Appunti n.131
(indice Appunti)
- Approvata la riforma dell’assistenza
- Il finanziamento delle cure per i non autosufficienti
- Carlo Hanau, Dipartimento scienze statistiche, Università di Bologna
- Comunità alloggio GIONA: dalla balena alla città
- Vittorio Ondedei, Cooperativa sociale “Archimede”, Pesaro
- Il ruolo del volontariato nel Servizio sanitario nazionale
Il finanziamento delle cure per i non autosufficienti
Carlo Hanau, Dipartimento scienze statistiche, Università di Bologna
(indice)
La dottrina e la giurisprudenza non mettono in discussione il diritto soggettivo
perfetto all’assistenza malattia, sia per gli anziani come per i giovani:
tuttavia, a causa delle restrizioni finanziarie, è innegabile che per i malati
cronici non autosufficienti questo diritto venga rispettato soltanto in pochi
casi, quando ad esempio il cittadino viene adeguatamente difeso da associazioni
di tutela. Diventa forte, pertanto, la necessità di aumentare le disponibilità
di finanziamento per la cura di questi malati, attraverso la costituzione
di un fondo, che è stato definito “per la non autosufficienza” che consentirebbe
di estendere un’adeguata assistenza a domicilio oppure in residenze sanitarie
assistenziali alla generalità dei malati in queste condizioni.
Secondo le disposizioni vigenti, a principiare dalla legge n.692 del 1955,
gli anziani e tutte le persone affette da malattie tipiche degli anziani,
i malati acuti, cronici non autosufficienti, lungodegenti e convalescenti
hanno gli stessi diritti di tutti gli altri malati nei confronti dell'assistenza
sanitaria: la cura senza limiti temporali, sia a domicilio che in istituzione.
Dal 1955 una buona parte degli italiani ha continuato a versare, anche dopo
l'istituzione del servizio sanitario nazionale e l'estinzione delle mutue,
tutti i contributi previsti, che se pur non coprono il totale delle spese
sanitarie pubbliche, giunte verso i 120.000 miliardi l'anno, coprono tuttavia
le spese di coloro che versano i contributi1: ovviamente non ci si riferisce
a coloro che usufruiscono degli "sconti" che lo stato concede a molte categorie
di lavoratori ed a non lavoratori, per condizioni particolari e per aree geografiche2.
La legge n.833 del 1978 pone gli oneri finanziari delle cure a carico del
Servizio sanitario nazionale, salvo il pagamento di ticket e compartecipazioni
alla spesa da parte dell'utente. Tuttavia la realtà concreta è parecchio difforme
dalla prescrizione del diritto, e la maggior parte di questi malati sopravvive
soltanto grazie alla dedizione dei propri cari ed al patrimonio familiare,
senza riuscire ad ottenere le prestazioni che spetterebbero loro di diritto,
senza alcun limite di durata delle cure3.
La scelta di fondo che sostiene la formula del finanziamento pubblico del
SSN nel 1978 è che i servizi di cura per i malati debbano essere pagati non
dai malati ma dalla collettività, attraverso la fiscalità generale, così come
accade per l'istruzione obbligatoria, la giustizia ed infine per i servizi
dell'assistenza-beneficenza rivolti agli indigenti, che per definizione non
sono certo in grado di contribuire. E' questa l'applicazione del principio
di massima solidarietà, poiché non sembra opportuno fare la perequazione dei
redditi profittando del momento della malattia, particolarmente di quella
grave, chiedendo in questa occasione alle persone agiate che hanno la sfortuna
di versare in stato di malattia (e soltanto a quelle) di pagare le proprie
cure.
D'altra parte la persona più agiata, che paga imposte e tasse più degli altri,
a causa della progressività delle imposte e della differenza delle tasse sui
beni di lusso, rivendica quantomeno lo stesso trattamento degli altri quando
ha la sfortuna di cadere malato: in caso contrario si incentiva pesantemente
il ricorso a servizi paralleli, gli uni a pagamento riservati ai più agiati
e gli altri ai più indigenti, il cui livello qualitativo è destinato a decadere
quasi inevitabilmente.
A proposito del finanziamento il SSN istituito dalla legge n.833 del 1978
non ha introdotto drastici cambiamenti: fin dai tempi delle mutue il pagamento
dei contributi e tributi sanitari grava principalmente su chi produce reddito,
escludendo alcune rendite, come quelle pensionistiche. Pagano principalmente
i sani, le classi forti della società, mentre l'intervento e la spesa sanitaria
si concentrano sopra tutto su quegli individui che si trovano nell'ultimo
anno di vita e - in misura minore - nei primi giorni di vita, mentre la restante
piccola parte di iperconsumatori è formata da particolari malati e da handicappati
che hanno bisogni sanitari elevati per tutta la durata della vita. Come nella
previdenza, anche per il comparto malattia vige il principio della "ripartizione",
per cui non si accumula nulla e le entrate degli uni vengono immediatamente
utilizzate per le spese degli altri: in tale situazione ogni riduzione dell'intervento
pubblico viene percepita come una recessione unilaterale dello Stato dagli
obblighi che si era assunto e per i quali era stato pagato il contributo.
L'iniquità generazionale è palese, se si considera la posizione di un sessantenne
che ha contribuito per quarant'anni senza gravare più di tanto sulle spese
e che ora si vede negati quei servizi sanitari di cui comincia ad avere bisogno,
concessi invece gratuitamente alla generazione precedente. La sua situazione
è aggravata dal fatto che la riforma sanitaria del 1978 aveva abolito la "sua"
mutua, al tempo obbligatoria e non discriminante, e che oggi le assicurazioni
volontarie esigerebbero un premio molto alto per coprire il suo rischio-malattia,
che l'età ha reso molto probabile.
Nel settore previdenziale
Una situazione simile si verifica nel settore previdenziale, dove ai lavoratori
attuali si prospetta un progressivo allontanamento dell'età pensionabile,
con il risultato paradossale che una insegnante di 59 anni si vede negare
il diritto alla quiescenza ed è obbligata a continuare l'attività e quindi
a contribuire per mantenere la pensione a una sua ex collega di 50 anni, già
da cinque anni in quiescenza. Tutto ciò è aggravato dalla prospettiva di una
gestione sempre più difficile del fondo negli anni futuri, dato che si assottigliano
le coorti di lavoratori giovani che entrano nel sistema di "ripartizione",
sia perché le coorti di nati dopo il 1964 si riducono progressivamente fino
a dimezzarsi, sia perché coloro che entrano nel mondo del lavoro contribuiscono
di meno (agevolazioni sul primo impiego e sul lavoro interinale, part-time,
cooperative, salario convenzionale ecc.) o non contribuiscono affatto (lavoro
nero, esenzioni territoriali, borse di studio ecc.).
Incombendo la crisi del fondo previdenziale, gli stessi giovani accettano
di buon grado la fuga dal sistema, consapevoli che il loro ingresso nel mercato
del lavoro viene facilitato da questa riduzione del costo del lavoro, ottenuta
a spese dei contributi per previdenza e malattia, dai quali non si aspettano
alcuna contropartita: così l'aspettativa di un peggioramento della situazione
generale futura determina comportamenti individuali di tipo egoistico, che
aggravano la situazione generale presente (si pensi alla massa di domande
di prepensionamento presentate), in piena analogia a quanto succede nel Servizio
sanitario nazionale, ove il diritto a ciò che resta delle prestazioni garantite
si riduce anno dopo anno e non è correlato ai versamenti effettuati.
Ciò che differenzia profondamente sanità e previdenza è la componente di assicurazione
del rischio, che nella sanità è massima mentre è ridotta nella previdenza.
Il singolo è ben lieto di pagare un contributo e di non ricevere nessuna prestazione
sanitaria in cambio, quando la sua buona salute gli consente di farne a meno.
Le vecchie mutue e il Servizio sanitario nazionale universale tendono a distribuire
gratuitamente le prestazioni secondo la logica "a ciascuno secondo i suoi
bisogni, da ciascuno secondo le sue possibilità", affinché il costo degli
interventi sui malati venga sostenuto dalla collettività - prevalentemente
dai sani - mediante un'imposta sulla salute. Una deviazione da questo principio
è la compartecipazione, che costituisce una tassa sulla malattia; ma a parte
questa eccezione (purtroppo sempre più frequente), il servizio sanitario tende
a lenire le avverse condizioni della fortuna sanitaria dovute al patrimonio
genetico, alle condizioni di vita e di lavoro e al grado di istruzione.
La previdenza, al contrario, premia soprattutto chi vive più a lungo, condizione
che viene ritenuta già di per sé più favorevole dalla generalità dell'opinione
pubblica: a prescindere dall'inizio del pensionamento, la somma totale delle
prestazioni erogate è direttamente proporzionale alla durata della vita. Pertanto
si può affermare che il sistema pensionistico non contiene il forte elemento
di perequazione presente nel servizio sanitario.
In altri tempi questo problema non si poneva nella pratica, perché le pensioni
rappresentavano un sussidio molto modesto, che consentiva di sopravvivere
per quel poco di vita che rimaneva dopo l'uscita dal lavoro, spesso in condizioni
di salute ormai usurate. Oggi le migliorate condizioni generali della società
e dei pensionati e i progressi della medicina consentono un aumento della
quantità e della qualità della vita, che costituisce il più importante fenomeno
demografico di tutti i tempi.
Il ruolo del Servizio sanitario
Oggi il servizio sanitario contribuisce sempre più spesso ad allungare la
vita delle persone malate che hanno oltrepassato la soglia della vita media,
compensandone i deficit con interventi continuativi (cronici) e non risolutivi:
l'allungamento della vita induce perciò un aumento dei costi sanitari lento
e continuo (meno dell'un per cento all'anno) e un aumento ben maggiore delle
spese previdenziali. In questo senso il servizio sanitario e quello previdenziale
si possono considerare come fattori sinergici, tendenti all'aumento della
spesa in favore dell'allungamento e del miglioramento della vita anche in
favore di chi ha superato la media attesa. Si rende pertanto necessaria una
riflessione complessiva sui tre grandi settori qui ricordati (previdenza,
beneficenza e sanità), particolarmente attuale nel quadro della riforma dello
stato del benessere del nostro paese, senza dimenticare l'esigenza di integrare
al massimo gli interventi dei tre settori, spesso fra loro complementari oppure
sostitutivi: l'eccesso di medicalizzazione (sostituzione impropria di servizi
sanitari ad altri servizi) non è soltanto criticabile dal punto di vista del
bilancio, in quanto comporta uno spreco di risorse molto costose, ma anche
dal punto di vista dei risultati, in termini di benessere ottenuto.
Negli ultimi 20 anni si è gradualmente applicata la norma della legge n.833
del 1978, che prevedeva la fiscalizzazione degli oneri mutualistici: dapprima
lo Stato percepiva gli stessi importi (diseguali) che le precedenti mutue
imponevano obbligatoriamente sui redditi da lavoro; poi la cosiddetta "tassa
sulla salute" ha parificato le percentuali dovute estendendole anche ad altre
fonti di reddito, compreso quelle da capitali; infine è stata istituita l'Imposta
regionale sulle attività produttive (IRAP), al posto delle quote gravanti
sul lavoro, che costituisce il primo passo verso la completa autonomia e responsabilizzazione
delle Regioni, delegando insieme la facoltà di decidere la spesa sanitaria,
anche oltre la quota capitaria garantita dallo Stato (circa due milioni all'anno)
e la necessità di coprire la spesa stessa; i trasferimenti, come quelli pensionistici,
restano generalmente esclusi dal prelievo, così come è ben comprensibile se
si pensa all'origine dei contributi mutualistici, pagati mentre si era adulti
attivi proprio per garantirsi l'assistenza nella terza età, più frequentemente
colpita dalle malattie. Dal gettito della "tassa sulla salute" e da quello
della "tassa sulla malattia" (la compartecipazione, il ticket) si ricavava
all'incirca metà della spesa sanitaria pubblica; tuttavia non si deve trascurare
il fatto che negli ultimi anni, riducendosi la spesa sanitaria pubblica per
rispettare l'impegno europeo a ridurre il deficit del nostro Stato, si è molto
allargata la spesa privata, in particolare di quella pagata direttamente dai
malati di tasca loro, poiché quella mediata da un meccanismo mutualistico
è quasi trascurabile. Si stima che la spesa privata in Italia sia rapidamente
aumentata ed ora superi 40.000 miliardi, un terzo di quella pubblica; si noti
che in tale somma vengono conteggiate soltanto in parte le spese sostenute
per le rette delle case di riposo per malati non autosufficienti e per l'assistenza
a domicilio privata.
La carenza di finanziamento della sanità pubblica è drammatica e si ripercuote
pesantemente sui livelli di assistenza di quasi tutte le regioni, compreso
l'Emilia Romagna, che aveva accumulato un deficit ragguardevole negli anni
passati. Per avere una dimensione di quello che dovrebbe essere il finanziamento
della spesa sanitaria pubblica necessario per fornire un buon livello di assistenza,
tale da contenere le spinte all'aumento della spesa privata, si può prendere
ad esempio la Provincia Autonoma di Bolzano, dove la spesa pubblica capitaria
è superiore del 40% rispetto a quella media italiana.
Purtroppo la carenza di disponibilità di risorse finanziarie del SSN si scarica
sopra tutto sui servizi per gli anziani, ed in particolare su quelli per malati
cronici non autosufficienti, in quanto risulta politicamente più accettabile
rispetto, ad esempio, alla riduzione dei servizi per giovani malati acuti
in pericolo di morte.
Nella situazione descritta, la dottrina e la giurisprudenza non mettono neppure
in discussione il diritto soggettivo perfetto all'assistenza malattia, distinto
dall'interesse legittimo all'assistenza-beneficenza, sia per gli anziani come
per i giovani: tuttavia, a causa delle restrizioni finanziarie, è innegabile
che per i malati cronici non autosufficienti questo diritto venga rispettato
soltanto in pochi casi, quando ad esempio il cittadino viene adeguatamente
difeso da associazioni come quelle aderenti al CSA di Torino, dal nostro Tribunale
della Salute di Bologna e delle Marche oppure da raccomandazioni autorevoli.
Il fondo per i non autosufficienti
La compresenza di due distinti enti pubblici di decisione e di finanziamento,
ASL e Comuni, entrambi sottoposti ai vincoli legislativi e finanziari della
Regione o Provincia Autonoma di appartenenza, non aiuta a realizzare l'equità
distributiva, né a razionalizzare e integrare i servizi e neppure a raggiungere
la somma necessaria per il funzionamento di servizi di qualità. Pertanto si
sente la necessità di aumentare le disponibilità di finanziamento per la cura
di questi malati, attraverso la costituzione di un fondo, che è stato definito
"per la non autosufficienza"4, che consentirebbe di estendere un'adeguata
assistenza a domicilio oppure in residenze sanitarie assistenziali alla generalità
dei malati in queste condizioni, nel rispetto dell'equità di trattamento fra
tutti i cittadini, ed in particolare del principio del diritto soggettivo
alle pari opportunità già ricordato in precedenza. Questo fondo finalizzato,
non definito sociale né sanitario, può prefigurare l'unificazione dei due
settori, in analogia a quanto previsto per il Ministero degli Affari Sociali
e per quello della Sanità, che nel giro di un anno dovrebbero fondersi assieme
al Ministero del Lavoro.
L'importo complessivo di questo fondo deve essere molto elevato: la situazione
di non autosufficienza riguarda mediamente oltre un anno di vita pro capite,
con grande variabilità dovuta alle diverse forme di malattia: ad esempio la
sindrome di Alzheimer giunge a coprire anche gli ultimi quindici anni di vita.
I costi medi di una Residenza sanitaria assistenziale, necessaria a provvedere
a queste situazioni, quando la famiglia non è in grado di tenere il malato
a domicilio, possono essere stimati5 prudenzialmente nell'ordine di una cinquantina
di milioni l'anno, mentre l'assistenza domiciliare integrata costa poco più
di tredici. In prospettiva saranno sempre meno le famiglie in grado di provvedere
e pertanto non sarà azzardato prevedere un costo di un anno in residenza sanitaria
assistenziale per ogni cittadino che giunge al termine della vita.
Sulla base di queste premesse tale cifra non può certo essere raccolta col
meccanismo del ticket: infatti occorrono 10.000 miliardi per le spese correnti
annuali relative a 200.000 posti in RSA e altri 5.000 miliardi per garantire
l'assistenza domiciliare integrata e l'ospedalizzazione a domicilio a tutti
i malati che oggi ne avrebbero necessità e diritto: si pensi che, senza considerare
i bambini e gli adulti handicappati gravi mentali e plurimi, che superano
l'un per cento della popolazione, oltre 300.000 persone sono tenute a domicilio,
totalmente incapaci di alzarsi autonomamente dal letto, a cui si sovrappongono
400.000 anziani affetti da sindrome di Alzheimer e 300.000 da altre forme
di demenza senile.
La contribuzione dell'utente
Il principio di massima solidarietà nei confronti dei malati non significa
automaticamente che il malato non debba contribuire al suo sostentamento,
quando l'assistenza a domicilio o in istituzione comporti per lui un risparmio
delle risorse usualmente impiegate per vivere (pasti a domicilio, alloggio
e vitto in istituzione). La compartecipazione in tali casi non dovrebbe mai
superare il livello del costo di quella stessa prestazione (vitto, trasporto,
vestiario etc.) per una persona normale inserita in una famiglia normale,
per la quale la spesa media capitaria totale è di 1.250.000 lire al mese,
desunta facilmente dall'indagine ISTAT sui bilanci familiari. La malattia
e le sue conseguenze sono la causa delle maggiori spese che eccedono quella
somma: pertanto spetta alla solidarietà sociale coprire i maggiori costi,
senza preoccuparsi di distinguere spese sanitarie, spese a rilevanza sanitaria
e altre spese, campo ove è veramente difficile tracciare una demarcazione.
Ovviamente dal computo sono esclusi gli eventuali lussi, optional che possono
essere a pagamento diretto oppure tramite mutua integrativa di tipo volontario,
che le recenti disposizioni fiscali favoriscono come fondi integrativi cosiddetti
"doc".
La solidarietà sociale da privilegiare per coprire le spese dovute ai costi
dovuti alla malattia, quelli che eccedono 1.250.000 lire, è sopra tutto quella
della collettività civica, la cosiddetta mutualità orizzontale, che investe
tutti i residenti in un dato territorio, contrapposta a quella verticale,
riguardante ad esempio gli operatori di una impresa o di una categoria di
lavoratori.
Nel quadro europeo ed italiano ci sono differenze radicali a livello regionale
e comunale. L'invecchiamento della popolazione, che è uno dei più importanti
fattori che determinano il fabbisogno, sia sanitario che sociale e previdenziale,
è molto diversificato nelle varie aree del nostro paese. L'utilizzo dei servizi
è pure molto diversificato nelle varie aree: ad esempio la percentuale di
anziani ricoverati è tre volte più elevata al nord che al sud. I livelli di
reddito sono pure molto diversi: la linea di povertà dovrebbe essere diversa;
il costo del lavoro, che costituisce la grande quota dei costi dello Stato
Sociale (servizi personali), è molto diverso sia nel privato che nella cooperazione
che opera al sud, al nord ed in alcune zone del centro. Da tutte queste premesse
discende che esiste una grande diversità regionale nei bisogni reali, che
viene ulteriormente aumentata dalla diversità dei prezzi (costo del lavoro),
e quindi delle necessità di finanziamenti dei servizi necessari per far fronte
alle diverse necessità.
Un altro motivo per il quale è necessario fare riferimento alla collettività
locale invece che a quella nazionale è costituito dall'impegno dei politici
e dei tecnici dell'economia (di maggioranza e di opposizione) affinché non
si aggravi sull'intero territorio nazionale il carico fiscale contributivo,
sia sui redditi in genere che su quelli da lavoro in particolare. Nulla osta
invece a che le Regioni a più elevato reddito decidano di aumentare la contribuzione
finalizzandola a migliorare alcuni servizi specifici: ad esempio alcune Regioni,
come l'Emilia Romagna, hanno già deciso percentuali maggiorate sulle imposte
locali proprio per far fronte ai deficit creati dalle gestioni sanitarie.
Da quanto sopra deriva la proposta di accentuare e combinare l'autonomia della
decisione e la responsabilità di reperire i fondi per iniziative che eccedano
i livelli minimi garantiti a livello nazionale dal piano sanitario nazionale.
Autonomia e responsabilità vanno collocate a livello di ogni Regione e di
ogni comunità di Comuni, che dovrebbe coincidere con i confini dei distretti
e delle AUSL.
Un esempio era stato fornito dalla Slovenia, quando era ancora inserita nella
Federazione Jugoslava, e doveva pertanto fare i conti con una profonda diversità
di bisogni e di possibilità di finanziamento rispetto al sud del paese: attraverso
un referendum veniva approvato un pacchetto di interventi, spesso nel campo
sanitario (ad esempio una residenza sanitaria assistenziale, una nuova ala
ospedaliera), al quale corrispondeva un'imposta pari a meno dell'un per cento
dei redditi percepiti dalla popolazione residente, che si riservava il diritto
di utilizzare prioritariamente i benefici dei servizi derivanti dal maggior
impegno finanziario.
In Olanda esiste da tempo un'apposita assicurazione obbligatoria, A.W.B.Z.,
che copre i rischi della cronicità e della non autosufficienza, ed il relativo
fondo è circa eguale a quello dell'assicurazione destinata alle malattie acute.
In Germania l'assicurazione obbligatoria contro la non autosufficienza, Pflegeversicherung,
prevede che l'1,7% dei redditi totali sia devoluto alla costituzione di un
fondo che copre il rischio specifico, sia per le cure a domicilio che in residenze
apposite. Dall'inizio del 1999 anche lo Stato del Lussemburgo raccoglie l'1%
dei redditi a questo scopo, e tale importo viene integrato dall'erario nella
misura di 45 franchi per ogni 55 franchi raccolti.
Sono convinto che tutti i concittadini, compreso quelli meno agiati, i pensionati,
una volta che fossero chiamati a scegliere, accetterebbero in maggioranza
l'opzione della massima solidarietà possibile, garantendo il finanziamento
di iniziative di grande valore sociale, come quelle in favore dei non autosufficienti,
anche sobbarcandosi l'onere aggiuntivo, purché condiviso da tutte le categorie.
Si potrebbe pertanto sbloccare la situazione di stallo che si è venuta a creare
nel nostro Paese su questo importante ed urgente problema.
1 C.Hanau, E. Pipitone, Famiglia e malati cronici non autosufficienti,
Atti della conferenza: la popolazione dell'Emilia Romagna alle soglie del
2000. Regione Emilia Romagna, Bologna, 1995, pp.315-322.
2 AA.VV., "I principi cardine della riforma sanitaria nazionale", a cura di
S. Zamagni, Panorama della Sanità, n.12, 1997, p.25.
3 AA.VV., Eutanasia da abbandono, Rosenberg & Sellier, 1987
4 C.Hanau: Fondo sociale cercasi. Panorama della Sanità, n.39, 1999, pp.6-7.
C.Hanau: L'equità compartecipativa. Panorama della Sanità, n.46, 1999, p.36.
C.Hanau: "Fatturato" sanitario in crescita. Panorama della Sanità, n.47-48,
1999, pp.28-29.
5 C. Hanau: Cure domiciliari e innovazione dello stato sociale. Politiche
Sociali, n.3-4, 1997, pp.10-27.
Comunità alloggio GIONA: dalla balena
alla città
Vittorio Ondedei Cooperativa sociale “Archimede”, Pesaro
(indice)
Viene descritta l’esperienza di una Comunità Alloggio rivolta a persone
handicappate in situazione di gravità caratterizzata da alcuni elementi: il
ruolo del personale educativo; la strutturazione di proposte e ritmi di vita
familiari ed adeguati alle esigenze individuali degli utenti; un rapporto
costante ed articolato con il territorio.
La Comunità Alloggio (C.A.) GIONA è un servizio residenziale del Comune di
Pesaro, gestito in convenzione con la cooperativa Archimede e con la collaborazione
dell'Azienda Usl 1 di Pesaro e dei Comuni di Mombaroccio e Mercatello sul
Metauro. A Giona abitano 4 uomini e 2 donne, d'età compresa fra i 43 ed i
60 anni, che non possono essere accolti continuativamente nel proprio ambito
familiare per assenza o progressivo invecchiamento delle figure parentali
di riferimento.
Il loro handicap è detto "grave": posseggono alcune autonomie personali, ma
necessitano di supporto ed aiuto continuativi, per quanto riguarda la gestione
della vita quotidiana, gli spostamenti e l'interazione con la realtà sociale.
Il servizio è garantito da un'equipe di 5 educatori, presenti in turnazione,
un coordinatore a tempo parziale, un'assistente domiciliare, obiettori del
Comune di Pesaro e tirocinanti della cooperativa.
Il progetto GIONA è stato presentato dal Comune di Pesaro alla Regione
Marche nel marzo 1997, come progetto pilota ai sensi dell'art. 12 della L.R.18/96.
E importante ricollocare la C.A. GIONA nel momento in cui appare ufficialmente
a livello progettuale, non tanto perché nelle origini risiede "la verità",
quanto perché nel movimento prodottosi a più livelli è possibile leggere le
tracce ed i semi sviluppatesi poi nella realtà attuale della C.A., della sua
organizzazione interna e dei suoi rapporti con l'esterno.
Innanzitutto, GIONA giunge alla conclusione di un percorso professionale di
un gruppo di educatori della cooperativa Archimede, che dal 1989 operavano
presso l'Istituto Medico Educativo dell'Azienda Usl l di Pesaro (ora RSA "Tomasello"),
e del percorso di vita di un gruppo di utenti della suddetta struttura, 4
uomini tra i 40 ed i 58 anni.
Nel corso degli anni, attraverso attività educative miranti ad un recupero
delle autonomie personali ed ad un maggiore contatto con la realtà esterna,
è diventata sempre più concreta la possibilità che queste persone potessero
vivere in una struttura meno "protetta", meno vincolata da forme organizzative
ed istituzionali di tipo sanitario/assistenziale.
Tralasciando di trattare nel dettaglio le vicende e le dinamiche che hanno
portato, a livello operativo, alla realizzazione della Comunità Alloggio (partita
con un finanziamento annuale solo per le attività diurne nel 1998, è poi rimasta
"in attesa" dell'approvazione dei progetti della 162/98 nel corso del 1999
ed infine ha trovato collocazione del progetto regionale approvato nel luglio
2000), possiamo comunque dire che ha visto attivarsi una serie di soggetti
istituzionali diversi (Regione, Comune di Pesaro, Azienda Asl 1, cooperativa
Archimede....) che hanno voluto e dovuto, ciascuno per l'ambito di propria
competenza, operare per permettere al progetto di realizzarsi e stabilizzarsi.
Gli elementi caratterizzanti
Le scelte organizzative pensate e realizzate per Giona sono caratterizzate
da alcuni elementi cu cui si basa la specificità del servizio e le sue potenzialità:
1. il ruolo del personale educativo, che ha in carico la gestione quotidiana
della struttura e delle persone che ci vivono;
2. la strutturazione di proposte e ritmi di vita familiari ed adeguati alle
esigenze individuali degli utenti;
3. un rapporto costante ed articolato con situazioni di vita esterna.
Per quanto riguarda il ruolo dell'educatore a Giona, possiamo dire, descrivendo
in maniera "epidermica" il suo lavoro, che si fa carico di una serie di mansioni,
normalmente affidate ad altre figure professionali: cucinare, sistemare le
stanze ed il guardaroba, lavare i panni e stenderli, curare l'igiene personale,
somministrare i farmaci ecc.
Tutto ciò è indubbiamente una ricchezza, soprattutto perché viene a scardinare
un meccanismo istituzionale tradizionale: l'educatore si occupa della parte
buona, pulita, ricca di potenzialità, mentre l'assistente o l'infermiere di
quella malandata, sporca, regressiva. Tale scissione di funzioni, se non opportunamente
"pensata", produce inevitabilmente un vissuto di scissione anche nella persona
che si ha in carico, con conseguente paralisi del' evoluzione. Gli operatori
poi, possono depositare "sull'altra parte", (educatore o assistente a seconda
della direzione che si vuol prendere...) tutti i vissuti e le emozioni aggressive
e distruttive, rendendo così difficile un confronto tra le diverse funzioni,
che risultano incomprensibili l'una all'altra. Si deduce facilmente che ci
rimetta, in questa situazione.
L'esperienza di GIONA, su questo aspetto della presa in carico, ci rivela
che è necessario assumersi in carico la persona nella sua globalità, evitando
scissioni sul corpo e sulla persona dell'altro. Sicuramente non è semplice
porsi in questa prospettiva e a GIONA talvolta possono sorgere conflitti legati
proprio al ruolo dei diversi operatori (educatori, obiettori, assistente domiciliare,
tirocinanti...) che, benchè siano a bassissimo livello di aggressività, richiedono
una riflessione ed un confronto costante, in modo che non siano negati, ma
vengano colti per il loro valore di segnali di una disfunzione organizzativa,
che va affrontata a livello d'equipe del servizio e non "rigettata" sugli
utenti.
GIONA è aperto tutto l'anno, per 24 ore al giorno. Quindi è necessario realizzare
tutte quelle attività, legate alla vita quotidiana, che sono ripetitive e
cicliche (cucinare, fare la spesa, sistemare gli ambienti, ecc.).
La loro caratteristica principale, comunque, è di essere necessarie: non si
può non mangiare, non andare a dormire, non lavarsi, ecc. Può sembrare ovvio,
ma è proprio su questo "ovvio" che si può valutare o meno la positività di
un'organizzazione sorta con lo scopo di garantire una vita qualitativamente
buona a persone che non sono in grado di provvedere totalmente a sé.
Infatti la tendenza dell'istituzione è appiattire e rendere artificiali (il
cibo arriva già pronto dall'esterno, i vestiti arrivano già stirati, alcune
persone pensano a pulire tutti gli spazi...) proprio quei momenti che costituiscono
la quotidianità di milioni di esseri umani, per lo meno nella civiltà occidentale,
sancendo così una differenza incolmabile tra assistente ed assistito, differenza
che rende difficile quei processi di identificazione che sono alla base di
un'attitudine empatica nella relazione.
L'educatore
Il lavoro che viene condotto, da parte degli educatori, è proprio quello di
condividere il tempo e gli spazi della vita quotidiana: l'educatore mangia
a tavola con gli utenti, usa gli stessi piatti, posate, bicchieri; ha una
sua camera per riposare; ecc. ecc.
Può sembrare poca cosa, ma non lo è assolutamente: è una tipologia di lavoro,
che ha molta vicinanza con esperienze analoghe del territorio nazionale, in
cui il lavoro educativo si allontana dal paradigma pedagogico classico (l'educando
come persona da trasformare attraverso attività specifiche ed adeguate all'età
evolutiva del soggetto...), paradigma che produce una necessaria "distanza"
tra i due soggetti della relazione, per avvicinarsi invece ad altri orizzonti,
nei quali l'educatore si configura come la persona che ha in carico il mantenimento
di una situazione di equilibrio (comunemente detta "normalità"..), all'interno
della quale, oltre a lui stesso (con la sua identità professionale), ci sono
gli utenti, le famiglie, gli altri operatori, le persone "esterne". E l'ambito
di questo lavoro è la vita quotidiana, in tutte le sue sfaccettature, imprevisti,
stupori.
L'attitudine che è richiesta agli educatori in servizio a GIONA rientra appunto
in quella dimensione operativa, per la quale si cerca di evitare di operare
scissioni sul corpo (e sulle emozioni !) delle persone che si hanno in carico.
In questa prospettiva si può parlare anche di un tenere a mente: contenere,
unificare, connettere nel tempo e nello spazio ciò che è accaduto, presentare
ciò che accadrà, sostenere nei momenti di crisi d'adattamento al nuovo. Tutto
ciò viene fatto dall'educatore attraverso gli strumenti che ha a disposizione:
il dialogare ( rispondere, domandare, raccontare, ascoltare...lungo
tutto l'arco della giornata, ma soprattutto nei momenti di condivisione, come
il pranzo, la cena, le ore serali, le uscite all'esterno..), lo scrivere
(in questo senso il cosiddetto "quaderno delle consegne" è una memoria collettiva,
che permette all'equipe di utilizzare una storia unificata, una successione
di eventi, annotazioni, opinioni, commissioni.... che costituiscono un patrimonio
comune di tutti gli operatori; oppure ci sono le cose che vengono scritte
su biglietti -come gli inviti personalizzati alle assemblee, o i quaderni
personali o le lettere, le cartoline..); il mettersi a disposizione per
le richieste individuali (fare una telefonata, comprare qualcosa di personale,
aiutare o farsi aiutare in qualche lavoretto in casa, accompagnare in luoghi
particolari, come un cimitero o il canile, ecc.); il rispettare i tempi
ed i modi di ciascuno, senza che ciò venga a scapito di altri (evitare
che i conflitti o le crisi determino manifestazioni d'aggressività, prevenire
le situazioni di conflitto attraverso un'attenzione costante all'utilizzo
degli spazi edegli oggetti comuni e personali, evitare, per quanto è possibile,
proposte massificate, che coinvolgano obbligatoriamente tutto il gruppo).
Gestire la quotidianità, senza perdersi nella routine (gestione del
quotidiano e ripetitività della routine sono due dimensioni dell'intervento
educativo estremamente contigue: come si può stare all'interno di una ripetitività
inevitabile -sveglia/pranzo/cena/dormire, solo per restare sul generale...
- senza trasformare i propri gesti in qualcosa di vuoto ed automatico? Innanzitutto
prevedendo la possibilità, per gli educatori, di personalizzare il proprio
lavoro, per quanto riguarda, ad es., il menù, oppure gli incarichi specifici
interni, ad es. chi è addetto a cucire, chi, di preferenza, a fare la spesa,
ecc. Poi mantenendo costantemente in una proiezione centrifuga il proprio
lavoro, cercando cioè contatti e situazioni esterne - Ceis, famiglie, spazi
d'attività, ecc. che costringono ad aggiustamenti interni ed a modifiche costanti
della routine).
Riassumendo, possiamo dire che l'agire dell'educatore si caratterizza come
un costante (e talvolta faticoso, da cui alcuni momenti di calo di tensione
e di senso di solitudine...) essere presenti nella situazione, cercando
di mantenere il proprio ruolo. Quindi ascoltare, rispondere, consolare, tranquillizzare,
stimolare, confermare, lasciar fare, porre dei limiti, mostrare il proprio
piacere o il proprio disappunto, gestire i tempi e l'organizzazione della
giornata per poter svolgere tutte le cose necessarie ed anche quelle non necessarie.
C'è anche dell'altro. Ma ciò che qui preme sottolineare è come l'equilibrio
ed il benessere possano essere possibili se c'è questo tipo di attitudine,
da cui discendono una miriade di comportamenti e microazioni, che marcano
e qualificano l'agire dell'educatore, indipendentemente da ciascuna attività
specifica.
La personalizzazione dell'intervento
All'interno di questa prospettiva assume particolare importanza a GIONA la
personalizzazione dell'intervento educativo, intendendola come adattabilità
delle regole e dell'organizzazione alle modalità di vita dei singoli utenti,
alle loro richieste e desideri. A volte può sembrare un dispendio di energia,
ma fondamentalmente non è altro che il tentativo di mantenere atteggiamenti
e dare risposte, che siano il più possibili riferiti alla singola persona
con tutte le sue risorse e difficoltà. In tal modo si creano canali comunicativi
sempre più stabili e scambi affettivi che facilitano l'affermarsi di sentimenti
di sicurezza e fiducia.
Pensare e concretizzare il lavoro quotidiano, svolto dagli educatori, cercando
di rispondere alle singole richieste e predisponendo per ciascuno momenti
di personalizzazione delle attività (ad es. attraverso una distribuzione dei
compiti relativi alla gestione degli spazi personali o comuni..) significa
strutturarlo facendo attenzione alle sfumature e con elasticità nei comportamenti:
ciò ha reso possibile, nelle persone che abbiamo in carico, l'attenuazione
di forme di rigidità e ripetitività, che compaiono normalmente nell'affrontare
situazioni nuove e spersonalizzate, facilitando l'instaurarsi di comportamenti
creativi ed adattativi, che rispondono cioè alla realtà della situazione che
si va affrontando.
La personalizzazione dell'intervento educativo e la ricerca di un equilibrio
che garantisca il benessere di tutti, implica un'attenzione particolare per
le dinamiche di gruppo (che si evidenziano, nel caso di Giona, nell'uso degli
spazi, nel rapporto con gli altri nei momenti in cui si è tutti insieme..)
e per le modalità di approccio con gli utenti, che devono essere personalizzate
ed adeguate ai diversi momenti della giornata e della sua vita. Quanto tempo
trascorre l'educatore, svolgendo azioni di integrazione all'interno del gruppo
e di facilitazione nello svolgimento d'attività: attendere, invitare, spiegare,
mediare, predisporre gli spazi, organizzare la giornata, prevedendo l'"incastro"
delle diverse esigenze e richieste!
L'educatore si mette a disposizione dell'equipe e degli utenti, ha una traccia
di attività "obbligatorie", legate alla gestione della casa ed ad appuntamenti
esterni, ed alcuni ambiti su cui può intervenire se ha tempo e se lo richiede
la situazione (ad es. la sistemazione delle camere oppure puo'organizzare
un'uscita in un luogo particolare, che costituiva una meta richiesta...).
Mantenere l'equilibrio è anche intervenire nei conflitti che giornalmente
sorgono tra alcuni utenti, sull'uso degli spazi, sull'organizzazione dei tempi,
sulla soddisfazione delle richieste: è necessaria allora un'attenzione particolare
ad anticipare le situazioni di crisi e, se avvengono, a non "abbandonarle",
tornando piuttosto, dopo un po' di tempo, a parlare con le persone coinvolte,
rendendo possibile una verbalizzazione delle emozioni.
E l'equilibrio da mantenere può essere anche il proprio, messo a dura prova
dalla sofferenza e dalle difficoltà con cui si è giornalmente a contatto,
nonché con le proprie frustrazioni e delusioni, rispetto agli investimenti
affettivi fatti.
Il territorio
Come si struttura il rapporto con l'esterno? c'è stato un lento mutare di
prospettiva, all'interno del gruppo degli educatori, rispetto all'identificazione
di un dentro ed un fuori, come viene naturale nell'ambiente dell'istituto.
Adesso si può parlare piuttosto di un lavoro sull'integrazione sociale, cioè
sul trovare ambiti, situazioni, contatti...., attraverso cui la persona possa
sperimentare modalità di relazione e di comportamento, diverse a seconda del
contesto e delle persone con cui si trova. E' un ambito a valenza educativa,
perché presuppone, nel caso di Giona, un impegno da parte di tutti gli operatori,
per individuare queste situazioni, per mediare con il contesto sociale e per
facilitare il percorso di avvicinamento/contatto/sperimentazione della persona
che hanno in carico.
Ad esempio: i rapporti con i negozianti della zona. Alcuni utenti si recano
dal fornaio, dal verduraio, dal tabaccaio ecc. Quando escono, non accompagnati,
viene dato loro un biglietto con scritto quello che serve (se lo chiedono
e per aiutare chi ha difficoltà a parlare) ed i soldi necessari. Preventivamente
l'educatrice/-tore ha contattato i negozianti per informarli e prepararli
sulle modalità di acquisto. Attraverso semplici accorgimenti, si cerca di
rendere possibili una serie di azioni cariche di valenze positive, a partire
dalle quali può svilupparsi e prodursi apprendimento. Ovvero, nel nostro caso,
una "tranquilla" capacità di muoversi nel contesto cittadino, per svolgere
un incarico utile a tutta la comunità, da cui quindi può ottenere un rafforzamento
dell'autostima e del proprio ruolo all'interno del gruppo.
Altre occasioni d'integrazione sociale sono i rientri in famiglia (il più
possibile regolari e basati su contatti costanti e sul reciproco supporto);
l'individuazione di persone o famiglie, che, in occasioni particolari, possano
accogliere gli utenti privi di nucleo familiare; il rapporto con il Centro
Italiano di Solidarietà (CeIS) di via Del Seminario, che organizza iniziative
a cui a volte gli utenti partecipano senza gli educatori della C.A.: uscite,
feste, gite, vacanze estive, laboratori... (ad es. molto bella è stata la
preparazione di uno spettacolo teatrale, quando le persone che vivono a Giona
uscivano nel tardo pomeriggio, con la loro cena nella borsa, per andare alle
prove insieme agli operatori del CeIS....); l'accoglienza, presso la C.A.
di amici, a pranzo o a cena; il momento della spesa nel supermercato, occasione
per vivere una "normale" situazione di vita, partecipando direttamente agli
acquisti, in un contesto socialmente impegnativo (confusione, folla, necessità
di mantenere posture e prossemiche adeguate, ecc...); le situazioni particolari
che possono presentarsi durante l'anno e che occorre cogliere al volo (Messe,
Convegni, inviti fuori città, ecc.), perché possono diventare occasioni di
piacere e sperimentazione.
Alcune difficoltà, che influenzano il lavoro educativo in questo anbito specifico
e renderlo meno efficace: il rischio di cadere in comportamenti di routine
(privi cioè di quell'intensità emozionale che da senso all'azione educativa);
le rigidità comportamentali delle persone che abbiamo in carico; la stanchezza
degli operatori di fronte a situazioni complesse: rapportarsi con l'esterno
implica infatti un minor controllo sulle diverse variabili, per cui una maggior
probabilità che la situazione possa rivelarsi frustrante o deludente per l'utente
(pensiamo ad es. alla persona che promette di venire e poi invece, magari
senza avvisare, non si fa vedere...); l'oggettiva pericolosità dell'ambiente
urbano, che non è strutturato per accogliere persone con problemi di vista
o, per scarsa abitudine a muoversi autonomamente, distratte.
Questo lavoro ha evidenziato una possibile analisi della comunità alloggio
GIONA e del lavoro educativo, individuandone i presupposti e l'attitudine
che lo caratterizza. Sicuramente GIONA è un servizio come tanti altri: la
sua particolarità è esclusivamente quella di avere proprio certe persone che
vi abitano e proprio certe persone che vi lavorano. Tuttavia questa particolarità
è propria di ciascun servizio.
Quindi GIONA è proprio come tanti altri, ma allo stesso tempo non lo è. In
questa apparente contraddizione risiede il senso di questo lavoro, dichiaratamente
in movimento e non concluso: come rendere conto della particolarità di un
servizio, intesa come la sua esperienza della vita in comune e della relazione
d'aiuto. Un processo, più che un risultato.
La Comunità Alloggio Giona si trova a Pesaro, in via Mazza 32, tel 0721.31428.
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