Appunti n.132
(indice Appunti)
- Handicap intellettivo grave e servizi. Oltre l’assistenzialismo
e l’irrecuperabilità - Antonio Valentini, Direttore Centro socio educativo,
Opera don Guanella, Nuova Ologno (So)
- Politiche sanitarie nelle Marche e tutela dei soggetti deboli - Fabio
Ragaini, Gruppo Solidarietà
- Equità e diseguaglianze nella salute
- I servizi per l’inserimento lavorativo dei disabili nella
legge 68/1999 - Ariodante Ramovecchi, Direttore Centro per l’impiego,
Fano (PS)
- Adozione e affidamento in pericolo - ANFAA
Handicap
intellettivo grave e servizi. Oltre l’assistenzialismo e l’irrecuperabilità
Antonio Valentini, Direttore Centro socio educativo, Opera don Guanella,
Nuova Ologno (So)
(indice)
Prendersi cura senza guarire; così può essere definita la filosofia di
riferimento nel lavoro con persone con grave handicap intellettivo. Recuperare
la dimensione pedagogica ed educativa porta a puntare al benessere della persona,
alla sua qualità di vita, alla luce della soddisfazione dei suoi bisogni;
tendere ad un migliore e più adeguato assetto esistenziale, al massimo benessere
possibile.
(..) Intendo dividere, per comodità espositiva e di comprensione, la mia relazione
in tre punti (per ragioni di spazio riprendiamo parti del primo e del terzo
punto, n.d.r.) che comunque sono tra loro strettamente correlati:
1) Alcune riflessioni generali di filosofia dell'educazione con l'handicap
grave (dimensione pedagogica).
2) Quale organizzazione dei servizi per l'handicap grave per una qualità di
vita? (dimensione pedagogica e comunitaria).
3) Quali le caratteristiche di un ambiente accogliente per la persona con
handicap grave? (dimensione comunitaria).
Alcune riflessioni generali di filosofia dell'educazione con l'handicap
grave
Utilizzerò in questa prima parte il testo di M. Cannao e G. Moretti, Il
grave handicappato mentale. (..) L'handicap intellettivo grave in età
adulta è una disabilità di difficile definizione. Gli autori sopra citati
suggeriscono una chiave di valutazione particolare e sottolineano comunque
l'importanza di una valutazione fatta ai fini dell'attività educativa e riabilitativa
e non solo rinchiusa in quelli medico-specialistici. La chiave generale, dicono
gli autori, può essere identificata nel principio di comunicazione che a sua
volta consiste di tre operazioni: decodificazione - elaborazione - codificazione
con i relativi livelli di funzionamento neuropsichico e relativi aspetti strutturali
(vettori e analizzatori) a cui si aggiungono il grado di rigidità del funzionamento
mentale e la dimensione emozionale.
A monte occorre comunque fare almeno 2 considerazioni molto importanti: la
prima è che in nessun altro caso, come in quello della persona con grave handicap
intellettivo, è necessario tenere presente l'unità della persona (visti i
rischi di frammentazione insiti nella gravità); la seconda è che per intraprendere
strade riabilitative ed educative realmente efficaci occorrono soluzioni nuove,
nuovi strumenti.
Tralasciando gli aspetti della valutazione più di tipo tecnico medico, è realistico
dire che di fronte alla persona con handicap intellettivo grave il disagio
è molto forte, non si sa letteralmente che cosa fare. Si sperimenta spesso
un senso di angoscia perché ci si sente costretti in un ruolo custodialistico
inaccettabile che riporta ai paradigmi di assistenzialismo e irrecuperabilità.
Il rischio è quello di elaborare programmi in chiave prevalentemente medico-naturalistica,
che pure ha la sua importanza ma non è esaustiva. Si avviano allora programmi
di vita rigidi, schematici (es: suddivisione e organizzazione della giornata)
che poi normalmente si rivelano fallimentari. Alla base di tali concezioni
frequentemente stanno due modi erronei di concepire ed affrontare la gravità.
- Il primo consiste nel non aver preso coscienza della condizione di gravità
e dei limiti che essa impone al recupero. In questo caso si continua ostinatamente
a tenere come riferimento la vita attiva della persona normale, e il disabile
rischia di diventarne una grottesca caricatura. E' importante invece, come
sottolineano Cannao-Moretti, prendere consapevolezza che la persona con handicap
intellettivo grave ha una visione/percezione della realtà non soltanto ridotta
o limitata ma strutturalmente diversa da quella della persona cosiddetta sana.
- Il secondo consiste nell'utilizzare una mentalità strettamente naturalistica
che induce a valutare la persona con handicap intellettivo grave in base ai
suoi deficit, considerandola come un insieme di errori da riparare o di mancanze
da colmare. Anche se, in realtà, qualunque azione riabilitativa presuppone
un substrato attivo su cui lavorare.
In forza delle considerazioni sopra esposte occorre arrivare ad un piano più
profondo, occorre cioè recuperare la filosofia dell'intervento con la persona
con grave handicap intellettivo, e la prospettiva pedagogica, educativa e
comunitaria. Semplificando possiamo dire che gli interventi tradizionali generalmente
si suddividono in due grossi filoni: da una parte la prospettiva medica e
dall'altra l'ottica riabilitativa ed educativa.
Nella prima l'intervento è orientato a vincere la malattia, ad eliminare i
sintomi, a diminuire le sofferenze. Tale prospettiva è pressoché irrealizzabile
nelle compromissioni cerebrali gravi perché sono caratterizzate da cronicità,
perché il sistema nervoso è poco plastico e perché le alterazioni sono per
lo più irreversibili. Questa prospettiva ha sicuramente un suo valore perché
consente di impiegare strumenti atti a ridurre sintomi secondari (es. instabilità,
ansia, comizialità) e a risolvere problemi clinici (ad esempio nel campo dell'odontostomatologia,
della chirurgia, dell'ortopedia, ecc..) che permettono il raggiungimento di
stati di benessere. Occorre però ammettere che è estremamente difficile prevedere
provvedimenti medici risolutori.
L'ottica riabilitativa ed educativa si presenta come più multiforme e complessa,
e non si vuole qui entrare nel merito delle varie tecniche riabilitative,
ma concentrare l'attenzione sulle finalità di tale intervento. Tali finalità,
come riportato nel testo sopra citato, si possono così riassumere in ordine
decrescente:
1. Normalizzazione totale (guarigione);
2. Recupero che permette una reale integrazione sociale;
3. Ampliamento di capacità residue per una sufficiente autonomia;
4. Introduzione di comportamenti elementari integrati con modificazioni del
contesto;
5. Mantenimento della situazione in rapporto alle possibili regressioni.
Generalmente per la persona con handicap intellettivo grave valgono le ultime
due finalità anche se non si deve escludere la possibilità di accedere ai
livelli superiori. Quest'ottica è sicuramente più efficace ed è intesa come
traduzione nella pratica quotidiana dello spirito del prendersi cura e non
come prassi riabilitativa meccanizzata o come terapia interminabile.
Qual è quindi la specificità della filosofia dell'intervento con il grave?
Personalmente condivido la posizione degli autori sopra menzionati che identificano
tale specificità nella capacità di prendersi cura senza guarire.
Occorre forse qui approfondire ulteriormente. Nel modo corrente di concepire
gli stati di patologia esiste una continua logica consequenziale tra i processi
di diagnosi - cura - guarigione. Questo tipo di modello è poco adatto ad affrontare
condizioni come quella della persona con grave handicap intellettivo. In questi
casi, fin dall'inizio, la guarigione appare assai improbabile se non impossibile
e allora si evidenzia l'inutilità di mettere in atto il secondo termine della
sequenza: la cura. Questa drastica posizione viene ad attenuarsi con il fattore
tempo e, come dicono gli autori: "assistiamo quindi molto spesso ad una progressiva
dilatazione della dimensione cronologica, che si estende a dismisura dando
luogo a terapie interminabili ….. destinate a finire solo con la vita del
paziente o con l'esaurirsi dell'energia psicologica di chi amministra la cura".
Proseguendo questa analisi si rileva che il modello: cura - terapia - guarigione
si rifà ad una concezione della salute come parametro assoluto della normalità.
Ma, se la diagnosi sicuramente si colloca nel campo naturalistico, la cura
appartiene ad una sfera ben più ampia che attinge dalla filosofia e dall'antropologia.
Con il termine cura si intende qui l'atteggiamento di chi possiede una interiore
sollecitudine per la persona che soffre, di chi intende partecipare attivamente
alla sofferenza altrui. Per questo il curare presuppone un atteggiamento mentale
che non considera la malattia come qualcosa di mostruoso o abnorme, estraneo
al fluire della vita. In questa prospettiva il destino della malattia diverge
dal destino della persona, la quale rimane tale anche se gravemente e inguaribilmente
malata, e il diritto alla cura è qualcosa di sostanzialmente diverso dal diritto
a una qualche assistenza di cui fruire passivamente fino alla morte. Per questo
curare la persona con grave handicap intellettivo è uscire dalla ristretta
ottica medico-naturalistica, è porsi come persona autentica di fronte ad una
persona che non guarirà per darle aiuto nonostante la malattia, e non contro
di essa..
Ovviamente l'ottica in cui ci si deve porre non è quella di escludere la dimensione
del recupero ma quella di stabilire delle precise priorità di intervento e
collocare tutto ciò in una articolata visione dell'uomo. Significa sostanzialmente
effettuare la distinzione fra prendersi cura della malattia e prendersi cura
della persona. Per approfondire questa distinzione ci facciamo aiutare dalle
scienze neurologiche e dagli studi rispettivamente di Jackson e Goldstein.
In un ottica naturalistica il primo afferma che la salute è la norma e quindi
la malattia è sempre regressione, per il secondo in un ottica umanistica la
malattia è un nuovo modo di vita. (..) Occorre comunque stare attenti a non
negare l'esistenza stessa della malattia come fattore biologico affermando
che la condizione di gravità neuropsichica si può eliminare semplicemente
modificando l'assetto sociale. Questo sarebbe una profonda mancanza di rispetto
per la persona con grave handicap intellettivo, infatti, rispettare una persona
significa anche impegnarsi a riconoscere i suoi bisogni reali e cercare di
rispondervi.
E' quindi necessario interrogarsi sui bisogni, sul vero significato della
sofferenza.
La persona adulta con grave handicap intellettivo soffre di una diminuita
capacità contrattuale nei confronti dell'ambiente, di enormi pericoli di frammentazione
del sé, del collasso di minimi spazi mentali, della scomparsa degli strumenti
di comunicazione. Per questo ha necessità di aiuto ed è nostro dovere offrirglielo,
quindi l'intervento, indipendentemente da qualsiasi istanza di guarigione,
si pone obiettivi primariamente esistenziali.
Bisogna saper porre al centro la persona nella sua globalità rifacendosi a
modelli e valori etici/filosofici e antropologici e collocandosi lontani dal
criterio di efficienza. Vero è che l'attuale dimensione socio-culturale peggiora
la situazione della persona in condizione di handicap perché è condizionata
da un meccanismo di produttivismo efficientistico. Occorre rifocalizzare il
problema esistenziale della persona che è anche e soprattutto problema di
comunicazione e quindi di cultura, perciò riabilitare è modificare il rapporto
soggetto-ambiente.
Occorre quindi puntare al benessere della persona, alla sua qualità di vita,
alla luce della soddisfazione dei suoi bisogni; tendere ad un migliore e più
adeguato assetto esistenziale, al massimo benessere possibile, con realismo.
Senza dubbio la persona con grave handicap intellettivo colpisce chi lo avvicina
per la sua condizione di estrema povertà, sembra quasi di entrare in un deserto
psichico, relazionale, sociale e suscita l'impulso immediato di abbandonarla
al proprio destino o di assisterla passivamente, perché la promozione sembra
una utopia e sembra data per scontata l'ineducabilità.
Se però si cambia prospettiva e ci si rifà a criteri di relazionalità, convivenza
e felicità allora la dimensione educativa assume un nuovo e forte significato
nel quadro globale del trattamento. E questo avviene se si recupera l'accezione
primitiva del termine educazione: processo destinato a guidare un individuo
verso tappe di economia esistenziale più avanzate.
Un intervento educativo così inteso deve rifarsi a due presupposti:
1) Qualsiasi intervento, a qualunque livello si realizzi, deve avere come
fine il benessere della persona (il suo equilibrio nel rapporto con la realtà),
e di conseguenza i risultati si devono valutare in termini di facilitazione
dell'esistenza di quel soggetto specifico e non in riferimento a modelli teorici
di sviluppo, né a criteri di produzione sociale o di altro tipo.
2) Valutare con precisione e realismo l'utilità effettiva delle capacità funzionali
che si intende evocare o potenziare. Infatti alcune acquisizioni strumentali
possono rimanere estranee all'assetto globale della persona o addirittura
rappresentare un fattore peggiorativo…. E qui gli esempi potrebbero essere
molti….
E' chiaro che l'approccio pedagogico-educativo risulta fattibile se perseguito
da persone (operatori, educatori, familiari) che si configurino come adulte
e psicologicamente ben integrate. Emerge chiaramente qui il forte bisogno
di formazione anche delle dimensioni psico-educative. E' comunque necessario
che le persone che vivono e lavorano con la persona in condizione di handicap
intellettivo grave si caratterizzino sempre più come equilibrate ed integrate.
Basti pensare ad esempio a quanto è difficile saper attendere e cioè assistere
senza intervenire e graduare la pressione dell'intervento secondo i bisogni
attuali di chi è assistito e non di chi assiste …. Quante volte invece non
sono i nostri bisogni …. Le nostre misure di autoefficacia!! Questa dimensione
pedagogica è fondamentale per realizzare realistici e veramente promozionali
interventi.
Mi piace qui richiamare un concetto espresso dal professor Vico in un convegno
del 1998. In quell'occasione parlava di nostalgia dell'educazione e continuava
dicendo che tale nostalgia è insidiata da due grossi rischi. Il primo è quello
rappresentato dal problema del disincanto, dalla tentazione di vivere alla
giornata, perdendo la prospettiva delle lunghe scadenze, lasciandosi sedurre
dal qui ed ora del processo produttivo e dimenticandosi che l'educatore non
si gratifica nel quotidiano; si giunge così a dire che educare è impossibile.
Il secondo è rappresentato dalla caduta dell'educativo, la qual cosa si contrasta
attraverso la creatività e la forza, attraverso la fede nell'educabilità della
persona, attraverso il non lasciarsi frammentare le coscienze e avere il senso
dell'altro. Vi sono sicuramente segnali positivi, incarnati da tante persone
che intendono comunque non abbandonare il campo ma lavorare con impegno e
serietà.
Quali le caratteristiche di un ambiente accogliente per la persona con
handicap grave?
In un ottica comunitaria quali debbono essere le caratteristiche di un
servizio per essere un ambiente accogliente per la persona in condizione di
handicap intellettivo grave? Ma perché è importante parlare di ambiente?
L'ambiente ha un grande ruolo, può determinare in misura maggiore o minore
l'handicap, quello che nel campo della pedagogia speciale viene definito handicap
indotto. L'ambiente può essere considerato come un elemento catalizzante dello
sviluppo del sistema nervoso centrale, soprattutto in particolari fasi e momenti.
A tal proposito gli studi neurobiologici degli ultimi 20 anni hanno tentato
di superare il dualismo determinismo genetico/influenza ambientale per formulare
delle ipotesi più avanzate ed integrate. Molte ricerche mostrano comunque
la stretta relazione fra ambiente e sviluppo del SNC e sue funzioni, tanto
da indurre addirittura delle alterazioni a livello morfologico (..).
Addirittura molti autori sostengono che anche nell'invecchiamento e nel decadimento
(in fasi regressive…) esperienze ambientali favorevoli permettono il mantenimento
di buoni livelli di performance. Tali ricerche e studi ci confermano quindi
l'importanza del tema in oggetto, soprattutto per la persona in condizione
di handicap intellettivo grave. Potrebbero sorgere ora numerose domande circa
quali esperienze, circa il come proporle ecc…
Ma cerchiamo di definire con chiarezza cosa si intende con il termine ambiente
a cui possiamo ricondurre e a volte identificare la dimensione comunitaria.
Mi sono rifatto alle definizioni che il vocabolario Zingarelli dà al termine
ambiente.
Ambiente: 1) Ciò che sta attorno, che circonda. 2) Complesso delle condizioni
esterne materiali, sociali, culturali nell'ambito delle quali si sviluppa,
vive e opera un essere umano. 3) Insieme di persone distinte da interessi
ed idee comuni. Esaminerò ora, ampliandola e cercando di collegarla alla vita
quotidiana dei servizi, ciascuna delle definizioni sopra riportate.
1) L'ambiente è ciò che sta attorno, che circonda, è l'insieme fatto dal tutto
(materiale, personale, emozionale, relazionale,…..). Esso circonda la persona,
è il tutto in cui essa è immersa (e che la plasma). E' quello che i pedagogisti
chiamano il clima, il tono educativo di un contesto. Tale tono è fatto di
elementi, a volte, impalpabili ma anche molto importanti. Pensiamo ad esempio
galleggiare in un ambiente caldo, freddo, teso, rassicurante, …… Quindi la
qualità del contesto ha un grosso valore. Impegno di creare un ambiente ricco
di affetto, calore, attenzione, solidarietà, aspettative, promuovente, preventivo,
ecc…..
2) L'ambiente è il complesso delle condizioni esterne materiali, sociali e
culturali nell'ambito delle quali si sviluppa, vive e opera un essere umano.
Scomponendo l'affermazione si parla di condizioni esterne, non quindi legate
alla persona, materiali: l'ambiente fisico è molto importante perché testimonia
l'apprezzamento della vita e il riconoscimento della dignità. Si parla di
condizioni sociali: fatte di persone, delle loro relazioni, del rapporto con
l'esterno. Ancora, condizioni culturali che si rifanno a quanto sopra ma in
più offrono orientamenti, conoscenze, simboli, norme, valori e relative disposizioni
di animo. Essi hanno una forte incidenza nella crescita e nello sviluppo delle
persone svantaggiate, basti pensare al concetto di handicap. Essi possono
per esempio offrire incoraggiamento o esercitare inibizione (desideri, fantasie,
divieti, tabù, es….).
3) L'ambiente è un insieme di persone destinate ad interessi ed idee comuni.
E' questa una definizione interessante perché riconduce ad un quadro di unità,
es: gruppo di persone che condividono idee e valori quali per esempio la solidarietà,
ambienti coagulati intorno a un nucleo ideologico. E' inevitabile qui fare
un aggancio a quando sopra, nel contesto delle organizzazioni dei servizi,
parlavo del condividere la filosofia generale secondo la quale si opera, consenso
elaborato.
Ma per quanto riguarda l'ambito di cui ci stiamo occupando non basta riflettere
sull'ambiente in generale ma occorre dargli un attributo che lo qualifichi
e lo contestualizzi. Per me è necessario parlare di ambiente accogliente.
Anche qui mi sono divertito a cercare sul vocabolario l'aggettivo accogliente
e il verbo accogliere. Accogliente: ospitale, piacevole, comodo. Sono queste
caratteristiche che rendono attraente un ambiente, lo rendono così prima,
durante e dopo. Sono caratteristiche ben visibili, che si devono poter cogliere
con chiarezza, Rappresentano un invito ad entrare e a rimanere. Sono caratteristiche
spontanee ma che vanno anche costruite e mantenute, sono elementi che rassicurano,
confermano, sostengono. Accogliere:
1. Ricevere con varia disposizione di animo. Il concetto di ricevere sottende
forse ad altri significati quali quello di dono, di fare proprio, di curare,
prendersi cura, farsi carico. Richiede un movimento interiore, una disposizione
di animo. Il tutto si gioca sul termine varia (disposizione di animo) di quali
significati lo riempiamo.
2. Approvare, accettare. E' difficile accettare e non plasmare come vorremmo
noi in modo ideale…eppure è così importante il realismo con la persona in
condizione di handicap intellettivo grave. Per essa è difficile essere primariamente
accettata per quel che è, accettata con disposizione profonda. Attenzione
al fatto che qui non si intende la parola accettare come sinonimo di accontentarsi
ma bensì: accettare per evolvere, perché non c'è reale progresso se non c'è
accettazione iniziale.
3. Contenere, ospitare. E' interessante qui focalizzare l'attenzione sul significato
e sul valore dell'ospitalità. Ancor più sul termine contenere che a ben vedere
è uno dei bisogni primari della persona con handicap intellettivo grave. Contenere
sia in senso figurativo, reale, sia in senso metaforico. Nel primo caso significa
di volta in volta dare uno spazio dove…, offrire dei confini, delle sicurezze,
stabilire chi sta dentro e chi sta fuori. Nel secondo significa offrire sicurezza,
equilibrio, stabilità, contenere le ansie e le paure…
Ora cercherò di coniugare le due realtà concettuali sopra esposte cercando
di raffigurare quali possono essere le caratteristiche di un ambiente accogliente
per creare una vera ed efficace dimensione comunitaria. Quindi esplicitando
meglio: quale ambiente per essere accogliente, in una dimensione comunitaria,
per la persona adulta in condizione di handicap intellettivo grave? Sicuramente,
essendo la persona in condizione di handicap, prima che handicappata, una
persona, valgono tutti gli elementi sopra menzionati con alcune sottolineature
e con qualcosa in più. Darò più spazio a ciò che sta attorno, che circonda
più che alle condizioni esterne, sociali, culturali.
L'ambiente è fonte di messaggi, trasmettitore di sensazioni ed emozioni, è
importante quindi che in esso regni un clima, un tono educativo ricco, rassicurante
e non rigido anche perché la precisione programmatica mal si accorda con la
dimensione umana. Occorre comunque avere le idee chiare, anche se è un impresa
non facile ma obbligatoria per rispetto alle persone affidateci. E' necessario
avere intesa sulle finalità, anche e soprattutto sulle aperture sociali e
sulle proiezioni verso il futuro anche per non frammentare l'intervento e
di conseguenza la persona. Infatti la costituzione di un ambiente non può
prescindere dai contatti che tale ambiente ha con la realtà circostante (le
famiglie, le altre strutture, il territorio, ecc..). Il "prodotto" di questo
ambiente (educativo, benessere, socializzante) è da "esportare" sui diversi
"mercati"…. In quest'ottica trova vera realizzazione il paradigma di restituire
le persone al territorio.
Tornando al tema principale identificherò di seguito alcune delle caratteristiche
che realizzano, in una dimensione comunitaria, una ambiente accogliente e
realmente promuovente per la persona in condizione di handicap intellettivo
grave. Io ne identifico primariamente quattro.
1) Presenza di ordine. Ordine sia materiale che a livello di razionalità,
comprensibilità, chiarezza e trasparenza. Questo ordine deve essere decodificabile
anche da soggetti con ritardi profondi. In ogni momento e per ogni aspetto
è importante chiedersi: questa o quest'altra situazione può essere "letta",
capita, da tutte le persone. Se ciò non si realizza rischiamo di alienare
la persona perché viene tenuta lontano dall'effettivo significato di quanto
la circonda, perché perde il senso di quanto avviene attorno a lei. E' necessario
quindi creare un ambiente a misura, facilitato ma non ridimensionato o ridotto.
Un ambiente commisurato alle capacità di comprensione e di mentalizzazione
delle persone che ci vivono
2) Massima cura della dignità del soggetto, che deve tradursi anche concretamente
in realtà tangibili quali ad esempio la pulizia, l'alimentazione, l'arredamento,
gli spazi, i colori, la possibilità di personalizzazione, ecc…
3) Attenzione alla costruzione di una atmosfera felice, distesa, serena e
non conflittuale. A tal proposito quanti esempi potremmo portare a conferma
del fatto che la persona in condizione di handicap intellettivo (più o meno
grave) percepisce l'atmosfera che la circonda e se essa è negativa, è indotta
a rispondere con manifestazioni altrettanto negative (es: rifiuto ecc…). Vi
è chi afferma che la crisi di una struttura, di un ambiente da il primo segno
attraverso il disagio dei suoi ospiti. La "tenuta" della persona in condizione
di handicap è fragilissima e la loro capacità di intuire quanto non va è straordinaria!
Questo è dovuto sicuramente alle caratteristiche di iporiflessione, iporazionalizzazione,
per un discorso di percezione diretta.
4) Necessità che ogni rapporto sia permeato da autenticità. Ma cosa significa
essere autentici? Utilizzo la definizione di Biswanger: "mettere da parte
alcuni aspetti suggestivi per giungere al senso della persona con cui si tratta,
per affrontarla liberamente, con sincerità, analizzando i problemi che ne
derivano alla luce di una concreta adesione alla realtà".
Tutti questi aspetti devono inevitabilmente dare origine a strategie applicative
immediate su dimensioni quotidiane (es: tempo libero, attività, gite, composizione
gruppi, ecc..). Si potrebbero aggiungere altre considerazioni legate al fatto
che la persona vive ed opera in molti ambienti, e valutare quali legami ed
interazioni esistono fra di essi ponendo l'accento sull'attenzione al pericolo
di una eccessiva frammentazione, parcellizzazione della persona e dell'intervento
su di essa. E' importante qui confermare invece che tutto ciò è come un mosaico
composto da tanti tasselli che più sono compenetrati più sono garanzia del
fatto che la persona sia integra e integrata, e cioè che viva bene. Il soggetto
di tutte queste interazioni è la persona, e ancor di più il progetto che si
ha su e per quella persona. Un progetto globale, esistenziale.
Riferimenti bibliografici
- M. Cannao e G. Moretti, Il grave handicappato mentale, Armando, Roma
1983
- G. Carabelli (a cura di), Molti soggetti per un percorso, Unicopli,
Milano 1993
- M. Motta , F. Mondino, Progettare l'assistenza, La Nuova Italia Scientifica,
Roma 1994
I servizi per l’inserimento lavorativo
dei disabili nella legge 68/1999
Ariodante Ramovecchi, Direttore Centro per l’impiego, Fano (PS)
(indice)
Continuiamo l’analisi e l’approfondimento sull’applicazione della legge 68/1999
in riferimento agli organismi ed ai servizi per l’inserimento lavorativo previsti
in particolare all’articolo 6 dalla normativa nazionale e dal quella della
Regione Marche
L'art. 6 del capo II della legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro
dei disabili, Sup. G.U. n. 68 del 23.3.1999) è dedicato ai servizi per
l'inserimento lavorativo dei disabili. La lettura integrale dell'articolo,
che apporta modifiche allo stesso decreto legislativo 469/97, propone una
dimensione articolata e complessa dei servizi che comprende:
- le strutture individuate dalla Legge regionale n. 38/98 ("Assetto delle
funzioni in tema di collocamento, servizi per l'impiego e politiche attive
del lavoro") secondo i principi e i criteri direttivi indicati all'art. 4
del D.L. 469/97, e denominate "uffici competenti" (cfr. art. 6, comma 1);
- il nuovo "competente organismo" da istituirsi dalla Provincia in sostituzione
della sopprimenda Commissione provinciale del collocamento obbligatorio (cfr.
art. 6, comma 2, lettera a);
- un "comitato tecnico" costituito nell'ambito del nuovo organismo provinciale
(cfr. art. 6, comma 2, lettera b).
Tale previsione normativa di vigenza immediata esige, tuttavia, un ulteriore
definizione a livello di organizzazione amministrativa e di specificazione
funzionale affinché possa divenire effettiva.
In particolare si ritiene opportuno di:
- individuare con certezza la struttura di servizio e la dimensione territoriale
dell'"ufficio competente", del quale sono già definiti i compiti e gli ambiti
di collaborazione;
- specificare natura e funzioni del "competente organismo" provinciale cui
vanno trasferite funzioni e competenze dell'organo collegiale soppresso e
assegnate di nuove dalla legge 68/99;
- determinare con chiarezza l'area di competenza del comitato tecnico, del
quale vengono indicate composizioni e compiti, e da istituirsi nell'ambito
dell'organismo provinciale.
Il lavoro di definizione e specificazione funzionale consentirà l'elaborazione
di un modello organizzativo e amministrativo che si ritiene coerente con le
previsioni dell'articolo 6 e della normativa nel suo complesso. A tal fine
si considera opportuno il collegamento funzionale non solo con gli articoli
4 e 6 del decreto legislativo 469/97 (cui rinvia, peraltro, lo stesso articolo
6 della legge 68/99) ma anche con gli articoli 20 e 24 della legge regionale
di attuazione (n. 38/98).
La struttura di servizio e la dimensione territoriale
Per l'individuazione degli "uffici competenti" di cui all'art. 6, comma 1
della L. 68/99 si deve far riferimento in prima istanza alle funzioni e ai
compiti direttamente attribuiti alla Provincia, in conformità di quanto disposto
dall'articolo 4, comma 1, lettera a) del D.L. 469/97.
A tal riguardo si può correttamente sostenere che l'erogazione dei servizi
connessi alle nuove funzioni attribuite alle Province comprese quelle relative
al collocamento obbligatorio, spetta al Centro per l'impiego; e ciò in considerazione
dell'enfasi posta sulla nuova struttura dal citato articolo 4, comma 1, che
gli dedica l'intera sequenza delle lettere e), f), g).
Tale interpretazione viene confortata anche dall'art. 3 del D.M. 91/2000 laddove
l'espressione anodina di "uffici competenti" si modifica in "competenti servizi"
e dallo stesso art. 1 del recentissimo D.L. 181/2000 che individua nel Centro
per l'impiego il "servizio competente".
A quest'ultimo compete, là dove previsto dalle leggi regionali di attuazione,
anche la gestione e l'erogazione dei servizi connessi alle politiche attive
del lavoro, fra le quali rientrano la "programmazione delle iniziative finalizzate
all'inserimento lavorativo a favore delle categorie svantaggiate.(cfr. art.
2, comma 2, lettera d) del D.L. 469/97). Ne risulta che la gestione e l'erogazione
dei nuovi servizi per l'inserimento mirato è affidata per intero ai nuovi
Centri per l'impiego; a questi ultimi spetta il compito di attivare nel territorio
di competenza, determinato dall'area dei "bacini d'impiego" individuati dalle
singole regioni, gli opportuni raccordi con i "servizi sociali, sanitari,
educativi e formativi", secondo la previsione dell'art. 6, comma 1 della legge
68/99. Emerge, a questo punto, un modello organizzativo di servizi affatto
nuovo perché non più unico nel territorio provinciale ma decentrato presso
i Centri per l'impiego, coordinato con gli altri servizi del territorio, connesso
con le politiche attive del lavoro locali.
Natura e funzione dell'organismo provinciale
La provincia, cui spetta l'istituzione della Commissione Provinciale per le
politiche del lavoro ai sensi dell'art. 6, comma 1, del D.L. 469/97, deve
garantire all'interno del "competente organismo" la presenza di rappresentanti
delle associazioni di tutela delle categorie interessate e di un ispettore
medico del lavoro, nel rispetto della previsione del "nuovo" art. 6, comma
3 della D.L. 469/97. Ne risulta, quindi che il "competente organismo di cui
all'art. 6, comma 3, è la Commissione Provinciale per le politiche del lavoro,
integrata con le modalità di cui sopra e "nello svolgimento delle funzioni
relative al collocamento obbligatorio". Appare opportuno definire anche la
natura e le funzioni di tale organismo: a tale riguardo non v'è dubbio che
l'art. 6, comma 1 del D.L. 469/97 assegna alla Commissione Provinciale per
le politiche del lavoro, istituita dalle province, compiti di concertazione
e consultazione su tutte le funzioni di collocamento e politica attiva del
lavoro attribuite alle province. Tale attività di concertazione e di consultazione
si estende anche alle funzioni già di competenza degli organi collegiali soppressi,
dei quali fa parte anche la commissione provinciale per il collocamento obbligatorio;
(peraltro tali funzioni si riducono ormai all'espressione di pareri su richieste
di sospensione e compensazione territoriale presentate dalle aziende). Altre
e nuove funzioni sono assegnate all'organo collegiale da diversi articoli
della legge 68/99; queste hanno riguardo alla:
- valutazione delle capacità residue e potenziali di lavoratori disabili e
analisi dei posti da assegnare (art. 8, comma 1)
- consultazione nei casi di accertamento delle compatibilità della persona
disabile con l'attività lavorativa (art.10, comma 3)
- formulazione di pareri nei casi di stipula di convenzioni per i programmi
di inserimento lavorativo (art. 11, comma 1)
- proposta di deroghe agli istituti del contratto di formazione e lavoro e
dell'apprendistato motivate da specifici programmi di inserimento (art. 11,
comma 6).
L'analisi obbiettiva delle funzioni vecchie e nuove conferite al nuovo "competente
organismo" provinciale evidenzia i caratteri prevalenti e comuni della concertazione,
della regolazione e della consultazione. Fa tuttavia eccezione alla logica
della specializzazione dell'organismo nella attività di concertazione, regolazione
e consultazione il compito assegnato allo stesso dall'art.8, comma 1 (la valutazione
delle capacità residue e potenziali e l'analisi dei posti da assegnare) che
si ritiene più coerente con la "missione" e le competenze di un servizio per
l'inserimento "mirato". Al fine di evitare sovrapposizioni o confusioni con
i compiti di servizio assegnati agli "uffici competenti", già individuati
nei centri per l'impiego, converrà determinare con chiarezza l'area di competenza
dell'organo collegiale, considerato nelle sue relazioni funzionali con l'istituendo
comitato tecnico, di cui all'art. 6, comma 3 del D.L. 469/97.
Comitato tecnico, organo collegiale e servizio competente
Il Comitato tecnico è composto da funzionari ed esperti del settore sociale
e medico-legale e degli "uffici competenti", già individuati nei Centri per
l'impiego. I compiti assegnati sono relativi "alla valutazione delle residue
capacità lavorative, alla definizione degli strumenti e delle prestazioni
atti all'inserimento e alla predisposizione dei controlli periodici sulle
condizioni di inabilità".
Le competenze del Comitato tecnico consentono opportunamente di fornire all'organo
collegiale un'assistenza tecnica su delicate funzioni regolative e consultive
che interessano l'area socio-sanitaria e medico-legale, nell'ambito di programmi
di inserimento mirato. Ma i compiti del comitato tecnico sembrano "eccedere"
rispetto alla funzione di servizio specialistico quando comprendono competenze
quali "la definizione degli strumenti e delle prestazioni atti all'inserimento"
(il cui significato, peraltro, non è del tutto chiaro e univoco).
Si può supporre che tali competenze siano state assegnate per il supporto
alle funzioni dell'organo collegiale che si riassumono nell'analisi delle
capacità lavorative e delle posizioni di lavoro funzionali all'incontro domanda-offerta
(cfr. art. 8, comma 1) attività che peraltro sarebbero svolte più adeguatamente
dagli "uffici competenti".
Al riguardo, una lettura attenta dell'articolo 6, comma 1, non autorizza una
interpretazione "riduttiva" delle competenze degli "uffici", limitata alle
sole attività adempimentali e autorizzative; ché, anzi, queste comprendono,
come si è già visto, la programmazione, l'attuazione e la verifica degli interventi
per l'inserimento dei disabili, "la stipula di convenzioni" e "l'attuazione
del collocamento mirato".
A queste competenze si deve aggiungere pure il raccordo con i "servizi sociali,
sanitari, educativi e formativi del territorio", al fine di attuare una gestione
integrata e territoriale dei servizi per l'inserimento lavorativo, secondo
la previsione del comma 1 dell'art. 6. L'analisi e il collegamento funzionale
delle norme, evidenziano, quindi, come non sia corretto né opportuno che l'organo
collegiale, e di riflesso, il Comitato tecnico, assuma funzioni assimilabili
o sovrapponibili a quelle svolte dai servizi territoriali. E ciò al fine di
rispettare la prevalente natura concertativa e consultiva dell'organo collegiale,
che ben può avvalersi per l'esercizio di tali funzioni del Comitato tecnico
e delle sue competenze qualificate nell'area socio-sanitaria e medico-legale.
Nello stesso tempo si pone l'esigenza di non creare sovrapposizioni, in tema
di servizi per l'inserimento lavorativo dei disabili, fra il Comitato tecnico
e i Centri per l'impiego, cui spetta organizzare servizi specifici o "dedicati",
collegati funzionalmente con quelli degli enti locali e delle AA.SS.LL. presenti
nel territorio. Si tratta, a questo punto, di valorizzare altrimenti il ruolo
e la funzione del comitato tecnico se non si vuole risolverlo nel solo supporto
qualificato alle funzioni consultive dell'organo collegiale.
In tal senso si può proporre il Comitato tecnico quale referente a livello
provinciale dei servizi territoriali per le funzioni di assistenza tecnica
e di sostegno progettuale ai programmi di inserimento mirato proposti dai
Centri per l'impiego. Tali funzioni possono prevedere il sostegno nella stipula
di convenzioni con le imprese e le cooperative sociali, la predisposizione
di misure, strumenti e ausili per l'integrazione lavorativa, l'accompagnamento
negli ambienti di lavoro.
Alla luce di queste proposte il comitato tecnico assumerebbe non solo un ruolo
di supporto alle funzioni consultive dell'organo collegiale ma anche quelle
nuove e inedite di sostegno e assistenza tecnica ai servizi per l'inserimento
lavorativo dei disabili.
Adozione
e affidamento in pericolo. Appello urgente per evitare l’approvazione di un
disegno di legge che comprometterebbe il futuro dei bambini abbandonati o
con gravi difficoltà familiari
ANFAA Associazione Nazionale Famiglie Adottive e Affidatarie, Via Artisti
36, 10124 Torino; tel. 011/812.23.27 fax 011/812.25.95.
(indice)
È' iniziata giovedì 21 dicembre presso la Commissione Giustizia della Camera
la discussione in sede referente del pericolosissimo disegno di legge n. 7487
approvato nei giorni scorsi al Senato. Relatore è l'On. Anna Maria Serafini.
Le sue intenzioni sono chiare: fare il più in fretta possibile; ha infatti
chiesto che la discussione proseguisse in sede redigente per accelerare i
tempi e arrivare al più presto all'approvazione del testo che è stato presentato
in termini molto positivi. In questo senso sono intervenuti purtroppo anche
la Presidente Anna Finocchiaro e alcuni deputati del Polo. Solo un'ampia e
forte mobilitazione potrà forse cambiare idea ai deputati. I bambini non devono
essere strumentalizzati a scopo elettorale: non c'è nessuna emergenza, né
alcuna urgenza che giustifichi l'approvazione di questo disegno di legge che,
se approvato, danneggerà i bambini abbandonati o con gravi difficoltà familiari.
Infatti è contrario all'interesse dei bambini adottabili
elevare la differenza massima di età fra adottanti e adottato a 45 anni, ulteriormente
prorogabile a discrezione del tribunale per i minorenni (art. 6), quando già
adesso ci sono moltissime domande rispetto al numero dei minori adottabili.
Nel 1999 i bambini dichiarati adottabili sono stati 1.246 a fronte di 23.807
domande giacenti e 2.186 sono stati i provvedimenti di adozioni di bambini
stranieri a fronte di 17.663 domande!!
Se dovesse essere approvata l'elevazione della differenza massima di età non
sarà adottato un solo bambino in più rispetto agli attuali ma:
- crescerà il numero delle domande e quindi il numero delle coppie illuse
ed escluse (aumentando peraltro inutilmente il carico di lavoro dei servizi
e dei tribunali);
- sarà più difficile l'adozione dei bambini più grandicelli, perché gli ultraquarantacinquenni
premeranno per avere un bambino piccolo.
A parità di requisiti affettivo-educativi, perché i bambini adottabili devono
avere dei genitori-nonni invece di genitori-giovani?
E' contrario all'interesse dei bambini adottabili e di quelli già adottati
prevedere l'accesso dei figli adottivi alla identità dei loro procreatori
(art. 23). È questo un vero colpo al cuore dell'adozione intesa come genitorialità
e filiazione vere.
Attraverso l'adozione, l'adottato diventa figlio legittimo degli adottanti
che diventano i suoi unici veri genitori: l'adozione dei minori in situazione
di abbandono morale e materiale può essere considerata una seconda nascita,
che non annulla la prima ma che non ne conserva alcun legame giuridico. Non
ha senso quindi che una legge dello Stato rimetta in discussione questi principi
andando a regolamentare le modalità di incontro dei figli adottivi con chi
li ha generati.
Recentemente anche il Pontefice Giovanni Paolo II, nel discorso pronunciato
il 5 settembre 2000 ai partecipanti all'incontro con le famiglie adottive
promosso dalle Missionarie della Carità ha riconosciuto il valore dell'adozione
quale espressione di genitorialità vera e completa sostenendo che "Adottare
dei bambini, sentendoli e trattandoli come veri figli, significa riconoscere
che il rapporto tra genitori e figli non si misura solo sui parametri genetici.
L'amore che genera è innanzitutto dono di sé. C'è una "generazione" che avviene
attraverso l'accoglienza, la premura, la dedizione. Il rapporto che ne scaturisce
è così intimo e duraturo, da non essere per nulla inferiore a quello fondato
sull'appartenenza biologica. Quando esso, come nell'adozione, è anche giuridicamente
tutelato, in una famiglia stabilmente legata dal vincolo matrimoniale, esso
assicura al bambino quel clima sereno e quell'affetto, insieme paterno e materno,
di cui egli ha bisogno per il suo pieno sviluppo umano. Proprio questo emerge
dalla vostra esperienza. La vostra scelta e il vostro impegno sono un invito
al coraggio e alla generosità per tutta la società, perché questo dono sia
sempre più stimato, favorito e anche legalmente sostenuto".
Grazie alle leggi n. 431/1967 e n. 184/1983 sono stati adottati oltre 90.000
bambini italiani e stranieri, alcuni di essi erano grandicelli o portatori
di handicap o malati: è questo un ottimo risultato che è stato ottenuto grazie
anche alla disponibilità di chi li ha accolti e cresciuti, facendo peraltro
risparmiare miliardi allo Stato.
Disciplinando a livello legislativo le modalità di accesso degli adottati
maggiorenni alla identità dei loro procreatori il Parlamento mortificherà
il ruolo dei genitori adottivi, trattati come "allevatori" e affermerà, nei
fatti, l'indissolubilità del legame di sangue, riconoscendo un ruolo positivo
alla ripresa di rapporti, fra adottati e procreatori, rapporti che, nella
realtà, hanno avuto conseguenze negative e spesso devastanti.
Il disegno di legge, inoltre
- non prevede limiti di tempo per il ricovero dei minori in istituto, pure
essendo ampiamente dimostrate le conseguenze negative della istituzionalizzazione,
né prevede controlli più incisivi sui minori ricoverati: i giudici tutelari
svolgono molto raramente le funzioni loro attribuite in merito! Invece prevede
che gli affidamenti consensuali non possano durare più di due anni.
- non tutela il minore nel procedimento di adottabilità: mentre è, giustamente,
prevista la nomina di un legale per i genitori, viene solo prevista la possibilità
(e non l'obbligo) per il Tribunale per i minorenni di nominare un tutore provvisorio
per il minore;
- non prevede l'estensione dei congedi obbligatori e facoltativi per tutti
i genitori adottivi e per gli affidatari, indipendentemente dall'età dei minori.
Riportiamo il testo di una lettera appello da inviare al Presidente della
Camera, on. Luciano Violante e alla Presidente della Commissione Giustizia,
Anna Finocchiaro (Camera dei deputati 00100 Roma).
Esprimiamo il nostro dissenso sul Disegno Legge 7487/2000 perché lesivo
dei diritti dei minori con gravi difficoltà familiari o abbandonati. Chiediamo
in particolare il mantenimento dell'articolo 6 della Legge 184/83 essendoci
già tante domande rispetto ai bambini italiani e stranieri adottabili e l'abrogazione
dei commi 4-5-6-7-8 dell'articolo 23 DL 7487 in quanto interferisce senza
motivo sull'autonomia delle famiglie adottive, svalorizza il ruolo formativo
degli adottanti; la conoscenza dei genitori di origine può provocare gravissimi
danni ai figli adottivi.
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