Sito Gruppo Solidarietà

Appunti n.126 (articoli principali)
(indice Appunti)


L'etica dello stato sociale
Carlo Maria Martini - Arcivescovo di Milano
Riportiamo ampi stralci della relazione che il Card. Carlo Maria Martini ha tenuto lo scorso 24 novembre, a Roma in occasione della Prima Conferenza nazionale della sanità, organizzata dal ministero della sanità.
(indice)
La mia esposizione si divide in quattro momenti: 1. La crisi dello Stato sociale; 2. Le ragioni dello Stato sociale; 3. verso un nuovo modello di Stato sociale; 4. Stato sociale e sanità che cambia.

La crisi dello stato sociale
La discussione che in questi anni è andata sviluppandosi sullo Stato sociale e sulla necessità di un suo ripensamento e di una sua riforma prende le mosse dalla rilevazione della crisi che esso ha conosciuto e conosce e che così viene descritto da Giovanni Paolo II nella Centesimus annus: Si tratta di una crisi dalle diverse angolature. E' certamente una crisi dai risvolti economici, che si è manifestata attraverso una crescente spesa pubblica, che ha originato e origina paurosi "deficit" nelle casse dello Stato e che non ha il corrispettivo di prestazioni efficienti.
Ma tale crisi è anche di tipo istituzionale, determinata dal monopolio della gestione della cosa pubblica da parte del "triangolo" Stato, imprenditori, sindacati tradizionali con la conseguente emarginazione di altri soggetti sociali.
E', inoltre, una crisi amministrativa, in quanto l'amministrazione, nel suo complesso, è diventata eccessivamente burocratizzata, poco efficiente, priva di adeguati controlli, quasi un "sotto-sistema" che appare più in funzione di se stesso e di che vi opera che in funzione della società e dei cittadini.
E' infine, una crisi dai risvolti etico-culturali, connessa com'è quella sulla crisi di quell'etica della solidarietà, da cui lo Stato sociale era nato, dovuta al prevalere di una solidarietà chiusa e neo corporativa.
Comunque la si voglia interpretare - se come crisi congiunturale e settoriale, prevalentemente economica, politico-amministrativa e fiscale, o come crisi strutturale che investe ogni parte e ogni aspetto del sistema societario contemporaneo e, quindi, anche come crisi valoriale-ideologica - è innegabile che oggi si assiste alla crisi di quel modello di Stato che "si proponeva di allargare la tutela dei cittadini attraverso lo sviluppo delle "politiche sociali, ossia di politiche dirette a dare attenzione ai diritti sociali quali la salute, l'assistenza, l'istruzione, il lavoro".
Tale modello - almeno così come di fatto è andato realizzandosi, trasformandosi sempre più da Stato " sociale" in Stato "assistenziale" - appare inadeguato o comunque di difficile continuazione. Come è stato notato, "sembra si possa dire che esso, così come si è venuto ultimamente strutturando, ha finito la sua funzione storica. La nascita di nuovi attori sociali di solidarietà che si affiancano a quelli tradizionali, la crescente domanda di un benessere da realizzarsi in modo più qualitativo che quantitativo, esigono che lo Stato del benessere assistenzialistico sia profondamente ristrutturato".
Non è quindi dubbio - come viene concordemente affermato - che ci sia bisogno negli Stati moderni di un cambiamento da realizzare in modo radicale. Ma tale conclusione può essere foriera di un grave rischio e, insieme, di una grande opportunità.
Il rischio è che, dietro all'affermazione della necessità di una profonda ristrutturazione dello Stato sociale, si camuffi l'intenzione di cancellare lo stesso principio di solidarietà tra le diverse fasce della società che lo aveva ispirato, in nome di una sorta di immediato pragmatismo e di acritica esaltazione dell'individualismo, del puro mercato e della iniziativa privata.
L'opportunità, invece, consiste nell'avviarsi decisamente verso la revisione dei meccanismi e della configurazione dello Stato sociale proprio in nome di una più reale e sicura tutela dei diritti fondamentali dei soggetti più deboli, recuperando così la realizzazione delle istanze etiche originarie dello Stato sociale.
Si impone, quindi, un'attenta opera di vigilanza e di discernimento affinchè - facendo a meno delle sovrastrutture e degli apparati burocratici che lo hanno soffocato - non venga meno uno Stato sociale rettamente inteso e, ancora più radicalmente, non finiscano quelle "politiche sociali" che ne sono o ne dovrebbero essere l'anima più vera e irrinunciabile.
In altri termini, ciò che può e deve venire meno non è "l'idea" e l'essenza dello Stato sociale, ma una sua scorretta realizzazione.
Infatti, ancora oggi - precisa Giovanni Paolo II in un suo discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali - è "essenziale che l'azione politica assicuri un equilibrio di mercato nella sua forma classica, mediante l'applicazione dei principi sussidiarietà e di solidarietà, secondo il modello dello Stato sociale". E questo nella convinzione che se quest'ultimo funzionerà in maniera moderata - cioè ad assicurare quell'equilibrio del mercato e consentendo l'applicazione di quei principi di sussidiarietà e di solidarietà di cui si è appena detto - <manifestazione di civiltà autentica, uno strumento indispensabile per la difesa delle classi sociali più sfavorite, spesso schiacciate dal potere esorbitante del "mercato globale">>.

Le ragioni etiche dello stato sociale
Lo Stato sociale, quindi, <il recupero della centralità di alcuni valori e di alcuni soggetti>>.
A tale proposito, si tratta di ricordare, anzitutto, che <> i meccanismi del mercato, <>.
E, d'altra parte, a tale bisogni non si può non dare adeguata risposta. Scrive ancora il Papa nella Centesimus annus: <>.
La prima ragione etica che richiede ed esige la realizzazione di uno Stato sociale può essere individuata nel diritto inalienabile di tutti al soddisfacimento dei bisogni fondamentali. Si tratta di un diritto universale, che riguarda ogni uomo per il solo fatto che è persona; come tale è un diritto che si manifesta con tutta la sua urgenza nelle persone più deboli, bisognose, povere.
Proprio perché si tratta di un diritto inalienabile, ci troviamo di fronte a una questione di giustizia e di verità: non è un problema la cui soluzione possa essere lasciata solamente alla carità volontaria o alla libera iniziativa di qualcuno, che pure sono importanti e chiedono di essere promossi e valorizzati; è un dovere di stretta giustizia della società e perciò lo Stato, che ha responsabilità di governo della società, deve comunque provvedere a che sia adempiuto.
Quanto appena detto, però, non significa necessariamente che per rispondere a questi bisogni si debba costituire uno Stato "assistenzialistico". E questo perché tra i bisogni fondamentali dell'essere umano c'è anche quello di poter sviluppare le proprie attitudini e valorizzare le proprie capacità. Così leggiamo ancora nella Centesimus annus: <>.
Ne segue che ai bisogni e ai diritti fondamentali dell'uomo corrispondono dei doveri, la cui realizzazione va promossa e favorita dalla società e, in essa, dallo Stato. In questo senso, dall'esigenza etica appena illustrata deriva la necessità di uno Stato che sappia incentivare e consentire, armonizzandole, la responsabilità, la creatività e l'iniziativa personale dei cittadini.
In altre parole, siamo di fronte all'esigenza di uno Stato sociale che non tralascia certo di realizzare un'autentica solidarietà, ma che nello stesso tempo non riduce la solidarietà ad assistenzialismo. Quella che siamo chiamati a vivere e a realizzare è <>.
Quella fin qui descritta può anche essere qualificata come espressione di quella "giustizia sociale" che, da un lato, mira a far sì che a ciascuno, in quanto facente parte di quel tutto unico e comunionale che è l'umanità, siano garantiti i suoi diritti inalienabili e che, dall'altro, conduce a esigere da ciascuno la realizzazione dei suoi doveri fondamentali in armonia con quelli dell'intera società. Ed è proprio questa giustizia sociale a stare alla base delle ragioni etiche dello Stato sociale.
Alla luce di quanto siamo venuti dicendo, non è difficile notare come la realizzazione di un autentico Stato sociale, che corrisponda alle esigenze etiche prima richiamate, chieda di rispettare e di attuare i principi di sussidiarietà, di solidarietà e di responsabilità. Si tratta di principi tra loro inscindibili, da salvaguardare e applicare quindi in modo unitario e, per quanto possibile, simultaneo.
Il principio di sussidiarietà non può certo subire una sorta di negazione, come se tutto il potere appartenesse alle istituzioni statali e gli altri soggetti pubblici o privati ne esercitassero solo una parte per concessione e per deriva residuale'. E necessario, piuttosto, addivenire a una sua corretta e adeguata interpretazione, in grado di conciliare armonicamente, senza indebite e semplicistiche riduzioni i compiti e le attribuzioni dei diversi soggetti: dalla comunità internazionale con le sue istituzioni allo Stato, alle regioni, agli altri enti locali, ai corpi intermedi, alle famiglie, ai singoli.
Strettamente connesso con quello di sussidiarietà e quasi come altra faccia della stessa medaglia, è il principio di solidarietà, intesa come determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune.
Il rispetto e l'attuazione di questo principio, tuttavia, deve andare di pari passo con la crescita di un'autentica cultura della solidarietà. E' una cultura che chiede di superare ogni concezione "assistenziale-sentimentalistica" della solidarietà stessa e che, nel medesimo tempo, sa riconoscere e mettere in luce il nesso che intercorre tra efficienza e solidarietà, convinti che quest'ultima, proprio in quanto risponde a un principio etico superiore di prossimità verso chi si trova in condizioni di bisogno, può essere considerata anche una " convenienza " per lo stesso funzionamento complessivo della società. La solidarietà, inoltre, può essere realizzata mediante una pluralità di " reti di sostegno ", capaci di attuarsi in ordine a una molteplicità di situazioni, che di per sé non riguardano soltanto i "poveri".
L'esercizio reale dei due principi appena richiamati non può non affondare obiettivamente le sue radici nel principio di responsabilità: esso è la condizione "sine qua non" per la loro effettiva realizzazione. Tale principio implica che ogni soggetto del vivere sociale si assuma, per quanto a lui compete e in stretta sinergia con gli altri, il dovere di una attiva e creativa partecipazione al bene comune, nella convinzione che << tutti siano responsabili di tutti>>.
In altri termini, si potrebbe dire sinteticamente che, per dare vita a un autentico Stato sociale, è necessario e urgente costruire una << società adulta e amicale, nella quale responsabilità, solidarietà e sussidiarietà costituiscano i pilastri fondanti dell'intera convivenza>>. Ma perché ciò possa avvenire, << la società deve fondarsi sulla reciprocità, che è anche il perno dell'amicizia. In essa, i patti fondamentali non scendono più dall'alto, bensì sono stabiliti tra pari: le regole, espressione di quanto richiesto dal bene comune esigono sottomissione da parte di tutti; delle stesse regole ogni soggetto sociale deve condividere le ragioni che le determinano; ad ogni persona, soggetto o istituzione è chiesta "prontezza e disponibilità a farsi carico attivamente e positivamente delle esigenze del bene comune, provvedendovi gratuitamente e generosamente, secondo le proprie disponibilità e possibilità".

Verso un nuovo modello di stato sociale

Alla luce di questi criteri etici, la profonda ristrutturazione dello Stato sociale, alla cui necessità ho prima accennato, non può certo avvenire. accettando quella tendenza radicalmente neoliberista che contesta la necessità dell'intervento pubblico e dì un sistema dì sicurezza sociale, giungendo a "tagliarli" drasticamente o addirittura ad abolirli. Verrebbero meno, infatti, i principi fondamentali di giustizia sociale e di solidarietà.
D'altra parte, non si può accettare neppure l'atteggiamento di chi vorrebbe mantenere lo Stato sociale così com'è, rigettando ogni ipotesi dì riforma strutturale come un tentativo di espropriare i cittadini dei propri "diritti acquisiti". In tal modo si darebbe fiato ad una logica sostanzialmente egoista, che finisce con il difendere gli interessi corporativi più forti, a scapito di quelli delle categorie più deboli".
Si tratta piuttosto, di pensare ad una riforma strutturale dello Stato sociale, capace di riqualificare la spesa sociale e di armonizzare in modo nuovo efficienza e solidarietà, mercato e Stato, privato e pubblico.
Come si legge in un testo della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro della CEI, "un nuovo Stato sociale non può essere governato solo da un centro pensato come vertice della società né può essere forgiato dalla "mano invisibile" del mercato. Il binomio Stato-mercato, che ha costituito l'asse portante di tutta la società moderna e su cui si, sono retti i regimi di Stato sociale nel secondo dopoguerra, non è più sufficiente né adatto. E' necessario far intervenire un terzo polo, il cosiddetto terzo settore o privato sociale, costituito da libere associazioni, volontariato, cooperative di solidarietà sociale, fondazioni e organizzazioni varie del tipo no- profit. [...] In altri termini, è necessario pensare a Stato, mercato e "terzo settore" come poli aventi pari dignità e in relazione tra loro" .
Ciò significa che la necessaria ristrutturazione dello Stato sociale potrà avvenire se si saprà superare la vecchia forma organizzativa del "Welfare State" per lasciare il passo a una nuova struttura che valorizzi le reti comunitarie " e tutte le risorse sociali presenti e operanti.
Questo comporta ed esige, in primo luogo, di interpretare e organizzare il mercato e l'economia riconoscendone il valore e i limiti.
In particolare - come fa il Papa nella Centesimus annus - va affermata la positività di un "sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell'economia" e va pure riconosciuta, in questo quadro, la giusta funzione del profitto e, più generalmente, dell'efficienza economica.
Ma, nello stesso tempo, occorre riconoscere i limiti intrinseci del mercato e non si può fare dell'efficienza economica il criterio fondamentale di azione e di decisione: l'economia, infatti, "è solo un aspetto e una dimensione della complessa attività umana"; il SUO limite intrinseco consiste nell'essere essenzialmente relativa all'uomo: essa ha la persona umana come soggetto, fondamento e fine.
In secondo luogo, è necessario riprecisare il ruolo dello Stato. In particolare, va riaffermata la necessita' di superare definitivamente la figura di "Stato assistenziale, consapevoli che esso, "intervenendo direttamente e responsabilizzando la società, [ ... ] provoca la perdita di energie umane e l'aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese".
Nello stesso tempo, però, si deve riconoscere e sostenere che "l'attività economica, in particolare quella dell'economia di mercato, non può svolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e politico"; di qui il compito dello Stato di favorire, armonizzare e guidare lo sviluppo e l'esercizio dei diritti umani nel settore economico.
Ma tutto questo non basta. Si dovrà, piuttosto, passare attraverso sia l'attivazione di più soggetti sociali in integrazione con gli organismi pubblici sia la valorizzazione di tutte le risorse presenti sul territorio (dalle famiglie, al volontariato, all'associazionismo, alle singole realtà istituzionali).
Ciò significa recuperare e rilanciare la "soggettività della società" incoraggiando e sostenendo la "responsabilità" delle persone, singole o aggregate, affinché la società civile abbia a esprimersi come forza autonoma rispetto sia allo Stato sia al mercato.
Soprattutto, però, si tratta di non dimenticare che mercato, Stato e società nella loro specificità e nel loro rapporto rimandano a un al di là" e a un "centro" che costituisce la realtà unitaria" a cui fanno riferimento, da cui nascono, per la quale esistono e operano. Tale realtà è la persona umana.
Il problema, quindi, non è solo di coniugare correttamente mercato Stato e società. Più radicalmente si tratta di riuscire a " rispettare" e a "salvare" ogni singolo uomo e l'umanità intera. Questa è la vera sfida dello Stato sociale.

Stato sociale e sanità che cambia
Dopo aver cercato di descrivere l'etica dello Stato sociale, vorrei proporre alla comune considerazione qualche linea di riflessione che - senza prendere posizione di fronte ai cambiamenti oggi in atto nel sistema sanitario nazionale - possa ispirare e orientare le scelte da farsi perché siano coerenti con quella visione di Stato sociale che sono venuto tratteggiando.
Di fronte a una cultura che spesso sembra spingere a considerare l'intero sistema sanità come una qualsiasi azienda, la salute come un prodotto e il malato come un cliente, è urgente e necessario riaffermare la centralità della persona umana.
Anche qui - come ho ricordato prima per lo Stato sociale in generale - la sfida più grande è quella di rispettare, salvare e promuovere la dignità della persona umana e, in particolare, di quella persona che si trova in uno stato di sofferenza, di malattia, di debolezza.
Si tratta, in altre parole, di riscoprire il senso più vero e 1' esigenza più impegnativa della centralità dell'uomo ogni volta che si parla di salute e di sofferenza.
Tale riscoperta si fa più urgente e necessaria nel contesto di una sanità che cambia. Come ogni cambiamento, infatti, anche quello della sanità può esaltare l'uomo nel suo valore più profondo, oppure lo può minacciare; può essere il risultato di condizionamenti, pressioni e interessi passivamente subiti, o può segnare il punto di partenza per un cambiamento a misura d'uomo. Quanto più tale cambiamento si fa esteso e profondo, tanto più si fa urgente una essenzialità di valutazione e di scelta, che può derivare solo dall'attenzione intelligente, amorevole e operosa per l'uomo e per la sua inalienabile dignità personale.
Ne segue la necessità di impegnarsi per una "ripersonalizzazione" della medicina, che favorisca l'instaurarsi di un rapporto "dalle dimensioni umane con il malato.
Ciò che è in gioco è quella umanizzazione dell'intero sistema sanitario, di cui molto si parla e che chiede di trasformarsi in atteggiamenti e scelte concrete. Una umanizzazione sia dei rapporti medico-malato sia delle diverse strutture sanitarie; ma, ancora più profondamente, una umanizzazione della condizione del nascere, del soffrire e del morire.
Tale umanizzazione risponde a un dovere di giustizia e di civiltà, domanda l'impegno di tutti e, in particolare, una maggiore sensibilità nei responsabili della cosa pubblica, nei diversi amministratori e nei molteplici operatori sanitari. Umanizzare il sistema sanitario significa, senza dubbio entrare sempre di più nell'ottica di una cura della persona che non si riduca solamente a terapia, ma si apra a un più disteso e ampio "prendersi cura" della persona. Vengono qui chiamati in causa i vari momenti della prevenzione, della cura, della riabilitazione e dell'assistenza.
Nello stesso tempo, il "prendersi cura" della persona porta a interrogarsi anche sullo stesso concetto di salute. A tale proposito - come ha ricordato anche Giovanni Paolo Il qualche giorno fa - "è importante acquisire una più adeguata visione della salute, che si fondi in un'antropologia rispettosa della persona nella sua integralità. Lungi dall'identificarsi con la semplice assenza di malattie, un tale concetto di salute si pone come tensione verso una piena armonia e un sano equilibrio a livello fisico, psichico, spirituale e sociale".
Perché l'umanizzazione del sistema sanitario sia reale, occorre anche e inscindibilmente che tutta l'azione sanitaria sia svolta al massimo delle capacità umane: è questa un'esigenza etica che corrisponde, tra l'altro, a quel principio di responsabilità al quale ho fatto riferimento parlando dello Stato sociale. (..) Parlare di sanità - come è ovvio - vuol dire parlare di tutela della salute,- ossia di un fondamentale diritto della persona, che fa parte di un insieme di diritti di cittadinanza intesi in senso societario, pluralista e solidale. ai quali corrispondono beni collettivi, che possono essere ottenuti solo se i soggetti sociali si relazionano tra di loro.
Ne segue che l'intera comunità sociale - a iniziare dallo Stato nelle sue varie articolazioni - non può non rispettare e promuovere questo diritto, rispondendo cosi al bisogno di cui esso è espressione. E quindi necessario che l'intera società, secondo un'ottica coerente con il principio di sussidiarietà, garantisca la protezione e la cura dei suoi membri e si faccia carico di quelle necessità che essi non sono in grado di risolvere in proprio. (..) Proprio perché ciò che è in gioco è la tutela della salute, non possiamo dimenticare che ci troviamo di fronte a uno di quei beni fondamentali che non possono essere soddisfatti mediante i soli meccanismi del mercato. Si tratta allora di affrontare i temi della sanità secondo l'ottica di uno Stato sociale che sappia coniugare insieme assistenza e produttività, efficienza e qualità, giustizia e solidarietà.
In questo senso anche l'introduzione in ambito sanitario di criteri gestionali di tipo aziendalistico è accettabile e condivisibile se essi sono finalizzati all'ottimizzazione dei risultati e nella misura in cui servono a ottimizzare l'impiego delle risorse finanziarie, tecnologiche ed umane perché la cura della persona sia più adeguata e sia garantito a tutti gli uomini e le donne, secondo i reali bisogni di ciascuno, il diritto alla tutela della propria salute.
In ogni caso il solo criterio economico non può essere decisivo e discriminante e - come ha affermato il Papa nel recente discorso del 19 novembre - "non è tollerabile che la limitatezza delle risorse economiche, oggi variamente sperimentata, si ripercuota di fatto prevalentemente sulle fasce deboli della popolazione e sulle aree del mondo meno abbienti, privandole delle necessarie cure sanitarie. Ugualmente non è ammissibile che tale limitatezza conduca a escludere dalle cure sanitarie alcune stagioni della vita o situazioni di particolare fragilità e debolezza, quali sono, ad esempio, la vita nascente, la vecchiaia, la grave disabilità, le malattie terminali".
Occorrerà per questo verificare che le numerose "Carte dei diritti del malato" non si trasformino nella realtà in una somma di "Diritti di carta", soprattutto per persone bisognose, ad esempio, di riabilitazione estensiva o di assistenza a lungo termine, per persone affette da grave cronicità, che rischiano di essere escluse dalla tutela della salute. Ciò riguarda in particolare gli anziani, per i quali non basta - lo ha ricordato con grande slancio il Papa nella sua recente "Lettera agli anziani" (1º ottobre 1999) - aggiungere anni alla vita se non si propizia tutto ciò che consente e crea le condizioni per aggiungere vita agli anni.
Secondo una corretta visione dello Stato sociale, occorre anche che il sistema sanitario sia gestito in modo da incentivare e coordinare la responsabilità e l'iniziativa dei diversi soggetti, nel rispetto e nella promozione di quei principi di sussidiarietà, solidarietà e responsabilità ai quali si è accennato. Ciò comporta anche la valorizzazione di tutti i diversi soggetti sociali e delle realtà del cosiddetto "terzo settore", senza per questo smantellare la rete di servizi organizzata dallo Stato per garantire l'assistenza sanitaria e senza rinnegare il suo compito di promozione, coordinamento, programmazione, vigilanza e integrazione.

Riforma Bindi, spostare le risorse dall'ospedale al territorio
Sergio Dugone - Presidio di riabilitazione "La Nostra Famiglia", Conegliano - Esperto di politiche locali della Fondazione "Zancan"
La recente riforma della sanità ha introdotto importanti novità all'interno del settore sanitario; tra questi la conferma della scelta di un sistema pubblico e universalistico. Di seguito si analizzano alcuni aspetti della riforma, in particolare quelli riguardanti i servizi territoriali e il ruolo del distretto
(indice)
Sistema pubblico ed universalistico o sistema assicurativo ?
Queste brevi riflessioni vengono scritte mentre si avvia lo scontro sui referendum promossi dai radicali. Uno dei quesiti sociali proposti è per l'abolizione dell'attuale servizio sanitario nazionale e per il passaggio - fermo restando l'obbligo per tutti di garantirsi una tutela sanitaria - al sistema assicurativo.
Tale quesito pare aver raccolto nel paese oltre cinque milioni di firme, superando di gran lunga referendum ben più importanti come quello per l'abolizione della quota proporzionale nel sistema elettorale vigente.

Da un lato pesa negativamente l'immagine di malasanità che viene diffusa ed enfatizzata dai media che non danno identico spazio a tanta buona sanità esistente in Italia. Dall'altro lato, nei processi di americanizzazione delle nostre abitudini, viviamo in una società che, per mantenere i livelli di salute raggiunti e le attese di vita sempre più ampie, è decisa a spendere sempre di più (spesso senza interrogarsi se spende meglio) e ad aggiungere anche tutele assicurative a quelle esistenti.
Del resto ammonta oggi ad oltre 40mila miliardi annui la spesa sanitaria a carico delle famiglie per prestazioni dirette che avvengono quasi sempre al di fuori del Servizio Sanitario Nazionale.
Se a tale cifra si aggiungono le somme spese per attività collegate genericamente al benessere fisico e psichico della persona si arriva ad oltre il 50% del fondo sanitario nazionale.
Non sappiamo se la Corte Costituzionale ammetterà tale referendum.
Sappiamo però che il sistema sanitario basato sul principio assicurativo (gli Stati Uniti ne sono un chiaro esempio) incrementa in modo folle la spesa delle persone e delle famiglie e - a fronte di una sanità non sempre migliore (al di là dei telefilm di successo) - ignora una quota consistente della popolazione che viene relegata ai margini del sistema. Primi fra tutti i soggetti deboli: anziani, affetti da patologie croniche ed invalidanti, portatori di handicap, malati mentali, tossicodipendenti ed alcolisti, e così via. I cinque milioni di firme, al di là del giudizio della Corte Costituzionale, devono farci riflettere.

La scelta di campo della riforma Bindi
Questo ragionamento non significa difesa aprioristica ed ottusa dell'attuale sistema sanitario nazionale così come esso è andato consolidandosi, con i suoi limiti oggettivi.
Ne evidenzio, esemplificandoli, solo alcuni. Sistema di tutela sanitaria fortemente differenziato per regioni, consumo eccessivo di risorse nei "processi" di produzione dei servizi senza reale beneficio dell'utente ultimo cioè del cittadino, prevalente impostazione di una sanità ospedalocentrica con il cittadino costretto a vivere la sudditanza, psicologica o reale, verso gli erogatori dei servizi. Senza parlare di sprechi, clientelismi, o altro.
La riforma Bindi ha alcune scelte di campo molto forti e coerenti con il Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 "Un patto di solidarietà per la salute". Essa parte dal concetto iniziale del suo impegno al ministero "La sanità è una risorsa per il paese" e si traduce in linee di azione come:

· il rafforzamento del sistema sanitario nazionale (la scelta delle incompatibilità mediche, la forte sussidiarietà con l'area del non profit, la rivalutazione del fondo sanitario nazionale, la decisione degli investimenti in sanità), che punta a riqualificare l'offerta dei servizi e cerca di far rientrare nel circuito pubblico anche le decine di miliardi che il cittadino spende di tasca propria verso altri servizi;

· la continuità prevenzione - cura - riabilitazione, che implica la revisione del meccanismo attuale della spesa sanitaria troppo consumata in ambito ospedaliero e poco disponibile per le "funzioni integrative" quali l'educazione alla salute e la prevenzione delle malattie da un lato e la cura - riabilitazione e l'assistenza extraospedaliera, territoriale, domiciliare, dall'altro;

· l'accentuazione del governo della sanità ad ogni livello, secondo principi di efficienza, efficacia, economicità e qualità, dando connotati privatistici alla gestione dei processi produttivi dei servizi non per spendere meno, magari abbassando i livelli essenziali di assistenza, ma per spendere meglio;

· un nuovo ruolo degli enti locali - dopo una stagione di allontanamento dagli ambiti decisionali - i comuni infatti rientrano a pieno titolo nella programmazione locale dei servizi e possono contribuire a migliorare i livelli essenziali di assistenza garantiti dal SSN.

In un contesto normativo sostanzialmente invariato, che ha i suoi pilastri nella L. 833/78 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale e nel D.Lgs. 502/92 di riordino della disciplina in materia sanitaria, il decreto legislativo 19 giugno 1999 n. 229 detta le norme per la razionalizzazione del SSN in attuazione della legge delega al governo n. 419/98.
Lo specifico dell'assistenza territoriale
Pur in assenza di una legge quadro sui servizi alla persona (il PDL n. 4931 "Principi e finalità del sistema integrato di interventi e servizi sociali" è ancora in attesa di esame alla Camera dei Deputati), appare evidente lo sforzo del sistema sanitario per dare un incremento decisivo alle funzioni integrative, abbattendo il muro tra ospedale e territorio.
Spostare risorse al territorio, significa investire nella collaborazione tra medici ospedalieri e medici di medicina generale, rivalutare la spesa per la salute avendo consapevolezza che il ricovero o la permanenza impropria in ospedale hanno costi economici ed anche umani intollerabili, che le situazioni che richiedono continuità di assistenza tra ospedale, extraospedale, domicilio sono un dato consolidato di una società più longeva e più complessa come la nostra.
Con l'art. 3-quater e successivi, la norma Bindi indica la prima organica e sistematica definizione del ruolo e delle funzioni del distretto, come articolazione operativa (di dimensioni non inferiori ai 60mila abitanti, fatte salve alcune situazioni geografiche particolari) dell'azienda USL.
Il distretto è il luogo in cui si deve garantire al cittadino accessibilità, continuità, tempestività della risposta assistenziale. Esso ha la funzione di favorire un approccio intersettoriale alla promozione della salute, garantendo in particolare l'integrazione tra assistenza sanitaria ed assistenza sociale.
Attraverso i medici di medicina generale ed i pediatri di libera scelta, il distretto è produttore di prestazioni di assistenza sanitaria primaria. Assume poi un ruolo di governo per l'integrazione della attività dei servizi e dei dipartimenti dell'azienda USL - compresi i presidi ospedalieri - fra di loro e con l'assistenza sociale di competenza comunale.
Il piano territoriale della salute elaborato di intesa con i comuni del distretto, diventa l'interfaccia del piano di zona che definisce l'insieme dei servizi e dei progetti per la qualità sociale della vita della comunità locale.

Il distretto, governato da un direttore di nomina fiduciaria del direttore generale, rappresenta quindi sia una struttura operativa che produce servizi relativi alla assistenza di base e specialistici ambulatoriali, sia una realtà di promozione di progetti per la salute che interessano più realtà operative incluse quelle dei comuni che, per la parte di integrazione sociosanitaria, convergono in tali progetti. Il disegno si completerà, appunto, con la legge quadro sui servizi alla persona.
Il distretto sanitario, una storia da non dimenticare
Del distretto di base si parla dall'istituzione del SSN con la L. 833/78. Dalla situazione precedente (Opere Pie, Ospedali, Mutue, Poliambulatori, ecc.) non è venuta nessuna esperienza di distretto, al massimo sono arrivati operatori e - in diversi casi - strutture materiali, sedi.
Gli uni e le altre richiedevano un modo assolutamente nuovo di essere e di operare: dal fattore terapeutico alla prevenzione, dall'attenzione all'evento contingente alla ricerca delle cause a livello di comunità.
Il Distretto è stato - fin da subito - il terminale nervoso più sensibile all'esigenza di una coerente organizzazione degli interventi e di altrettanto coerenti comportamenti degli operatori con gli obiettivi del SSN ad ogni livello.
Le trasformazioni richieste alla mentalità degli operatori (dal lavorare da soli al lavorare in équipe, dal privilegiare le scelte funzionali su quelle gestionali, per esempio), ha richiesto molto tempo e non si può dire ancora del tutto acquisita.
Su tali ritardi hanno pesato e pesano, in molte parti d'Italia, le difficoltà connesse con il reperimento delle sedi, per l'adeguamento degli organici che talvolta non considerano gratificante il lavoro sul territorio rispetto a quello in ospedale, per il distacco degli operatori sul territorio.
Spesso poi i distretti vivono situazioni di burn out degli operatori, dovuti a stanchezza e demotivazione, per l'aumentata quantità degli interventi richiesti. O per la difficoltà a far fronte ad esigenze e bisogni complessi con strumenti inadeguati. Non bisogna dimenticare che le funzioni socio-assistenziali rimaste divise tra Comuni ed USL , con eccezione per quelle regioni a forte e radicata cultura sociosanitaria, hanno inciso negativamente sulle risposte possibili ai bisogni emergenti.
L'esperienza di questi anni poi, sottolinea anche la necessità di un rapporto diverso tra distretto e medico di base che rappresenta l'anello terminale del sistema, l'operatore del SSN a contatto diretto e quotidiano con i cittadini assegnati al suo servizio.

I nodi dell'integrazione socio-sanitaria
Con l'art. 3-septies e successivi la norma Bindi disciplina il complesso processo dell'integrazione socio-sanitaria, dell'azione connessa tra Comuni e aziende USL, dell'area delle professioni socio-sanitarie.
Le prestazioni socio-sanitarie comprendono le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale e quelle sociali a rilevanza sanitaria. Un atto di indirizzo e coordinamento da emanarsi prossimamente, individuerà le prestazioni da ricondurre a queste due tipologie di servizi precisando i criteri di finanziamento tra USL e Comuni.
Lo stesso atto di indirizzo dovrà individuare le prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria che vengono completamente assicurate dal SSN, nonché i livelli uniformi di assistenza per le prestazioni sociali di rilievo sanitario.
Toccherà poi alle Regioni disciplinare i criteri e le modalità mediante i quali i Comuni e le aziende USL garantiscono l'integrazione, su base distrettuale, delle prestazioni socio-sanitarie di rispettiva competenza individuando strumenti ed atti per garantire la gestione integrata dei processi assistenziali.

Come si vede, ad oltre sei mesi dal decreto legislativo, non abbiamo ancora l'atto interministeriale di indirizzo e coordinamento che dovrebbe dare ordine alla materia e porre le Regioni in condizioni di attuare i processi successivi.
La ponderazione con il quale tale atto verrebbe elaborato è probabilmente dovuta anche alla complessità della materia da definire ed alla attribuzione dei costi conseguenti. Perché se il SSN si propone di spostare risorse dall'ospedale al territorio e quindi alle "funzioni integrative" non è che questo avvenga senza resistenze. Così come non sono poche le resistenze dei Comuni, a fronte di un nuovo protagonismo in sanità, ad assumere responsabilmente nuovi impegni di spesa per dare valore aggiunto ai servizi. Forse, alcuni nodi si risolveranno con l'avvio del Fondo sociale nazionale previsto dal PDL quadro sui servizi alla persona.

L'integrazione socio-sanitaria tra storia e prassi
La persona è un sistema unitario, unico, irripetibile. Può presentare bisogni appartenenti a categorie diverse, risolvibili con un approccio multidisciplinare ed integrato al problema proposto.
Perché non sia l'utente a farsi carico di integrare tra loro competenze ed interventi diversi è necessario che essi avvengano in sede programmatica ed operativa.
L'integrazione a livello distrettuale non è un fatto gestionale, somma di burocrazie affinate alla logica del contenimento dei costi o del loro scaricamento su altri sistemi esterni al servizio sanitario (ignorando il principio dell'unicità della spesa pubblica sancito anche dalla L. 59/97 "Bassanini uno"), ma è un fatto funzionale, di "qualità" dello stato di collaborazione tra singoli operatori e servizi con l'unico obiettivo di dare la risposta migliore possibile all'utente in un determinato territorio.
Occorre però cogliere il fatto che esistono diversi livelli di integrazione.
Nell'area dell'handicap - ad esempio - tenuto conto di quanto già indicato nel PSN, nelle "Linee guida del ministero della sanità per le attività di riabilitazione" (Conferenza Stato Regioni del 7.5.1998 in G.U. 30.5.1998), nel lavoro dell'OMS verso l'ICIDH 2 in fase di pubblicazione, si possono tentare di individuare alcuni livelli di integrazione diversificata.

Il primo si sviluppa nello stesso ambito delle prestazioni sanitarie. La dimensione plurispecialistica, si impone - in modo del tutto particolare, ad esempio - in un ambito quale quello della riabilitazione e recupero funzionale di funzioni fisiche, psichiche e sensoriali che non si sono adeguatamente sviluppate o sono state compromesse da un evento patogeno di qualunque natura.

Un secondo livello di integrazione concerne la connessione necessaria tra momento prettamente sanitario e gli apporti di carattere sociale o assistenziale. Si tratta cioè di accedere dal momento plurispecialistico a quello multidisciplinare, raffigurando anche nella stessa modalità di organizzazione dei servizi e di erogazione delle prestazioni, il riferimento unitario al benessere come vissuto complessivo della persona.

Un terzo livello è nel momento del passaggio dalla presa in carico globale all'interno della struttura sanitaria (ospedaliera o extraospedaliera) alla presa in carico nella rete dei servizi territoriali, che possono offrire percorsi in strutture di diversa organizzazione e tipologia, inserimenti occupazionali, servizi domiciliari.

E' soprattutto in questo ultimo ambito, dove avviene la connessione più evidente anche tra azione dell'azienda USL e Comuni, che la storia ci ha mandato qualche messaggio significativo.
Non si può dimenticare infatti che il sistema dei servizi socio-sanitari, con le sue esperienze più articolate e diverse sul territorio nazionale, poggia ancora sul D.P.C.M. 8.8.1985 (decreto Craxi) che - pur emanato in un periodo in cui la sanità regionale non si era differenziata rispetto alle indicazioni nazionali - è stato, fin da subito, poco applicato ed apertamente contestato da diverse Regioni e molte USL.
La situazione creatasi a seguito di quel documento e dei comportamenti differenziati da Regione a Regione e dal USL e USL (senza nulla togliere alla ricchezza rappresentata molte volte dalla diversità delle esperienze), ha contribuito non poco a generare percorsi eterogenei sul piano dei servizi di risposta ai bisogni, degli standards di personale e di requisiti minimi di funzionamento, della remunerazione delle prestazioni e della loro attribuzione al sanitario o al sociale pro quota.
Ora la riforma ter proposta dal ministro Bindi dovrebbe, in concerto con altri ministeri, porre ordine a tale materia.
L'impresa è coraggiosa, ma non facile proprio per la complessità strutturata che si è radicata nel paese anche in tale ambito e che richiede processi di riordino di ampio respiro.
Il processo di regionalizzazione, dopo le norme Bassanini, è una chiara opzione sul futuro della organizzazione dei servizi alla persona. Occorre che la validità di risposte diverse a seconda delle situazioni e dei percorsi locali, abbiano però garanzie omogenee perché non si consolidi un sistema di cittadinanza differenziato tra regione e regione. E' questa un'altra scommessa dell'azione di governo di questo periodo.
L'evoluzione delle politiche per l'handicap in Italia
Gianni Selleri - Presidente ANIEP, Bologna
Lo scorso 16-18 dicembre si è svolta a Roma, promossa dal Ministero della solidarietà sociale la prima Conferenza nazionale sulle politiche dell'handicap, dal titolo "Liberi di vivere come tutti". Riportiamo di seguito l'intervento di Gianni Selleri.
(indice)
Sono poco capace di fare discorsi protocollari, quindi tralascio la parte formale. Io volevo soltanto dare alcuni dati sull'evoluzione delle politiche per l'handicap negli ultimi trent'anni.

Vengo da lontano
Io stesso vengo da molto lontano: non in senso topografico: Vengo da lontano in senso esistenziale.
Ero ancora adolescente e vivevo in una istituzione totale. Ci fu qualcuno che si chiese se capivo o non capivo. E ci fu una persona che disse: "Io dico che capisce". Ecco, se non ci fosse stata quella persona, probabilmente sarei ancora là.
La situazione degli handicappati era quella dell'assistenza pubblica, ispirata non tanto ai diritti della persona, ma soprattutto al decoro nazionale, alla lotta contro l'accattonaggio. Venivano assistiti soltanto i disabili poveri e recuperabili; quelli che non erano recuperabili venivano lasciati negli istituti.
C'è stato un momento di svolta negli anni '70. È stata una svolta segnata da alcune percezioni.
La prima è stata quella che il portatore di handicap era una persona con menomazioni fisiche o psichiche o sensoriali ed era insieme un candidato alla esclusione. Quindi, nella realtà delle persone handicappate c'era questo duplice aspetto. E ci si rese conto che la soluzione dei problemi doveva essere contestuale: riabilitarli ed evitare le dinamiche di esclusione.
Un'altra percezione è stata che gli handicappati, in qualche modo, evidenziavano tutte le disfunzioni, tutte le difficoltà che stavano dentro la società. Se la scuola era selettiva, lo sarebbe stata molto di più per gli handicappati; se il lavoro era competitivo, tanto più lo era per gli handicappati, e così via. In questo senso, la figura e la realtà degli handicappati diventavano indicatori di qualità. Laddove erano rispettati i diritti delle persone handicappate c'era un vantaggio per la società intera.
La terza percezione fu che gli handicappati non avevano diritto soltanto all'assistenza, ma avevano tutti i diritti che erano previsti dalla Costituzione per i cittadini: quindi diritto all'uguaglianza, diritto alla dignità, diritto all'istruzione, diritto alla formazione, diritto al lavoro e così via.
La persona handicappata diventava un soggetto sociale con gli stessi diritti che erano previsti per tutti i cittadini. L'obiettivo degli interventi nei confronti delle persone handicappate era l'integrazione sociale. Integrazione sociale che vuol dire essere in un rapporto di reciprocità con tutto il tessuto sociale, essere in un rapporto di comunicazione. Questo è il punto di passaggio della situazione degli handicappati, da una posizione di passività e di disprezzo, di isolamento, ad una situazione di protagonisti e portatori di diritti.

Le conquiste
Questa conquista è stata in parte determinata dalle esigenze storiche, ma è stata dovuta soprattutto ad un contesto politico e culturale che è proprio di quegli anni e che fece diventare i problemi degli handicappati il contenuto di un movimento di liberazione, così come ci fu un movimento di liberazione per le donne, per gli ammalati psichici e così via. E' una atmosfera culturale e politica di sinistra, che però tiene conto anche dell'apporto del cattolicesimo popolare. La scuola di Francoforte, i movimenti del '68, le lotte sindacali, il Concilio Vaticano II. Capodarco, Marcuse, Basaglia, Don Milani; e poi ancora le persone con handicap, come Cesare Padovani, Guglielmo Alfieri, Mauro Cameroni, Loris Biondi, Rosanna Benzi, Enzo Aprea. Tutte queste persone, che operarono nella cultura, nella politica, hanno determinato la svolta.

Diritti e liberismo
Poi c'è stata la crisi del welfare State, c'è stata l'affermazione dell'economia di mercato. C'è questa nuova prospettiva di un assetto politico e sociale che dovrebbe conciliare il liberismo con le politiche dei diritti.
È molto difficile. Ma a che punto siamo? Che cosa pensa la gente di noi? Noi stessi e le nostre associazioni in che cosa siamo cambiati? Io ho qualche considerazione positiva. Sostanzialmente condivido tutto quello che ha detto il ministro Turco, ma ho anche qualche perplessità e qualche preoccupazione. Il nostro problema attuale è di un destino o nell'assistenzialismo o nell'integrazione sociale. Badate: non si tratta di due posizioni inconciliabili.
Però c'è il rischio che stiano per prevalere i modelli sostanzialmente assistenzialistici, quindi che si riproponga la privatizzazione dei bisogni e che si rinunci alla partecipazione.Gli industriali, i cittadini e gli handicappati stessi sono convinti della necessità che queste persone debbono essere integrate, debbono comunicare. Gli handicappati stessi - alcuni, molti - dicono: dateci quello che è sufficiente per vivere, ed io non chiedo altro. Questo è molto pericoloso. Una cosa che abbiamo capito con molta inquietudine è che la soluzione delle povertà materiali non garantisce la soluzione di altre povertà.
Ci sono povertà che derivano dalla mancanza di appartenenza, dalla mancanza di comunicazione: quelle che si chiamano le nuove povertà. Il soddisfacimento dei bisogni materiali non ci garantisce dalla solitudine, e neanche dal rifiuto della gente.
Vorrei dire altre cose sul problema della sussidiarietà, della fiscalità, del volontariato. Si dice che in Italia ci sono sette-otto milioni di persone che si dedicano al volontariato. Questo è bene, purché non sia suppletivo dei diritti e purché non sia un pretesto per sette-otto milioni di persone per disimpegnarsi dalla politica, dalla partecipazione.
Noi diamo adesso, in questa fase, un segno contraddittorio e per certi aspetti oscuro: chiediamo il diritto alla uguaglianza ed il diritto alla diversità, cioè chiediamo due soluzioni che apparentemente sono inconciliabili e che però sono il senso della nostra esistenza, il senso della nostra presenza sociale, politica ed umana.

Giustizia o buoni sentimenti?
C'è un altro pericolo, ed è quello di convincerci o farci convincere che la soluzione dei nostri problemi dipende dai buoni o dai cattivi sentimenti, la politica dei buoni sentimenti, gli atteggiamenti dei buoni sentimenti o la negazione dei buoni sentimenti. Invece non è così, la soluzione dei nostri problemi dipende dalla giustizia, dalla giustizia in senso giuridico, dalla giustizia in senso etico, dal riconoscere l'altro come parte di se stesso.
Nella situazione dell'handicap, della disabilità, c'è qualcosa di ineliminabile: voglio dire che ci sono delle difficoltà che in qualche misura non possono essere risolte. Però, oltre questi problemi che sono nostri, che sono miei, che sono di tutti i compagni di viaggio che sono in quest'aula, che hanno sperimentato cosa significa farsi strada, che hanno sperimentato cosa significa la dipendenza dagli altri che hanno sperimentato cosa significa l'indifferenza sociale, che hanno sperimentato la negazione della sessualità oltre che dell'identità… Ecco, alcuni di questi problemi non sono immediatamente sopprimibili, ma ce ne sono altri, come l'isolamento, il rifiuto, qualche volta il disprezzo, l'eccessivo pietismo, la solitudine, la marginalità, che possono e debbono essere eliminati. E questo è compito soprattutto della politica. Ed è compito nostro riappropiarci di un ruolo politico di promozione e di protesta civile. Non deve essere dato per benevolenza ciò che è dovuto per diritto. Prima ci deve essere il riconoscimento e il rispetto della giustizia e poi i "buoni sentimenti".