruolo del volontariato Emanuele Alecci - Presidente, Movimento Volontariato Italiano (MoVI) Stagioni di grandi cambiamenti chiedono al volontariato di interrogarsi sul proprio ruolo ed anche sul proprio futuro; tutto questo a partire da alcune connotazioni costitutive quali la gratuità e la tutela dei deboli (indice) Ci poniamo in questo Convegno Nazionale un pesante interrogativo di difficile risposta, Dove va il volontariato? Questo interrogativo nasce dalla consapevolezza che stiamo vivendo un periodo particolarmente difficile per l'azione volontaria nel nostro Paese. L'anno scorso celebrammo come Movimento di Volontariato Italiano il nostro ventennale e lo celebrammo con una importante tre giorni, dal titolo "Il Volontariato nella Transizione". Tutto nasceva dalla consapevolezza che mai come in questi ultimi anni diventa prioritario per l'azione volontaria un'esigenza di chiarimento e di riscoperta dei propri limiti, e dei propri ruoli. Alla domanda dove va il volontariato si sono cimentati molti soggetti. L'Istituzione, le Organizzazioni di Terzo Settore, molte grandi organizzazioni di volontariato, la stessa Conferenza di Foligno, i mass media, libri ecc.. L'ultimo numero della rivista "Vita Pastorale", mensile per operatori pastorali delle Edizioni Paoline, ha ospitato un ampio servizio dal titolo: "Volontariato chi sei, dove vai?", una fotografia articolata delle dimensioni, ma anche delle distorsioni e dei sospetti che gravano oggi sul mondo della solidarietà. Il volontariato - scrive Vita Pastorale, citando il sociologo Pier Paolo Donati - rischia di veder sparire la propria identità originaria e profetica, ancorata cioè alla gratuità, al coinvolgimento personale e diretto, all'impegno civile di denuncia…" La crisi dello Stato Sociale porta con se soggetti sociali nuovi che inglobano al loro interno elementi di volontariato "puro" e ideale con atri fattori che solo indirettamente possono dirsi volontariato. E ancora "tra volontariato profetico e volontariato d'azione (il non profit) il pericolo da evitare è quello di procedere su binari paralleli, che non si incontrano mai o che addirittura si scambiano colpi proibiti esclusivamente a danno di coloro che dovrebbero essere i soggetti primari e finali dell'azione volontaria e di utilità sociale le fasce deboli della popolazione e le persone svantaggiate. Non soccombere alla logica mercantile Il direttore di un settimanale si chiedeva qualche settimana fa? Solidarietà o affarismo nel Terzo Settore? Il rischio che si presenta è che alcuni bisogni, spesso indotti e fittizi, finiscano per alimentare quel mercato dei servizi che sta facendo capolino un po' ovunque, producendo un regime di feroce concorrenza, dove anche il volontariato finisce per diventare una merce. Occorre stimolare il dibattito sul terzo settore, perché non soccomba alla logica mercantile… Dubbi e problemi aperti dunque. Soprattutto in chi si sente volontario ogni giorno, nel proprio impegno associativo, ma anche nella propria dimensione ordinaria di cittadino. Oggi se la solidarietà non assume una dimensione organizzata, rischia di diventare sterile Ma l'organizzazione porta con se complessità e burocrazia, risorse e rendicontazioni, professionalizzazione esasperata. L'alternativa, spesso conveniente anche per il sistema sociale, è trasformare l'organizzazione di volontariato in cooperativa o impresa sociale. Ma a questo punto i vincoli oggettivi del mercato non possono che condizionare libertà, gratuità, innovazione e spirito del servizio del volontariato. Che ne sarà del volontariato inteso come dimensione costitutiva della persona umana, come diritto-dovere previsto dalla Costituzione Italiana? Nella società complessa di oggi, dove le stesse povertà continuano a modificarsi e a farsi più complesse, quale tipo di volontariato ha cittadinanza? Queste le tante domande che oggi ci poniamo, nel tentativo di trovare una risposta e una linea in grande umiltà, l'umiltà che è uno stile di lavoro per il volontariato. Siamo di fronte a problemi generali e specifici per cui appare indispensabile per avviare un primo ragionamento sui ruoli del volontariato, prendere atto delle nuove tendenze che si sono sviluppate nel mondo del terzo sistema e, contemporaneamente difendere in modo specifico e fermo l'originalità del volontariato stesso. Scelte non rinviabili Si pongono allora quattro dilemmi su cui deve pronunciarsi, con equilibrio e scelte precise, il nostro pensiero di volontari. 1) Mi pare che dobbiamo anzitutto riaffermare tutti insieme il contenuto etico del nostro messaggio laico rivolto a credenti e non credenti, per diffondere ovunque la cultura della solidarietà che è più ampia delle sole prospettive del volontariato, raggiunge ed anima qualsiasi tipo di cittadinanza attiva, secondo i dettami della Costituzione. Una coerente risposta ai doveri inderogabili di rimozione delle cause sociali, politiche, economiche che generano l'esclusione. Non si tratterà nei prossimi anni di fare solo formazione e attività destinate al volontariato, ma di contribuire con la nostra specificità alla formazione di un "uomo solidale", pronto alle sfide del 2000. Mi pare questo il nostro primo impegno che risale ai grandi motivi della prevenzione, dell'accoglienza, della gratuità, della condivisione, della molteplicità e pluralismo culturale. Su questo primo punto il volontariato si deve interrogare con coraggio e determinazione. 2) Lo scenario storico del volontariato ha visto spesso in quest'ultimo ventennio la nascita di un terzo settore ampio e agguerrito nella sua rappresentanza degli interessi delle classi sociali oggi a rischio . La conquista, con recenti leggi, dei centri di servizio, dei comitati di gestione regionali, le esenzioni fiscali concesseci attraverso la nascita delle ONLUS, l'impegno forte dell'associazionismo e delle cooperative sociali, ci portano ad una seconda meditazione. Mentre negli anni 80, quando abbiamo iniziato il nostro lavoro i servizi erano quasi tutti in mano al volontariato, per l'assenza di altre componenti, oggi questo panorama è tutto cambiato. Infatti le cooperative, l'associazionismo, le mutualità e le fondazioni sono in grado di offrire servizi sociali continuativi, di carattere "pesante", perché offrono pieno impiego nella giornata a dipendenti che non vivono secondo il parametro della gratuità ma che, giustamente, rispettano le leggi economiche che presidiano i principi dell'impresa, anche se no-profit. Pochissimi gruppi di volontariato sono in grado di rispondere a queste esigenze diurne e notturne, di offrire una continuità giornaliera nei servizi, perché i loro membri sono perlopiù in tutto il mondo persone impegnate nella professione, nel lavoro, che mettono generosamente a disposizione dell'iniziativa solidale qualche ora del giorno, promovendo organizzazioni nazionali e regionali strutturate e continuative. La nascita di queste nuove realtà nel terzo settore, permette di avere risposte pari ai bisogni, spesso anche personalizzati e di categoria, piuttosto sofisticati che si manifestano sul territorio. Si tratta di affidare soprattutto a queste strutture i cosiddetti servizi "pesanti", senza rimpianti, anzi con aperto animo collaborativo. Allora, come e dove dovrà agire il volontariato? C'è un ritorno all'origine, alla sua essenza più intima che dobbiamo tornare a percepire e a tramutare in servizi "leggeri", cioè quei servizi che si addicono alla tutela dei diritti, alla difesa di quelli costituzionali e di cittadinanza, un impegno educativo con tutti i settori mobilitati (famiglia, scuola, movimenti giovanili, Chiesa, anziani, associazionismo, ecc.) per un'educazione alla legalità, alla solidarietà, alla progettualità, alla partecipazione responsabile. La nostra presenza nei servizi di nuovi settori che vanno or ora decollando (protezione civile, culturale, ambientale, della protezione della salute, ecc..) è indispensabile al fine dar vita ad una "comunità educante", politicamente e socialmente. Il campo si presenta come "sterminato", anche perché non si tratta di tutelare i diritti che ci sono, ma di aprire via via alla cittadinanza, a nuovi diritti, quelli che nascono dalla diversa posizione assunta dal volontariato e dal terzo settore nella storia del Paese: da forza residuale a forza promozionale. 3) Qui si apre una nuova riflessione ed è quella della radicale, diversa posizione del volontariato e del privato rispetto al pubblico. Tutta la legislazione sta prendendo una forza regionale sconosciuta. Tutte le autonomie locali sono state potenziate, anche se oggi non ci sono situazioni finanziarie tali da poter raggiungere obiettivi che le leggi hanno loro affidato. In questa prospettiva il volontariato non è più terminale, esecutivo del servizio pubblico ma, per legge, gli è stato affidato un compito di coprotagonista nella programmazione, fin dall'inizio della ricerca delle autonomie locali nell'affinamento degli strumenti per la lotta all'emarginazione. E' in questa strada che dobbiamo avviarci tutti con attenzione particolare alla nostra capacità di progettualità, di programmazione e di valutazione. Questa è la dimensione politica nuova, riconosciuta legislativamente dalle leggi approvate in quest'ultimo quinquennio dal Parlamento. Si tratta ora di farle vivere e di essere capaci di attuarle, perché ritorna la intuizione del 1978 che fece nascere il MoVI, quando sostenevamo che, senza la rimozione delle cause non c'è volontariato, né autentica lotta all'emarginazione. L'impegno completo nelle strutture amministrative come coprotagonisti ci offre l'occasione storica per concretizzare nella vita del Paese gli ideali a cui ci ispiriamo. Per questo mi pare che ci sia la necessità di un dibattito ampio e di un ascolto attento delle nostre riflessioni. In questo modo si esce dall'essere succubi del pubblico, si riprendono le nostre responsabilità nella società civile, soprattutto, si formano dei volontari capaci di continua cittadinanza attiva (dovere costituzionale) e dell'offerta di tempo, di intelligenza, di professionalità, di disponibilità (dono libero del volontariato) 4) La quarta riflessione riguarda una ventata culturale che sta tentando di sommergere o di inquinare il mondo del volontariato. Si tratta di una specie di spinta alla commercializzazione dei servizi, a sottovalutare il portato del dono alla gratuità. Proprio mentre tutta la riflessione sociologica e psicologica nazionale e ancor più quella internazionale, rivalutano questo dono come indispensabile alla vita della nostra società presente e futura. Spesso si è inquinato il volontariato autentico con un rimborso spese o con altri stratagemmi economici, anche fuori da ogni corretto rapporto con i sindacati, spacciando una retribuzione nascosta, in genere inferiore per quantità e qualità alle sicurezze a quelle previste dalla stessa normativa per il volontariato. Altri confondono lavori socialmente utili o particolari attività a pagamento promosse per anziani e handicappati, con la nostra opera di servizio gratuito alla comunità. Noi non ci nascondiamo che in questo campo ci saranno delle rivoluzioni, forse formule alternative al volontariato, ma crediamo di dover respingere ogni tentativo di inquinare la nostra specificità con formule che nascondono, direttamente o indirettamente, un atteggiamento di commercializzazione che non c'è proprio. Dobbiamo rivedere, perfezionare e far attuare pienamente la legge 266/91. Se l'impegno del volontariato sarà soprattutto la nascita di una cultura della solidarietà, della tutela dei diritti, della legalità, della responsabilizzazione dei cittadini, si aprirà ai nuovi servizi leggeri che la società ci offre con le crescenti dimensioni dei problemi sociali e umani che essa enfatizza. Allora dovrà nascere per il volontariato un'attenzione primaria ai problemi della formazione, a tutti i livelli, e un' impegno particolare alla sua funzione educativa in tutti i campi. Quale formazione, con che mezzi, con quali strutture, a che livelli. E' la domanda che ci poniamo tutti insieme, perché questo strumento di particolare importanza, nessuno di noi sarebbe in grado di rispondere qualitativamente alle esigenze del territorio, che sono sempre più complesse e personalizzate. Formarsi è la prima esigenza non strumentale ma etica di valori e contenuti che il volontariato chiede ad ogni grande organizzazione. Le "IPAB" nella riforma dell'assistenza Giovanni Nervo - Fondazione Zancan Tra i punti più controversi del testo di riforma dell'assistenza vi è sicuramente quello delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza e dei loro ingentissimi patrimoni. Beni che devono essere utilizzati esclusivamente per i fini per i quali sono stati donati: i poveri della comunità (indice) Le IPAB (Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza) sono state uno degli scogli, forse il principale, che ha bloccato per molti anni, almeno una trentina, la legge di riforma dell'assistenza. Contrapposizioni ideologiche e di interesse e la tutela di diritti legittimi, impedivano di sciogliere questo nodo. Finalmente, in un mutato quadro politico e istituzionale, il problema viene affrontato con la volontà concorde, sembra, di volerlo risolvere. La proposta di legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, nel testo unificato della Commissione Affari sociali e all'esame della Camera dei deputati all'art. 10 (vedi scheda) fissa i "principi e i criteri direttivi" al governo per emanare entro 180 giorni dalla entrata in vigore della legge "un decreto legislativo recante una nuova disciplina sulle IPAB". Due criteri fondamentali sono "l'inserimento nella programmazione regionale del sistema integrato di interventi e servizi sociali" e "la trasformazione della forma giuridica delle IPAB … assicurando autonomia statutaria, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica ..". Gli aspetti problematici di questa proposta di legge sono quattro: 1) L'autonomia decisionale, amministrativa e organizzativa delle IPAB che meglio garantisce la fedeltà alle tavole di fondazione l'efficienza dei servizi, diminuendo il pericolo della burocratizzazione. Una tendenza statalista di vecchia data, ancora presente in alcune forze politiche, avrebbe voluto incorporarle tout court nei Comuni. La forte resistenza delle IPAB ha indotto il governo a modificare questa posizione. 2) Le IPAB però non possono rimanere dei feudi isolati chiusi in se stessi, rischiando di diventare centri autonomi di potere e di interessi di persone o di gruppi perché anch'esse costituiscono un servizio sociale che non esaurisce il suo compito attuando i servizi per cui i donatori le hanno volute, ma hanno anche una funzione più largamente sociale che assolvono, inserendosi nel sistema dei servizi del territorio. Chi infatti istituzionalmente ha il compito e la responsabilità di garantire i diritti fondamentali dei cittadini e i servizi essenziali che concretamente li attuano sul territorio è l'ente pubblico e al livello di base il Comune. Esso infatti ha la funzione di programmare i servizi essenziali, di reperire, valorizzare le risorse pubbliche e private presenti nel territorio, esercitare la vigilanza e il controllo perché i servizi siano attuati e siano di buona qualità. Le IPAB sono una delle risorse del territorio perciò devono entrare nel sistema dei servizi e collaborare con il proprio specifico contributo. Lo strumento che consente di attuare questa collaborazione mantenendo la propria autonomia sono i Piani di zona, una specie di piano regolatore dei servizi in un territorio definito, partecipando a pari dignità con le pubbliche istituzioni alla programmazione e alla verifica e valutazione dei servizi. 3) Il decreto governativo deve trovare il modo di garantire in modo preciso, inequivocabile e controllabile che tutti i patrimoni delle IPAB sia di quelle che vengono riprivatizzate, sia di quelle che verranno sciolte come prevede la legge, sia di quelle che permarranno nella loro autonomia vengano utilizzati esclusivamente per i fini per cui sono stati donati, con i necessari adattamenti ai nuovi bisogni. Questo era un punto sul quale tutti erano d'accordo, anche quando il partito comunista era all'opposizione; in realtà però molti patrimoni di IPAB che nel corso degli anni sono stati sciolti sono finiti ad altre destinazioni. Sembra proprio che non sia sufficiente che siano destinati a fini di utilità genericamente sociali come sedi di Comuni, di uffici pubblici, di convegni e di mostre. La donazione di quei patrimoni infatti non è stata fatta per la comunità, ma per i poveri della comunità. 4) Il decreto governativo dovrà anche garantire che i servizi prestati dalle IPAB siano di buona qualità, come del resto dovrebbero essere sia i servizi gestiti direttamente dall'ente pubblico, sia quelli convenzionati al privato sociale. Molte volte lo sono già, altre volte no. Il bavaglio imposto alle IPAB con la legge Crispi con la forzata pubblicizzazione e la complessa burocratizzazione in molti casi le ha mortificate e sclerotizzate. L'inserimento nei Piani di Zona può essere lo strumento per rivitalizzarle a vantaggio di tutta la comunità. Obbligo d'istruzione, obbligo di formazione e allievi handicappati Mario Tortello - Docente a contratto di Pedagogia generale, Università di Torino Il 1999 verrà sicuramente ricordato come anno particolarmente prolifero, sotto l'aspetto legislativo, anche per quanto riguarda il settore dell'istruzione e della formazione, compresi i risvolti diretti e indiretti che riguardano gli alunni in situazione di handicap. Sia sufficiente ricordare che è stato elevato di un anno (dai 14 ai 15 anni) l'obbligo di istruzione e introdotto un nuovo obbligo di istruzione fino al compimento del diciottesimo anno di età. (indice) Le importanti innovazioni legislative La legge 20 gennaio 1999, n. 9, "Disposizioni urgenti per l'elevamento dell'obbligo di istruzione" (Gazzetta ufficiale n. 21 del 27 gennaio 1999) (vedi Scheda1), riconosce fra l'altro all'art. 1, comma 9, che, anche nel nuovo anno di istruzione obbligatoria, in materia di integrazione scolastica degli allievi in situazione di handicap, si applicano le norme più favorevoli oggi vigenti: a) consente il "completamento della scuola dell'obbligo sino al compimento del diciottesimo anno di età"; b) entro alcuni limiti e condizioni, ipotizza la possibilità di "una terza ripetenza in singole classi"; c) applica anche alla secondaria superiore le disposizioni finalizzate a costituire classi con un minor numero di allievi, per sostenere l'inserimento dei compagni con handicap; d) autorizza la spesa di 4.104 milioni per l'anno 1999 e di 10.672 milioni a decorrere dal 2000, prevedendo così risorse aggiuntive proprio a questo scopo. Il successivo decreto ministeriale 9 agosto 1999, n. 323, "Regolamento recante norme per l'attuazione dell'art. 1 della legge 20 gennaio 1999, n. 9, contenente disposizioni urgenti per l'elevamento dell'obbligo di istruzione" (Gazzetta ufficiale n. 218 del 16 settembre 1999), dettando norme specifiche per l'applicazione dell'importante provvedimento, contempla fra l'altro provvedimenti relativi all'"adempimento dell'obbligo scolastico per gli alunni in situazione di handicap". A sua volta, la legge 17 maggio 1999, n. 144, "Misure in materia di investimenti, delega al governo per il riordino degli incentivi all'occupazione […]" (Gazzetta ufficiale n. 118 del 22 maggio 1999, suppl. ord. n. 99/L), sancisce l'obbligo di frequenza di strutture formative fino al compimento del diciottesimo anno d'età, istituendo un nuovo "sistema di istruzione e di formazione". Si tratta del "collegato" alla Finanziaria per il '99, conseguente all'accordo sul lavoro stipulato fra governo e parti sociali, che all'art. 68, sotto il titolo "Obbligo di frequenza di attività formative", detta testualmente: "1. Al fine di potenziare la crescita culturale e professionale dei giovani, ferme restando le disposizioni vigenti per quanto riguarda l'adempimento e l'assolvimento dell'obbligo di istruzione, è progressivamente istituito, a decorrere dall'anno 1999-2000, l'obbligo di frequenza di attività formative fino al compimento del diciottesimo anno di età. Tale obbligo può essere assolto in percorsi anche integrati di istruzione e formazione: a) nel sistema di istruzione scolastica; b) nel sistema di formazione professionale di competenza regionale; c) nell'esercizio dell'apprendistato. "2. L'obbligo di cui al comma 1 si intende comunque assolto con il conseguimento di un diploma di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale. Le competenze certificate in esito a qualsiasi segmento della formazione scolastica, professionale e dell'apprendistato costituiscono crediti per il passaggio da un sistema all'altro. "3. I servizi per l'impiego decentrati organizzano, per le funzioni di propria competenza, l'anagrafe regionale dei soggetti che hanno adempiuto o assolto l'obbligo scolastico e predispongono le relative iniziative di orientamento". Va ricordato che, anche queste ultime norme, si riferiscono a tutti i giovani entro il diciottesimo anno di età, compresi quelli con handicap. Tra l'altro, il legislatore dovrebbe preoccuparsi di dettare disposizioni specifiche riferite ai bisogni delle persone con deficit, maggiormente favorevoli. Quando la frequenza della scuola dell'istruzione obbligatoria era fissata sino al quattordicesimo anno di età, il completamento degli studi era consentito fino al diciottesimo anno; sino a quell'età, l'allievo certificato in situazione di handicap conservava un "diritto soggettivo" alla iscrizione e alla frequenza scolastica e non solo un "interesse legittimo". Ora, la forbice si riduce di un anno per quanto concerne l'obbligo di istruzione e addirittura si annulla rispetto al nuovo obbligo formativo. Perciò, una revisione della norma pare necessaria e urgente. Del resto, proprio nei loro confronti dei giovani in situazione di handicap, non sono accettabili percorsi formativi generici e/o ridotti, con la sola previsione di rilasciare al termine degli studi un semplice attestato. Ripetiamo qui quanto già scritto in altra sede: "Se l'obiettivo centrale di ogni intervento destinato a tali allievi è quello di assicurare la piena integrazione scolastica, lavorativa e sociale, è necessario che - proprio nel rispetto della legislazione e della normativa vigente - ogni percorso formativo sia veramente individualizzato e aperto a tutte le conclusioni, compresa quella del raggiungimento del diploma o della qualifica finale: ciò sarà possibile per alcuni allievi, mentre per altri condurrà a un attestato utilizzabile come credito formativo, spendibile anche in altri ambiti" ("Appunti", n. 2/1999). Le disposizioni specifiche contenute nel regolamento applicativo Come si è detto, il regolamento attuativo della Legge n. 9/1999, contempla fra l'altro disposizioni specifiche relative all'adempimento dell'obbligo scolastico per gli alunni in situazione di handicap. Vediamo, in sintesi, che cosa prevede il decreto ministeriale n. 323/1999. Possibilità di completamento dell'obbligo fino ai 18 anni I giovani in situazione di handicap "sono soggetti all'obbligo scolastico per nove anni". "È consentito, a norma dell'art. 110, comma 2 del Decreto legislativo n. 297/94 [testo unico della scuola], il completamento dell'obbligo di istruzione anche fino al compimento del 18° anno di età". Formazione classi prime nella scuola superiore Per favorire l'integrazione degli alunni in situazione di handicap, anche nella scuola secondaria superiore "si applicano, con i necessari adattamenti, le disposizioni già vigenti in materia nella scuola dell'obbligo, anche in relazione alla formazione delle classi". La domanda di iscrizione va corredata dalla presentazione del piano educativo individualizzato svolto e della sua ultima verifica. Certificazione delle competenze maturate Al termine dell'assolvimento dell'obbligo a ciascun alunno viene rilasciata la certificazione delle conoscenze maturate, delle capacità e delle competenze acquisite in relazione al piano educativo individualizzato. Interventi di didattica integrativa Le istituzioni scolastiche, per raggiungere gli obiettivi previsti dal comma 3 dell'articolo 1 della Legge n. 9/1999, "programmano e realizzano, anche in collaborazione con le strutture della formazione professionale delle Regioni, mediante accordi, l'azione formativa del primo anno della scuola secondaria superiore, anche con interventi di didattica orientativa e di organizzazione modulare dei curricoli, finalizzati a: 1. motivare, guidare e sostenere la prosecuzione del percorso scolastico negli istituti della scuola secondaria di II grado, nella prospettiva del conseguimento della qualifica professionale e/o del diploma, da parte degli allievi che ne abbiano le potenzialità; 2. motivare, guidare e sostenere, in un contesto integrato, percorsi educativi individualizzati. Incontri tra scuole e centri di formazione professionale Nel quadro delle iniziative previste per favorire l'interazione tra istruzione e formazione professionale, e sulla base di intese tra 1'amministrazione scolastica periferica e le Regioni o gli Enti locali competenti, per la progettazione e la realizzazione dei percorsi integrati istruzione-formazione, "si attuano appositi incontri tra le scuole e i centri di formazione professionale, coinvolti nella progettazione, tenuto conto delle specifiche esigenze formative degli alunni in situazione di handicap" Fondi per l'attivazione delle iniziative Per l'attivazione, la realizzazione e la gestione delle iniziative su indicate, sono utilizzate le somme stanziate al comma 9 dell'art. 1 della Legge n. 9/1999. Alcune sintetiche considerazioni Sin qui, abbiamo illustrato le nuove norme che concernono l'elevamento dell'obbligo di istruzione per tutti gli allievi e, in particolare, le disposizioni che dovrebbero sostenere l'integrazione di quelli in situazione di handicap anche nella secondaria superiore. Va detto, anzitutto, che - nell'anno scolastico 1999-2000, la legge n. 9/1999 avrebbe permesso di recuperare complessivamente alla scuola e alla formazione almeno 30 mila studenti che, in caso contrario, non avrebbero deciso di continuare gli studi. Tuttavia, i primi dati raccolti da Provveditorati e ministero della Pubblica istruzione segnalano una evasione del nuovo obbligo di istruzione, statisticamente significativa. Essa pare non coinvolgere però la stragrande maggioranza degli allievi in situazione di handicap che hanno conseguito la licenza media; anzi, sarebbero almeno mille i giovani con handicap iscrittisi al primo anno di una secondaria superiore statale, in seguito all'entrata in vigore delle nuove disposizioni che elevano l'obbligo di istruzione; questi andrebbero ad aggiungersi a quasi 18 mila giovani certificati in situazione di handicap che oggi frequentano la secondaria superiore nei diversi indirizzi. Un problema concreto: dalle segnalazioni che giungono da diverse parti d'Italia, vi è motivo di ritenere che non in tutti i casi sia stato però possibile assegnare un docente per il sostegno; ad esempio, nella sola provincia di Torino vi sarebbe un fabbisogno non soddisfatto di almeno 90 insegnanti specializzati, da utilizzare proprio nella secondaria superiore. E, a questo riguardo, vanno evidenziati alcuni "nodi" non risolti, che dovrebbero trovare risposte significative sin dal prossimo anno scolastico: 1) nella scuola italiana aumenta il ricorso a insegnanti per il sostegno senza alcuna specializzazione: negli ultimi due anni, i corsi biennali riproposti nel '95 con nuovi moduli organizzativi e nuovi programmi sono rimasti bloccati, in attesa della formazione universitaria di tutti i docenti; le graduatorie del personale specializzato si sono esaurite; gli uffici scolastici provinciali hanno dovuto fare ricorso a precari privi di una formazione nello specifico settore di impiego (allievi non vedenti, allievi sordi, allievi con deficit intellettivi o di altra natura); 2) i criteri di assegnazione degli insegnanti per il sostegno fissati dalla Finanziaria per il 1998 (1 docente ogni 138 alunni complessivamente frequentanti le scuole di ogni ordine e grado a livello provinciale) si rivelano già inadeguati a coprire l'effettivo fabbisogno nazionale di integrazione scolastica, in particolare proprio nella secondaria superiore; 3) le disposizioni ministeriali applicative della legge n. 9/1999 sono state pubblicate in Gazzetta ufficiale con notevole ritardo rispetto alle scadenze burocratiche previste per la predisposizione di tutti gli interventi finalizzati a assicurare un regolare avvio dell'anno scolastico; soprattutto, tale ritardi hanno impedito che, di fatto, in molte situazioni, potessero essere formate classi prime meno numerose, come previsto dalla norma applicativa. Nei mesi prossimi, l'analisi dei dati qualitativi e quantitativi riferiti all'innalzamento dell'obbligo di istruzione potrà portare elementi concreti di valutazione anche a questo riguardo. Ma, soprattutto, disposizioni e interventi dovranno essere integrati: a) con le ulteriori norme dettate dal già menzionato "collegato" alla Finanziaria per il '99, che stabilisce il nuovo "obbligo formativo" sino al diciottesimo anno di età; b) con le nuove disposizioni circa l'esercizio dell'apprendistato (si veda, il decreto del ministero del Lavoro del 6 aprile 1998, "Attività di formazione degli apprendisti"), che indicano anche i contenuti della formazione esterna all'azienda, da svolgersi nelle strutture regionali di formazione profesionale o nelle stesse strutture scolastiche; c) con l'applicazione dei cosiddetti "decreti Bassanini" per il trasferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle Regioni e agli Enti locali; d) con le nuove norme che potranno essere contenute nel provvedimento legislativo sulla riforma dei cicli di istruzione, ora all'esame del Parlamento. In un quadro normativo così profondamente modificato, assume particolare rilievo proprio l'innalzamento dell'obbligo di istruzione fino al compimento del quindicesimo anno di età. Esso appare sempre più come un momento "cerniera" particolarmente importante fra i due livelli di "obbligo"; un momento essenziale di formazione e di orientamento, come bene si esprime l'art. 3 della Legge n. 9/1999: "Nell'ultimo anno dell'obbligo di istruzione […], in coerenza con i principi di autonomia di cui all'art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, le istituzioni scolastiche prevedono sia iniziative formative sui principali temi della cultura, della società e della scienza contemporanee, volte a favorire l'esercizio del senso critico dell'alunno, sia iniziative di orientamento al fine di combattere la dispersione, di garantire il diritto all'istruzione e alla formazione, di consentire agli alunni le scelte più confacenti alla propria personalità e al proprio progetto di vita e di agevolare, ove necessario, il passaggio dell'alunno dall'uno all'altro degli specifici indirizzi della scuola secondaria superiore". E' davvero superfluo ricordare che anche gli allievi in situazione di handicap debbono essere considerati "della partita" e che, nei loro confronti come per qualunque altro coetaneo, debbono essere previste iniziative qualitativamente qualificate? Come sancisce la Sentenza della Corte Costituzionale n. 215/1987, "è innegabile che le esigenze di apprendimento e di socializzazione che rendono proficua la frequenza scolastica non vengono meno col compimento della scuola dell'obbligo". Una artificiosa interruzione della frequenza di una scuola "inclusiva" può far mancare uno dei fattori che favoriscono lo sviluppo della personalità, può comportare rischi di arresto e di regressione. Non sarebbe un grande risultato, proprio nel momento in cui la graduale ma incalzante realizzazione delle scuole delle autonomie deve condurre a una maggiore flessibilità del sistema formativo, nell'interesse centrale di tutti gli allievi e nella costruzione dei loro progetti di vita. Riferimenti bibliografici o AA.VV. (1998), Handicap e scuola. L'integrazione possibile, edizioni Gruppo Solidarietà, Moie di Maiolati, Ancona. o IANES D., TORTELLO M. (a cura di) (1999a), La Qualità dell'integrazione scolastica, Erickson, Trento o IANES D., TORTELLO M. (a cura di) (1999b), Handicap e risorse per l'integrazione. Nuovi elementoi di Qualità per una scuola inclusiva, Erickson, Trento o PAVONE M., TORTELLO M. (1999), Le leggi dell'integrazione scolastica. Schedario della normativa con commento pedagogico, Erickson, Trento. o TORTELLO M. (1999), Handicap e innalzamento dell'obbligo scolastico, in "Appunti", n. 2/99. A che punto siamo con l'integrazione scolastica? Salvatore Nocera - Federazione Italiana per il Superamento dell'handicap (FISH), Roma La scuola vive un tempo di grandi riforme (dall’autonomia al disegno di legge sulla parità), occorre che in questa fase di profonde innovazioni continui ad essere garantita la piena integrazione scolastica degli handicappati. Un recente disegno di legge riguardante il finanziamento di istituti speciali per ciechi e sordi rilancia invece la logica dell’educazione separata (indice) Dopo l'istituzione dell'Osservatorio sull'integrazione scolastica, operante presso l'Ufficio Studi del Ministero della Pubblica Istruzione. che è stato rinnovato dal Ministro Berlinguer, il processo d'integrazione scolastica ha avuto un forte impulso verso un miglior livello di qualità. L'Osservatorio cerca di seguire quanto avviene sul territorio nazionale, grazie all'Ufficio Studi ed ai suoi terminali, rappresentati dai docenti utilizzati presso i provveditorati agli studi, che da quest'anno sono posti "fuori ruolo", cioè perdendo la sede di titolarità e porterebbero, con la ristrutturazione del Ministero della P.I., essere inseriti nei "Nuclei per l'autonomia scolastica". Inoltre l'Osservatorio, specie tramite il suo "Comitato tecnico", segue l'iter parlamentare dei provvedimenti concernenti sia la riforma della scuola che la collocazione, al loro interno, di aspetti concernenti l'integrazione scolastica. Così il recente Regolamento sull'autonomia scolastica, approvato con DPR n. 275/99, reca, all'art. 4 comma 2 lett. "c" un espresso riferimento alla presenza di alunni con handicap ed alla necessità che la programmazione didattica debba tener conto del loro diritto all'individualizzazione dei percorsi ed all'integrazione nel Gruppo-classe. Anche il DDL sulla "parità scolastica", approvato al Senato ed in discussione alla Camera, ha visto, tramite l'intervento consultivo dell'Osservatorio, migliorata la formulazione riguardante gli alunni con handicap, per i quali si diceva prima che dovesse essere "accettata l'iscrizione da parte delle scuole non statali che vogliono ottenere la parifica"; tale formulazione generica consentiva anche alle "scuole" speciali private" di ricevere finanziamenti contro la logica dell'integrazione; ora invece si dice che deve essere accettata la frequenza secondo quanto stabilito dalla Legge-quadro n. 104/92, chiaro ed indiscutibile riferimento all'integrazione. Infine nell'approvazione alla Camera della "Riforma dei cicli scolastici", ora in discussione al Senato, è stato mantenuto il principio dell'integrazione secondo i principi stabiliti dalla legge quadro, mentre è stato rigettato un tentativo dell'on. Napoli (AN), di prevedere le scuole "speciali" per gli alunni con handicap più "gravi". Il finanziamento agli istituti per sordi e ciechi Ma dove l'Osservatorio ha mostrato la sua importanza sulla difesa dei principi dell'integrazione scolastica, anche perché si è tenuto in sintonia con le ragionevoli richieste delle piccole associazioni e gli organismi culturali più sensibili all'integrazione, è stato nella discussione, ancora in corso, del DDL sulla ristrutturazione degli istituti speciali per ciechi e sordi. La prima formulazione del DDL, proposta al Senato dal sen. Biscardi (DS) prevedeva l'attribuzione di circa 35 miliardi in tre anni agli istituti speciali per ciechi e sordi in attuazione dell'art. 21, comma 10, della legge 59/97 (Legge Bassanini). Dopo alcune osservazioni dell'Osservatorio, il Governo presentò un suo DDL, che aumentava a 60 miliardi i finanziamenti, senza modificare seriamente il testo, come richiesto dall'Osservatorio e dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell'handicap) e da associazioni ad essa federate; queste richiedevano che i fondi fossero in piccola parte assegnati per la ristrutturazione degli istituti speciali per ciechi e sordi e la maggior parte venisse destinata per seguire progetti locali d'integrazione di tutti gli alunni con handicap, e non solo dei ciechi e dei Sordi. Il Senato apportò marginali emendamenti, lasciando sostanzialmente il testo immutato, contro la logica del decentramento e dell'autonomia scolastica e contro la logica dell'eguaglianza fra tutti i disabili; infatti gli alunni con handicap sensoriali, che sono circa il 7% dei 120.000 alunni con handicap inseriti nelle scuole comuni, diventavano unici destinatari degli interventi degli istituti speciali ristrutturati, mentre per i progetti di integrazione degli altri avevano un carattere residuale ed eventuale, cioè solo se avanzava qualche lira. La FISH si è mobilitata, raccogliendo non solo l'adesione delle proprie associazioni federate, ma anche della stampa (Cfr. l'articolo di Mario Tortello, La Stampa del 19/9/99 dal titolo significativo "Senato cieco e sordo" ed i nn. 86-87 di "Handicap e Scuola"); sono state pure coinvolte organizzazioni sociali e culturali esterne, quali il M.O.V.I. (Movimento di Volontariato Italiano), la FIVOL (Fondazione Italiana per il Volontariato), la CGIL-Scuola, che hanno inviato fax alla Commissione "Cultura" della Camera ed al Governo, perché venissero introdotti emendamenti sostanziali, secondo le indicazioni fornite dall'Osservatorio. Nella prima seduta di discussione generale svoltasi in Commissione il 6/10/99 si è subito visto che il lavoro svolto dalla base aveva dato i suoi frutti; infatti sia la Relatrice on. Dedoni (DS) sia il sottosegretario Rocchi, a nome del Ministro Berlinguer e del Governo, dichiaravano che sarebbe stato necessario apportare al testo notevoli emendamenti. Anzi, su richiesta dell'on. Lenti (PRC) il Presidente della Commissione, on. Castellani (PPI) disponeva un'audizione delle associazioni dei disabili ad altri organismi per il 9/10 successivo. Durante l'audizione sono state ascoltate le cinque Associazioni "storiche" che hanno insistito perché il testo venisse approvato senza emendamenti; sono stati inoltre ascoltati l'Ispettore Neri, in rappresentanza dell'Osservatorio del Ministero della Pubblica Istruzione, S. Nocera in rappresentanza della FISH, A. Cotura della FIADDA; P. Rollero per la rivista "Handicap e Scuola" che hanno sostenuto la necessità di emendamenti. Nella discussione sono intervenuti l'on. Voglino e l'on. Riva (PPI) a favore degli emendamenti e l'on. Aprea (FI), contraria. La FISH si è mobilitata per far pervenire a tutti i parlamentari della Commissione proposte di emendamenti, la cui presentazione ufficiale è scaduta il 28/10/99. Pare che le proposte di emendamenti siano state recepite da molti parlamentari della maggioranza e dell'opposizione. Se la Camera apporterà al testo gli emendamenti sostanziali proposti, e se il Senato confermerà, in terza lettura, il testo della Camera, allora il DDL, partito come strumento settoriale ed accentratore di restaurazione, diverrà un valido mezzo di finanziamento per "il potenziamento e qualificazione dell'offerta d'integrazione scolastica" generalizzata e capillare di tutti gli alunni con handicap su tutto il territorio. Per meglio cogliere la portata del cambiamento d'indirizzo di politica legislativa, si pubblica, qui di le parti della memoria depositata dalla FISH, in data 19 ottobre, contenenti le proposte di modifica (il testo integrale può essere richiesto alla FISH, tel. 0651605175, fax 0651883253). "Riccometro" ed obbligazione alimentare Ufficio legislativo, Ministro per la solidarietà sociale (1) Riportiamo la nota dell'Ufficio legislativo del Ministro per la solidarietà sociale inviata in data 15 ottobre 1999 all'ANCI in merito alla "applicazione del decreto legislativo 31 marzo 1998 n. 109, in relazione all'obbligazione agli alimenti di cui all'articolo 433 del codice civile" (indice) In riferimento alla nota di codesta Associazione n. 740/PSA/LB/rs dell'8 ottobre 1999, con la quale si chiede di conoscere l'avviso del Dipartimento per gli affari sociali in ordine a questioni connesse alla disciplina dell'ISEE e a quella prevista dal codice civile in materia di obbligazioni alimentari (articoli 433 e seguenti c.c.); si fa presente quanto segue. 1. La disciplina relativa ai criteri unificati di valutazione delle condizioni economiche di coloro che richiedono prestazioni sociali agevolate (decreto legislativo n. 109 del 1998 e successivi decreti applicativi) non interferisce in alcun modo con la disciplina relativa all'obbligazione patrimoniale agli alimenti, prevista dagli articoli 433 e seguenti del codice civile. Infatti, il nucleo familiare del richiedente viene in considerazione unicamente per il calcolo dell'ISEE del richiedente medesimo, e non per altri fini, e men che mai per l'individuazione dei soggetti obbligati alla prestazione degli alimenti. Per inciso, si osserva che il nucleo familiare rilevante per l'ISEE è composto tipicamente dal richiedente la prestazione agevolata, dalla sua famiglia anagrafica e dai soggetti a carico a fini IRPEF, mentre l'articolo 433 del codice civile considera altre relazioni che possono o meno coincidere con la famiglia anagrafica. In ogni caso i due piani non possono essere confusi; così, per individuare il soggetto obbligato alla prestazione degli alimenti, dovrà sempre farsi riferimento all'articolo 433 del codice civile, indipendentemente dal fatto che il medesimo soggetto sia presente o meno nel nucleo familiare del richiedente. Del contrario non c'è traccia (e non poteva esserci, vista la finalità dell'ISEE e i principi di delega) né nel decreto legislativo n. 109 del 1998, né, ovviamente, nei decreti attuativi. I testi normativi richiamati non offrono alcun margine per una diversa interpretazione. In tale contesto, si condivide l'avviso del Ministero dell'interno, espresso nella nota n. 190 e 412B.5 dell'8.6.99, circa il fatto che l'adempimento dell'obbligazione patrimoniale agli alimenti di cui all'articolo 433 del codice civile debba essere richiesto dal soggetto interessato e non dalle pubbliche amministrazioni. 2. Ai sensi dell'articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n. 109 del 1998, è possibile, da parte dell'ente erogatore, individuare un nucleo familiare diverso da quello tipizzato dall'articolo 2 del decreto medesimo (come successivamente precisato dall'articolo 2 del DPCM 7 Maggio 1999, n. 221). Dette disposizioni stabiliscono solo che ciò possa avvenire "per particolari prestazioni", richiedendosi, pertanto, l'adeguata motivazione della diversa identificazione del nucleo-tipo, da assumere invece a riferimento per la generalità delle altre prestazioni; per le suddette particolari prestazioni è pertanto possibile che sia assunto a riferimento un nucleo composto da una sola persona. Del resto, esiste già nell'ordinamento (decreto legislativo 24 aprile 1998, n. 124, sulla partecipazione degli utenti al costo delle prestazioni sanitarie) un caso che va in tal senso (anziano convivente, di età superiore ai 65 anni), quantunque corretto dalla necessaria presenza nel nucleo familiare del coniuge non legalmente ed effettivamente separato. 3. Si ritiene, corretta (e necessaria) l'interpretazione secondo la quale il diretto beneficiario di prestazioni assistenziali costituisce di norma il soggetto richiedente la prestazione agevolata. In tal senso, nel modello di dichiarazione sostitutiva, adottato con DM luglio 1999, è espressamente previsto il caso della dichiarazione (e quindi della domanda di prestazione sociale agevolata) effettuata dal tutore per conto dell'incapace. L'identificazione di un soggetto quale richiedente la prestazione sociale agevolata deve rispondere ad obiettivi criteri di ragionevolezza, e non può essere effettuata al fine di aggirare la disciplina dell'ISEE. Pertanto, ad esempio, mentre per servizi e prestazioni rivolti ai minori, laddove la prestazione sia collegata all'adempimento di una obbligazione di tipo familiare, è ragionevole identificare in via esclusiva il richiedente nel soggetto esercente la podestà genitoriale, per altre prestazioni ciò non appare possibile, soprattutto quando il beneficiario del servizio o della prestazione (l'assistito) è persona maggiorenne, quantunque incapace. Ciò non vuol dire escludere necessariamente dal novero dei soggetti richiedenti anche altri soggetti componenti del nucleo familiare identificato ai fini ISEE; vuol dire, però, che l'assistito deve essere considerato sempre nel novero dei richiedenti, lasciando così a lui, o al suo tutore, la possibilità di richiedere direttamente la prestazione, risultando pertanto direttamente obbligato verso la pubblica amministrazione nel caso in cui sussista l'obbligo di partecipazione al costo del servizio. 4. E' utile ricordare che il sistema dell'ISEE non sopprime gli attuali spazi di autonomia sulle scelte politico-amministrative connesse all'estensione dell'intervento pubblico in materia di assistenza; l'ISEE obbliga unicamente a seguire un metodo più equo per valutare l'effettiva situazione economica delle persone da ammettere al godimento di prestazioni sociali agevolate, quando cioè un'agevolazione sia prevista in relazione all'erogazione di un servizio, dotando il sistema di valutazione della necessaria forza giuridica dal punto di vista dei controlli su redditi e patrimoni. Risulta, perciò evidente che l'introduzione dell'ISEE non comporta alcuna automatica diminuzione dei livelli generali di assistenza o il disimpegno finanziario degli enti erogatori. In realtà, la responsabilità di restringere o ampliare lo spazio dell'impegno finanziario pubblico sui servizi sociali è in capo agli enti erogatori, e ciò è indipendente dall'ISEE, ed attiene invece alla individuazione delle soglie di accesso. Si tratta, per l'appunto, di una scelta politico-amministrativa, a fronte della quale il sistema di valutazione delle condizioni economiche dell'utenza può essere più o meno efficace (ed è auspicabile che lo sia, per evitare ingiustizie nel trattamento degli utenti ), ma ha un effetto "neutro" può cioè essere sempre lo stesso ed essere utilizzato per politiche di maggiore o minore favore verso la generalità degli utenti. In altri termini non è il sistema di valutazione ad essere più o meno restrittivo, quanto la scelta politica e di bilancio che è alla base della sua utilizzazione, e che si realizza principalmente, come si è detto, attraverso l'individuazione delle soglie di eccesso alle prestazioni agevolate. Sulla Proposta di Piano socio assistenziale della Regione Marche Fabio Ragaini, Gruppo Solidarietà Dopo una lunga attesa, lo scorso ottobre, la Regione Marche ha presentato la proposta di PSA; di seguito ne proponiamo i principali contenuti e un breve commento (indice) A pochi mesi dalla scadenza della legislatura, la regione Marche ha presentato una Proposta di Piano Socio Assistenziale (PSA) che dovrà essere vagliata e definitivamente approvata dal Consiglio regionale. Il Piano (il primo della regione Marche) ha avuto un iter travagliatissimo; dopo un primo incarico affidato (più di cinque anni fa), dalla precedente amministrazione regionale alla Fondazione Labos, con la produzione di almeno tre elaborati, nel 1998 è stato azzerato tutto e riaffidato un nuovo incarico agli attuali estensori del Piano (Ugo Ascoli, coordinatore, Patrizia David, Cristiano di Francia, Pietro Santacroce). Di seguito si riprendono, schematicamente, alcuni aspetti che paiono maggiormente significativi: a) gli assi portanti del Piano (cap. 8); b) gli ambiti territoriali (cap. 3); c) i Piani territoriali (cap. 5); d) la rete dei servizi essenziali (cap. 4). La filosofia del Piano Più volte viene rivendicata la novità del PSA (pp. 96-98, le sottolineature sono nel testo) caratterizzata dalla scelta universalistica "ben lontana da ogni approccio di tipo residuale-minimalista o peggio assistenzialistico. La rete dei servizi essenziali, a partire dall'Ufficio di promozione sociale fino ai servizi dell'emergenza, dovrà essere realizzata negli Ambiti territoriali per contrastare ogni possibile forma di 'disagio' e di 'bisogno'". L'obiettivo è il "miglioramento della 'qualità di vita' per tutte le persone che operano e vivono nei territori di riferimento (..) Gli assi portanti del Piano sono dunque da identificarsi nell'approccio universalistico, nell'enfasi promozionale (più che riparativa), nella scelta della sussidiarietà e nell'ottica del riequilibrio (..) Porsi in un ottica promozionale significa orientare tutti i servizi verso uno stesso obiettivo: rafforzare la sfera dell'autonomia della persona". Il PSA "nasce all'insegna della sussidiarietà verticale e delinea uno scenario in cui i Comuni occupano il centro della scena, come responsabili della rete e della programmazione dal basso tramite i Piani Territoriali (..) La Regione è chiamata a fissare i principali obiettivi da raggiungere e le regole comuni del gioco; programmazione, indirizzo e coordinamento sono i suoi compiti; rimane totalmente estranea alla costruzione della rete dei servizi su scala locale, salvo stimolare l'associazionismo tra i Comuni e l'innovazione progettuale". Gli ambiti territoriali "Obiettivo del Piano è la costruzione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali. Tale obiettivo trova realizzazione in ambiti territoriali di dimensioni comprese tra 15.000 e 100.000 abitanti coincidenti in via preferenziale con le sedi di attuazione delle politiche sanitarie (..) Il modello di gestione che meglio appare funzionale alla attuale fase organizzativa (..) consiste nella predisposizione del bilancio sociale di area (BSA): da quelli più leggeri (convenzioni, accordi di programma), a quelli più strutturati (consorzi tra Comuni)" (pp. 58-59). Ogni ambito deve essere dotato di una "rete di servizi essenziali"(cap. 4); l'ambito deve coincidere con i distretti sanitari o loro multipli; per ogni ambito territoriale verrà nominato un Coordinatore della rete dei servizi dell'Ambito Territoriale. La individuazione degli ambiti territoriali verrà predisposta mediante un atto della giunta regionale entro tre mesi dall'approvazione del Piano. Agli Ambiti Territoriali sono assegnate le seguenti funzioni: - raccordo tra Regione e Comuni (costituzione del Comitato dei Sindaci) ai fini della programmazione degli interventi; - luogo di Coordinamento tra i Comuni e tra questi e altri soggetti pubblici; - attuazione e verifica della programmazione regionale. I Comuni dell'A.T. "adottano il Piano Territoriale" degli interventi, nel quale prevedere la realizzazione della rete dei servizi essenziali; - il livello sul quale ripartire il FSR (ripartito tra i singoli Comuni sulla base del pro-capite). Viene inoltre previsto un Fondo annuo incentivante pari al 10% del FSR per premiare i Comuni che presentano il P.T. e attraverso questi servizi innovativi. Tra i progetti innovativi viene annoverato l'istituzione di un Coordinatore della rete dei servizi; - il livello dell'integrazione tra i servizi socio-assistenziali con quelli sanitari Nota: Se la predisposizione del Piano Territoriale è obbligatoria così come l'istituzione del Coordinatore della rete dei servizi non si capisce perché la loro realizzazione viene incentivata. O sono facoltativi (e allora va cambiata la prima parte del testo) o sono obbligatori (e allora deve essere cambiato questo aspetto). I Piani territoriali Ogni A.T. dovrebbe essere dotato dei Servizi essenziali (previsti al capitolo 4). Il Piano territoriale sarà lo strumento che i Comuni utilizzeranno per la progettazione e realizzazione della rete essenziale dei servizi. Il "Piano è adottato mediante un accordo tra i comuni associati nelle forme previste dalla legge" (quale?) ed è "trasmesso alla giunta entro sei mesi dalla approvazione del Piano. Il "P.T. ha validità triennale. Gli A.T. che non hanno predisposto il Piano nel 2000 possono presentarlo l'anno successivo". Nota: Gli A.T. verranno istituiti solo dopo un Atto della giunta regionale previsto entro tre mesi dalla approvazione del Piano; risulta pertanto impensabile che a sei mesi dall'approvazione del PSA sia possibile, da parte dei comuni degli ambiti, presentare il P.T. (forse per questo si specifica che chi non ha predisposto il P.T. può presentarlo l'anno successivo). La rete dei servizi essenziali "L'assolvimento delle funzioni e l'erogazione delle prestazioni avviene in regimi ed ambiti diversi: I regimi devono intendersi come luoghi di erogazione delle prestazioni (..). si identificano cinque aree organizzative delle prestazioni" (pag. 73): Organizzazione delle prestazioni: a) Ufficio di promozione sociale (per bacini di popolazione di 10.000-15.000 abitanti; b) Servizi a domicilio, c) Servizi semi-residenziali, d) Servizi residenziali (residenze alberghiere, case famiglia, gruppi appartamento, residenze protette); e) Interventi per l'emergenza. a) Ufficio di promozione sociale. Per 10-15.000 abitanti con 1 assistente sociale ed un operatore di supporto. Il personale viene reperito sulla base di intese ed accordi intercomunali. b) I servizi a domicilio. Elencazione di possibili prestazioni (di carattere sociale, psicologico, di cura, ecc..) . Si accede alle prestazioni tramite l'ufficio di promozione sociale. c) Servizi semi-residenziali. "Una serie di prestazioni possono essere convenientemente organizzate avvalendosi di strutture di ospitalità diurna"; questa definizione semplifica i contenuti di questo paragrafo che indica poi per ogni A.T. la presenza "di almeno una sede per attività diurne" (vedi nota). d) Servizi residenziali. Si parla di: a) alloggi temporanei (per accoglienza di non autosufficienti totali o parziali per periodi di tempo limitati; il dimensionamento deve esser valutato sulla base di caratteristiche demografiche, gegrafiche, ecc..); le residenze protette (per non autosufficienti totali o parziali); le case famiglia, gli alloggi autogestiti (per queste due strutture nulla viene specificato). Si indicano poi i compiti di queste strutture (sorveglianza, tutela, riabilitazione, cura, animazione socializzazione). Si propone inoltre per ogni struttura residenziale anche l'attivazione di servizi diurni. e) Interventi per l'emergenza. Per necessità economiche straordinarie, tutela ed assistenza a minori o non autosufficienti sprovvisti di assistenza familiare, per persone improvvisamente prive del loro alloggio. Nota. In particolare su questa specifica parte si veda la nota del Coordinamento Volontariato Vallesina. Per quanto riguarda i servizi semi-residenziali, quando si passa dalla genericità ad indicazioni che vogliono sembrare più "vincolanti", si rischia di offrire contenuti alquanto preoccupanti. Quando si afferma che "ogni ambito deve disporre almeno di una sede per attività diurne (..) dove sia possibile organizzare attività programmando, nel caso di servizi polifunzionali, gli accessi in relazione ad esigenze di interventi specifici", forse non si valuta a sufficienza il rischio di proporre in questo modo dei veri e propri contenitori per situazioni molto differenziate. Così in una stessa struttura, naturalmente di ampie dimensioni, potrebbero essere "relegate" tutte le forme di disagio e di difficoltà di un territorio. Questo si che appare un approccio residuale, assistenziale e minimalistico. Anche riguardo i servizi residenziali nessuna specificazione viene fornita sul significato degli interventi previsti; solo vaghi riferimenti al concetto di "non autosufficienza". E' residuale specificare ad esempio cosa si intende per comunità alloggio indicando quale tipologia di utenti dovrebbe accogliere, il numero massimo degli stessi, il dimensionamento (sia in termini di struttura che di standard assistenziali)?; è minimalistico offrire specificazioni in merito ai servizi (specifici) ad esempio per persone handicappate, o per minori privi temporaneamente o permanentemente di sostegno familiare o per anziani autosufficienti o parzialmente non autosufficienti che ricorrono ai servizi residenziali. Se il Piano, come afferma, intende promuovere una "progettazione dal basso", non si vede di quale ostacolo possa risultare la definizione di alcuni standard di funzionamento dei servizi. La continua ripetizione del modello ispiratore del Piano in contrasto con altri modelli ritenuti obsoleti sembra voler ricordare al lettore la grande novità di questo PSA. Ma non è detto che i contenuti siano all'altezza delle premesse. In difesa del servizio civile Il documento che segue è frutto di una consultazione tra i vari soggetti del mondo ecclesiale e delle associazioni di ispirazione cristiana (Caritas italiana, Azione cattolica, CNCA, Agesci, Pax christi, Cnos – Ispettorie salesiane, Acli, Federsolidarietà, Volontari nel mondo-Focsiv). Rappresenta uno strumento e di riflessione che intende favorire analisi e contributi al dibattito in corso per sensibilizzare l’opinione pubblica e per essere forza di pressione verso le istituzioni. (indice) C'era una volta il servizio civile ... ... fino a quando il governo D'Alema con un disegno di legge sull'abolizione della leva obbligatoria lo espose a incerto destino. La decisione del Consiglio dei ministri, largamente e variamente dibattuta in questi giorni, pone non pochi ed inquietanti interrogativi di ordine politico, legislativo ed etico. Ma in questo nostro intervento vorremmo soprattutto soffermarci sulle ricadute di tipo educativo e culturale delle scelte del governo; lo facciamo non già a difesa di un "beneficio" per organizzazioni ed enti, ma a partire dall'attenzione pedagogica verso il mondo giovanile che ci caratterizza e che determina - per una parte dei soggetti firmatari di questo documento - l'accoglienza e la valorizzazione degli obiettori di coscienza in servizio civile. Difendere la Patria, scegliere la pace In questi anni la possibilità di "servire la Patria" - e soprattutto il territorio e la gente che lo abita - è diventato patrimonio culturale diffuso. Sono fiorite molteplici esperienze di servizio sociale, assistenziale, sanitario, educativo, ambientale; in organismi di vario orientamento ideale, presso enti pubblici o del terzo settore, sul proprio territorio o in altre parti del paese e, ultimamente, anche all'estero. E questo a partire da una scelta di pace (l'obiezione all'uso delle armi) che ha favorito un più forte coinvolgimento di molti giovani sui temi della giustizia, dei diritti, della lotta alle povertà, della responsabilità civile. In definitiva alla democrazia. Abbiamo fatto educazione civica Non sono molte le occasioni offerte oggi ai giovani per interrogarsi sulla responsabilità e la cittadinanza, per allargare lo sguardo sui problemi del mondo e praticare concretamente l'incontro col prossimo (che vuol dire anche il povero, l'immigrato, l'emarginato...) in termini di condivisione. Si fatica a porre l'uscita da un cerchio spesso angusto di affetti e di interessi, l'idea di "pensare in grande" il proprio futuro. Per il diretto e quotidiano contatto con molti giovani, possiamo attestare come un servizio civile qualificato sia stato in Italia una formidabile esperienza di "educazione civica" sui temi della pace e della solidarietà, una pratica quotidiana di socialità e altruismo ed anche una palestra di ulteriori responsabilità una volta in congedo: dall'impegno come amministratori locali al lavoro in cooperative sociali, dall'animazione del territorio alla diffusione di stili di vita solidali nelle famiglie. Come pure molte scelte professionali che richiedono capacità relazionali sono state connotate positivamente dall'aver svolto un servizio nel sociale, soprattutto se rivolto a soggetti deboli. Dovere per tutti o privatizzazione delle scelte? questa opportunità, che ha contribuito ad aprire la mente e il cuore di molti giovani, è stata fino al presente resa possibile dall'adempimento di un dovere di solidarietà, in fedeltà alla Costituzione: lo Stato proponeva ai giovani il servizio militare oppure quello civile come apporto personale al benessere della comunità da cui ciascuno riceve. Adesso la proposta cambia radicalmente: per coloro che vorranno è aperta la professione del militare per un periodo prolungato. Da uno Stato "casa di tutti", che chiede di contribuire al bene comune, allo Stato "datore di lavoro". È un cambiamento di prospettiva da valutare con attenzione; inciderà negativamente sugli ideali di pace, solidarietà e partecipazione che sono patrimonio della nostra Carta costituzionale? Non possiamo non chiederci ... ... se siamo pronti al cambiamento, quali significati l'abolizione della leva assuma per i giovani e per tutto il paese. Quali giovani sceglieranno il mestiere del soldato? In base a quali motivazioni? Crescerà la distanza tra società civile e apparato militare? Chi saranno i responsabili e in definitiva gli educatori dei futuri militari di professione' chi e che cosa serve perché l'esercito del futuro sia una vera forza di polizia internazionale? Il passaggio verso forme di ingerenza umanitaria è delegabile a professionisti o richiede ancor più il contributo di una società civile già capace di significativi impegni di solidarietà internazionale? Non si vive di solo consenso Sono interrogativi che al momento non trovano risposta dall'annunciata abolizione della leva e che a noi sembrano decisivi. C'è bisogno di allargare contestualmente il dibattito sul significato del servizio militare - dall'impatto che provoca sui giovani di leva alla sua funzione nei nuovi scenari internazionali - e sul futuro di un servizio civile impegnativo e responsabilizzante. Abolire la leva obbligatoria per tranquillizzare i genitori preoccupati dal nonnismo, per alzare il basso livello di gradimento che le istituzioni hanno presso i giovani, ci sembrano idee di corto respiro. Secondo noi la strada passa da tutt'altra parte, chiede l'impegno e la fantasia di voler fare una scommessa sui giovani, progettare con loro rinnovati percorsi di cittadinanza attiva. Aprire il confronto In forza di queste attenzioni e preoccupazioni, riteniamo importante e urgente che si apra nel paese, nella società civile, nelle associazioni, nelle scuole, nelle parrocchie un grande dibattito sulle prospettive della riforma delle forze armate che contestualmente affronti l'ipotesi di un servizio civile per tutti i giovani, maschi e femmine, come opportunità di diffusione dei valori della pace, della solidarietà, della partecipazione. Inoltre chiediamo: - al Presidente della Repubblica di farsi garante del rispetto del dettato costituzionale, in particolare per ciò che attiene l'esercizio dei diritti/doveri di solidarietà e l'adempimento dell'obbligo della difesa della Patria (articoli 2 e 52); - al Governo, al Parlamento e alle forze politiche di legiferare contestualmente sul servizio militare e quello civile in maniera attenta alla valorizzazione delle energie giovanili; - alla comunità ecclesiale di proseguire e intensificare quell'azione di educazione delle giovani generazioni alla solidarietà e alla pace che in questi anni ha avuto tra i luoghi privilegiati la scelta dell'obiezione di coscienza e l'impegno del servizio civile. |