Appunti n.134
(indice Appunti)
- Dopo la riforma. La Programmazione locale nel sistema dei
servizi - Mauro Perino
- Comunità per disabili: modelli di riferimento - Giancarlo
Sanavio
- Handicap: dalla scuola al lavoro - Luisa Violato
- La situazione della salute mentale in Italia dalla prospettiva delle
associazioni dei familiari - Ernesto Muggia
- Quale consapevolezza etico politica per i volontari? - Augusto Cavadi
Dopo
la riforma. La Programmazione locale nel sistema dei servizi
Mauro Perino - Direttore Consorzio Intercomunale Servizi alla Persona (CISAP),
Collegno e Grugliasco (TO)
(indice)
Diritti, risorse e “livelli essenziali”. Il ruolo dei diversi soggetti,
gli strumenti di programmazione e la “messa in rete” di interventi e servizi
alla luce della legge 328/2000
Il welfare delle persone e delle famiglie
"Nella società di oggi, a differenza che nel passato, non si può più dividere
la popolazione tra una maggioranza di persone 'normali' ed una minoranza di
persone che versano in situazioni di difficoltà e che possono essere identificabili
in precise categorie. Oggi la vita delle persone è meno lineare e prevedibile.
Tutti i cittadini possono incontrare nel corso della vita alcune difficoltà,
che possono anche ripetersi, e che richiedono assistenza, orientamento, sostegno".
Così il Ministro per la Solidarietà sociale On.le Livia Turco sintetizza,
sulla rivista "Prospettive Sociali e Sanitarie (n. 20/22,
dicembre 2000), la lettura dei bisogni sociali nella società del
2000 che la legge quadro n. 328/2000 riprende integralmente dal decreto legislativo
n.112/1998, con il quale vengono conferite funzioni e compiti amministrativi
dello Stato alle regioni ed agli enti locali.
Credo si possa dire tranquillamente che è proprio con l'approvazione del decreto
che si è realizzata, nei fatti, gran parte della tanto attesa "riforma dell'assistenza".
Il Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n.112, al capo III, art. 128, definisce
i "servizi sociali" come il complesso delle attività relative
alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o
di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di
bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua
vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello
sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia.
I compiti di erogazione dei servizi, delle prestazioni sociali, nonché i compiti
di progettazione e di realizzazione della rete dei servizi sociali, sono attribuiti,
nell'ambito delle funzioni conferite, ai comuni ai sensi dell'art.131, comma
2, del citato decreto legislativo.
E' evidente la portata del cambiamento che viene a delinearsi a livello della
normativa generale:
- Ai "servizi sociali" - individuati come "sotto insieme" dei "servizi
alla persona e alla comunità" - viene affidata una diversa missione.
Devono operare per rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà
della persona umana in generale;
- Coerentemente con quanto affermato nel punto precedente si chiede ai "servizi
sociali" di predisporre ed erogare servizi, gratuiti ed a pagamento, e
prestazioni economiche attraverso servizi di rete progettati e realizzati
dai comuni.
- Ai comuni e agli altri enti locali - non più individuati come gestori esclusivi
- vengono attribuite le funzioni ed i compiti amministrativi concernenti i
servizi sociali relativi ai minori (inclusi quelli a rischio di attività criminose);
ai giovani (tutti); agli anziani (tutti); alla famiglia (in generale); ai
portatori di handicap, ai non vedenti e gli audiolesi; ai tossicodipendenti
e alcooldipendenti; agli invalidi civili. Sono inoltre trasferite alle regioni,
che provvedono al successivo conferimento agli enti locali, le funzioni ed
i compiti relativi alla promozione ed al coordinamento operativo dei
soggetti e delle strutture che agiscono nell'ambito dei servizi
sociali con particolare riguardo a cooperazione sociale, IPAB, volontariato.
La legge n.328/2000 di riforma dell'assistenza sociale: "Legge quadro per
la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali"
non poteva che collocarsi organicamente nel disegno tracciato, due anni prima,
dal D.Lgs. 112/98 .
L'articolo 1, primo comma, della legge afferma che "La Repubblica
assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di
interventi e servizi sociali (così come definiti dal D. Lgs.112/98); promuove
interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione
e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni
di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti
da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia,
in coerenza con gli articoli 2,3 e 38 della Costituzione".
Al terzo comma dell'articolo si afferma che la programmazione e l'organizzazione
del sistema compete agli enti locali, alle regioni ed allo Stato secondo principi
di sussidiarietà, cooperazione, efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità,
copertura finanziaria e patrimoniale, responsabilità ed unicità dell'amministrazione,
autonomia organizzativa e regolamentare degli enti locali.
Al quarto comma si prevede che gli enti locali riconoscano ed agevolino
il ruolo del "terzo settore" nella programmazione, nella organizzazione e
nella gestione del sistema integrato. Il concetto viene ulteriormente
rafforzato nel comma successivo ove si afferma che tali soggetti provvedono
alla gestione ed all'offerta dei servizi unitamente ai soggetti pubblici
e si precisa che il sistema integrato ha, tra gli scopi, anche la promozione
della solidarietà sociale, con la valorizzazione delle iniziative delle persone,
dei nuclei familiari, delle forme di auto-aiuto e di reciprocità della solidarietà
organizzata.
Infine il tema dei diritti sul quale - dopo l'approvazione del decreto legislativo
n.112/1998 - si era focalizzata l'attenzione di chi auspicava che la legge
di riforma definisse in modo puntuale il rapporto tra diritti esigibili
dai più deboli ed opportuntà offerte alla cittadinanza in generale.
Diritti proclamati e diritti esigibili
Secondo l'articolo 2, primo comma, della legge quadro hanno diritto
di usufruire delle prestazioni e dei servizi del sistema integrato i cittadini
italiani e, nel rispetto degli accordi internazionali e delle leggi regionali,
i cittadini dell'Unione europea e loro familiari nonché gli stranieri
individuati ai sensi della legge 286/98. Ai profughi, agli stranieri ed agli
apolidi sono garantite le misure di prima assistenza.
Il secondo comma dell'articolo rimarca il carattere di universalità del
sistema integrato che gli enti locali, le regioni e lo Stato sono tenuti a
realizzare garantendo i livelli essenziali di prestazioni e consentendo l'esercizio
del diritto soggettivo a beneficiare delle prestazioni economiche di cui all'articolo
24 della legge; delle pensioni sociali di cui all'articolo 26 della legge
153/69; degli assegni erogati ai sensi dell'articolo 3, comma 6, della legge
335/95.
Appare evidente il superamento di ogni "categoria di aventi diritto"
ove si afferma (al comma 3) che "I soggetti in condizioni di povertà o
con limitato reddito o con incapacità totale o parziale di provvedere alle
proprie esigenze per inabilità di ordine fisico e psichico, con difficoltà
di inserimento nella vita sociale attiva e nel mercato del lavoro, nonché
i soggetti sottoposti a provvedimenti dell'autorità giudiziaria che rendono
necessari interventi assistenziali, accedono prioritariamente
ai servizi e alle prestazioni erogati dal sistema integrato di interventi
e servizi sociali".
"Insomma,- ci dice il Ministro della Solidarietà sociale - tutti i
cittadini possono aver bisogno di aiuto in certi momenti della vita. E quindi
se l'obiettivo è la promozione del benessere e della coesione sociale, le
politiche sociali devono essere politiche di aiuto alla normalità della vita
delle persone e non solo politiche che aiutano le situazioni di crisi e di
disagio" (L. Turco, Prospettive Sociali e Sanitarie, n.20/22, dicembre
2000).
L'accesso al sistema è dunque assicurato a tutti con priorità "per
i soggetti tutelati dall'art. 38 della Costituzione" (L.Turco, Prospettive
Sociali e Sanitarie, n.20/22, dicembre 2000).
L'avvocato Franco Dalla Mura ha affermato - in occasione di un seminario
sulla nuova legge che si è svolto presso la "Bottega del possibile" a Torre
Pellice (To) - che la riforma introduce il diritto soggettivo al "sistema
integrato di interventi e servizi sociali". Ha poi aggiunto, se non ricordo
male, che chi nega questa importante novità si limita a far filosofia.
Avendo malauguratamente conseguito, a suo tempo, una laurea in filosofia faccio
prudentemente mio il principio di quel filosofo che affermava che "saggio
è colui che sa di non sapere". Mi limito pertanto a riportare una osservazione
sul tema in oggetto di Emanuele Ranci Ortigosa (Prospettive Sociali e sanitarie
n. 20/22, dicembre 2000) che afferma: "La dizione 'diritto soggettivo'
compare solo con riferimento a prestazioni economiche, per di più già previste
da leggi specifiche. Il diritto a beneficiare del sistema integrato di interventi
e servizi sociali quale definito nei livelli essenziali delle prestazioni
(art. 22, comma 2) è affermato in modo meno stringente e soprattutto è esplicitamente
subordinato alle risorse disponibili. Tale legame fra livelli essenziali e
risorse disponibili è riaffermato anche nell'art.18, c.3, lettere a) e n),
che disciplina il piano sociale".
Comunque la si pensi, appare evidente che il nodo critico rappresentato dalla
difficoltà a coniugare i diritti esigibili con le risorse disponibili
non viene sciolto in maniera definitiva dalla legge di riforma dell'assistenza.
Dire che tutti hanno diritto alle prestazioni - prioritariamente fornite ai
più deboli - sino al limite rappresentato dalle risorse finanziarie e patrimoniali
disponibili significa "mettere in conto" che con il ridursi delle
risorse si riduce, di fatto, l'esigibilità dei diritti proclamati.
Le risorse economiche ed il sistema dei finanziamenti
Ma vediamo come la riforma affronta il problema annoso delle risorse.
Nella legge finanziaria per l'anno 1998 (L. 449/97 art. 59) viene introdotto
il "Fondo nazionale per le politiche sociali". Nel fondo confluiscono, a decorrere
dal 1998, gli stanziamenti previsti per le leggi di settore (476/87; 216/91;
266/91; 104/92; 284/97; 285/97) e dal D.P.R 309/90. Il fondo si caratterizza
dunque, in origine, come sommatoria di finanziamenti già previsti. Le risorse
per tali interventi di settore ammontano nel 2000 a circa 1.700 miliardi.
Le risorse previste in aggiunta sono puttosto ridotte (28 miliardi per il
1998, 115 miliardi per il 1999; 143 miliardi per il 2000).
Con l'attuazione della legge quadro il "Fondo nazionale per le politiche sociali"
assume maggiore rilievo: ad alimentarlo per il triennio 2001-2003 contribuiscono,
oltre ai finanziamenti derivanti dalle leggi di settore, anche stanziamenti
aggiuntivi disposti dalla legge 388/2000 (finanziaria) e dalla stessa legge
quadro. Complessivamente le risorse ammontano a circa 8.700 miliardi nel triennio
(2.963 miliardi per il 2001; 3.084 miliardi per il 2002; 2.634 miliardi per
il 2003). Negli anni successivi sarà la legge finanziaria a stabilire annualmente
lo stanziamento per il fondo sulla base di criteri da definire con un regolamento
del governo (previsto dalla legge quadro).
La legge prevede di finanziare, attraverso il fondo, anche interventi specifici.
In particolare al "sostegno domiciliare per le persone anziane non autosufficienti"
viene annualmente riservata una quota di risorse vincolata (art.15). Inoltre
la legge prevede, all'art. 24, una delega al governo per il riordino - entro
180 giorni dall'entrata in vigore, - delle prestazioni monetarie erogate in
caso di invalidità civile, cecità e sordomutismo. Con il riordino anche le
risorse previste per tali prestazioni confluiranno nel fondo con specifica
finalizzazione. La legge di riforma prevede infine (art. 26) la possibilità
di ricorrere a fondi integrativi per le prestazioni sociali che soggetti
pubblici e privati possono istituire ed utilizzare per coprire i costi di
prestazioni aggiuntive rispetto ai livelli essenziali o quelli derivanti dalla
richiesta di contribuzione economica a carico degli utenti.
In ogni caso la ripartizione degli stanziamenti tra i vari settori va considerata,
almeno in fase di prima applicazione, come indicativa: le regioni sono di
fatto liberate da vincoli di destinazione fatto salvo l'impegno di prevedere
programmi in ogni area e di garantire che le risorse ripartite non si sovrappongano
a quelle già destinate dai singoli enti territoriali ("Sole 24 ore", 26.02.2001
n. 56).
Quello delle risorse è uno degli aspetti più dibattuti della legge. I fautori
della legge affermano che gli stanziamenti aggiuntivi rappresentano un incremento
tale da rendere possibile, congiuntamente allo sforzo di regioni ed enti locali,
l'introduzione di livelli essenziali di prestazioni sociali da garantire nell'intero
territorio nazionale.
I critici (vedi la rivista "Prospettive Assistenziali") giudicano le risorse
economiche destinate ai servizi sociali insufficienti a sostenere l'approccio
universalista della legge - in base al quale i servizi sociali sono rivolti
all'intera popolazione - paventando il rischio che si finisca per destinare
le risorse all'assistenza dei benestanti (che hanno più forza contrattuale)
a scapito della fascia più debole dei citadini. Infine si fa osservare la
mancanza di meccanismi e sanzioni per rendere i livelli essenziali dei diritti
effettivamente esigibili.
Personalmente ritengo condivisibile l'opinione, espressa da C. Gori e B. Da
Roit (Prospettive Sociali e sanitarie n. 20/22, dicembre 2000), secondo i
quali: "Nel complesso, sembra potersi affermare che le diverse leggi settoriali
degli ultimi anni e la recente riforma hanno determinato un notevole incremento
delle risorse destinate ai servizi sociali, da giudicare positivamente." Con
riferimento agli obiettivi che si intendono raggiungere con tali risorse si
rilevano però alcune aree di criticità a partire dall'approccio universalistico
dell'art. 2 della legge: "La sua traduzione operativa non è, infatti, specificata
con chiarezza e l'ammontare di risorse attualmente destinate ai servizi sociali
rende irrealistico il perseguimento di tale obiettivo. Similmente, la legge
non prevede gli strumenti per garantire effettivamente l'erogazione dei livelli
essenziali di prestazioni sul territorio nazionale. Non esistono, infatti,
meccanismi e sanzioni che rendano tali prestazioni effettivamente esigibili
da parte dei cittadini."
In ogni caso è opportuno rimarcare un aspetto - decisamente politico - della
questione: gli stanziamenti da parte del governo centrale potranno cambiare
a partire dal 2002 con la legge finanziaria. Spetta dunque in primo luogo
ai comuni titolari dei servizi sociali "mobilitarsi" per far sì che il settore
delle politiche socio-assistenziali esca effettivamente dal ruolo marginale
sin qui occupato nel welfare italiano.
I livelli essenziali ed uniformi
La legge indica, all'art. 22, comma 2, gli interventi che costituiscono
il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili secondo le
caratteristiche ed i requisiti fissati dalla pianificazione nazionale, regionale
e zonale, nei limiti delle risorse del fondo nazionale per le politiche
sociali, tenuto conto delle risorse già destinate dagli enti locali alla spesa
sociale.
I livelli essenziali sono sicuramente il contenuto più delicato della legge
e lo saranno ancor di più per il piano che dovrà indicare "caratteristiche
e requisiti delle prestazioni sociali" in essi comprese. A tale proposito
bisogna notare come la legge affermi che la definizione dei livelli essenziali
di cui all'art. 22 è effettuata contestualmente a quella delle risorse da
assegnare al Fondo nazionale per le politiche sociali, tenuto conto delle
risorse ordinarie destinate alla spesa sociale dalle regioni e dagli enti
locali, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite per l'intero
sistema di finanza pubblica dal Documento di programmazione economico finanziaria
(art. 20, comma 4).
La ricaduta sulla vita quotidiana del concetto di "livelli essenziali " (connesso
alle risorse messe in campo da diversi soggetti istituzionali) non è di poco
conto, infatti: "se i principi fissati dallo Stato non sono forti e ben
delineati - spiega il costituzionalista Claudio De Fiores - si rischia
una disparità di trattamento tra i cittadini, soprattutto nelle politiche
sociali".
Da questo punto di vista è preoccupante che la recente legge sul federalismo
modifichi l'articolo 117 della Costituzione stabilendo che, allo Stato, compete
la "determinazione dei livelli essenziali concernenti i diritti civili
e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale".
La riforma federalista si innesta infatti in una fase di oggettiva debolezza
della capacità di indirizzo del parlamento rispetto al potere acquisito dalle
regioni (elezione popolare del "governatore" sempre più interlocutore diretto
con il governo nazionale; statuti regionali sottoposti al vaglio del solo
esecutivo, in cui si è fortemente favorita l'autonomia finanziaria).
Può dunque accadere - come osserva Cosimo Rossi ("Federalismo senza parlamento",
"Il manifesto" 8.03.2001) - che il parlamento venga a trovarsi "in una
condizione di assoluta debolezza nella determinazione dei principi e dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. A maggior
ragione dal momento in cui viene costituzionalizzata l'idea di una prestazione
sociale 'minima' - per quanto questa formula, contenuta in una prima versione
della riforma, sia stata modificata - quando invece… anche la costituzione
federalista della Germania 'impone l'eguale trattamento dei cittadini, anche
sotto il profilo delle prestazioni sociali, in ogni parte del territorio della
Repubblica'".
Per tornare al tema, la legge di riforma ci fornisce, per ora, un elenco di
interventi rinviando al piano ed al regolamento del governo per la ripartizione
delle risorse finanziarie nel fondo l'effettiva definizione dei livelli
essenziali. Alle regioni viene però richiesto di prevedere comunque,
con proprie leggi, l'erogazione delle seguenti prestazioni:
o servizio sociale professionale e segretariato sociale per informazione e
consulenza al singolo e ai nuclei familiari;
o servizio di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali
e familiari;
o assistenza domiciliare,
o strutture residenziali e semi residenziali per soggetti con fragilità sociali
o centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario.
Credo si possa convenire con E. Ranci Ortigosa (Prospettive Sociali e sanitarie
n.20/22, dicembre 2000) che si deve sostanzialmente puntare, nel medio e lungo
periodo, "… sull'effetto traente, politico e sociale, che la definizione
di livelli essenziali, con contenuti realistici ma via via più esigenti e
qualificati, può esercitare sui diversi attori, offrendo anche riferimenti
concreti al confronto politico e all'azione sociale, sia rivendicativa che
di advocacy".
Proprio con riferimento al richiamo ai "contenuti realistici dei livelli
essenziali" ed alla necessità di offrire "riferimenti concreti al confronto
politico" credo sia opportuno, in questa prima fase di applicazione della
legge di riforma, che le regioni e gli enti titolari delle funzioni assumano
la "tutela del diritto all'assistenza sociale" quale obiettivo politicamente
prioritario (ed irrinunciabile) del sistema locale dei servizi sociali affermando,
in tal modo, la centralità dei soggetti più deboli.
La legge di riforma dell'assistenza e dei servizi sociali prevede, come si
è visto, che i "i soggetti tutelati dall'art. 38 della Costituzione" accedano
prioritariamente "ai servizi e alle prestazioni erogate dal sistema integrato
di interventi e servizi sociali".
Un primo punto fermo va dunque posto con l'individuazione del target
di situazioni alle quali va assicurato l'accesso prioritario al complesso
di interventi indicati dall'art. 22 della legge n. 328/2000.
Al fine di evitare divaricazioni tra diritti proclamati e diritti effettivamente
esigibili è dunque necessario procedere - da subito - alla puntuale definizione
delle condizioni di difficoltà che richiedono interventi assistenziali
garantiti e livelli di servizi atti a tutelare efficacemente le posizioni
soggettive ed a rendere esigibili i diritti soggettivi riconosciuti. Tali
condizioni possono venir individuate, a mio parere, come segue:
- I minori in tutto o in parte privi delle indispensabili cure familiari,
siano essi nati nel o fuori del matrimonio;
- I disabili intellettivi totalmente o gravemente privi di autonomia
e senza alcun valido sostegno familiare;
- I soggetti colpiti da altri handicap, anche plurimi, che necessitano
di aiuti specifici per poter acquistare la massima autonomia possibile nel
rispetto del diritto all'autodeterminazione;
- Gli anziani che non sono in grado di provvedere alle proprie esigenze
di vita;
- Le gestanti e madri in grave difficoltà personale alle quali va altresì
fornita la necessaria consulenza psico sociale per il loro reinserimento e
per il responsabile riconoscimento o non riconoscimento dei loro nati;
- Le persone che vogliono uscire dalla schiavitù della prostituzione;
- I soggetti senza fissa dimora;
- Gli altri individui che necessitano di prestazioni specifiche se
si vuole evitare la loro emarginazione.
Le persone rientranti nelle sopra elencate condizioni devono poter accedere
prioritariamente ai servizi ed alle prestazioni di cui all'art. 22 della L.
328/2000 e ad esse devono essere assicurate, in ogni caso, le prestazioni
di servizio sociale professionale e segretariato sociale; di pronto intervento
sociale per le situazioni di emergenza, l'assistenza domiciliare; l'accesso
alle strutture residenziali e semi residenziali ed ai centri di accoglienza
residenziali o diurni.
Con riferimento al rapporto tra reale esigibilità - delle prestazioni e dei
servizi offerti dal sistema integrato - e risorse è infine indispensabile
che si provveda - in sede di programmazione regionale e locale - alla puntuale
definizione delle risorse finanziarie, umane e patrimoniali specificamente
destinate ai servizi da fornire alle persone che, per condizione
di difficoltà, rientrano nell'area dell'"accesso prioritario".
Il ruolo dei soggetti
E' da tempo evidente - proprio con riferimento alle situazioni di difficoltà
evidenziate - che i servizi socio assistenziali (oggi "sociali") hanno pochissimi
strumenti per svolgere azioni dirette ad eliminare le cause che provocano
le richieste di intervento. Ne consegue che la prevenzione del bisogno non
può, con riferimento a tali situazioni, essere una funzione primaria del settore
dei servizi di assistenza sociale, ma che su di esse possono molto più efficacemente
intervenire i settori del lavoro, della formazione professionale, delle pensioni,
della sanità, dei trasporti ecc.
I servizi sociali svolgono, tuttavia, l'importantissimo compito di individuare
non solo gli effetti dell'esclusione ma anche le cause e possono,
conseguentemente, operare in senso promozionale nei confronti degli
altri settori coinvolti nelle politiche sociali (specie locali) al
fine di introdurre i cambiamenti occorrenti per la riduzione o l'eliminazione
dei fattori che generano difficoltà e disagio sociale.
Per "rimuovere e superare le condizioni di bisogno e di difficoltà che
la persona umana incontra nel corso della sua vita" è assolutamente necessario
che le prestazioni assistenziali (o, più modernamente, di servizio sociale)
siano fornite in modo da assicurare la massima autonomia dei soggetti e, nello
stesso tempo, da promuovere il corretto utilizzo delle risorse rese
disponibili dal sistema delle politiche sociali nel suo complesso (casa,
scuola, sanità, previdenza ecc.).
I servizi sociali di cui alla legge 328/2000 si configurano dunque, a mio
parere, come uno dei molteplici "servizi alla persona e alla
comunità" - indicati al Titolo IV del decreto legislativo 112/1998 - chiamati
ad espletare le funzioni che principalmente caratterizzano le politiche
sociali attuate a livello locale ("tutela della salute", "istruzione scolastica",
"formazione professionale", "beni ed attività culturali, "spettacolo" e "sport").
In merito ai "servizi alla persona e alle famiglie" la legge quadro
328/2000 mentre all'articolo 3, comma 2, afferma il carattere universalistico
del sistema, all'articolo 22, comma 1, precisa che lo stesso "si realizza
mediante politiche e prestazioni coordinate nei diversi settori della vita
sociale, integrando i servizi alla persona e al nucleo familiare con eventuali
misure economiche, e la definizione di percorsi attivi volti ad ottimizzare
l'efficacia delle risorse, impedire sovrapposizioni di competenze e settorializzazione
delle risposte".
Il contesto operativo nel quale si situano i servizi sociali è dunque quello
definito dalle "politiche e prestazioni coordinate nei diversi settori
della vita sociale" che solo i comuni possono promuovere e sviluppare
appieno nella comunità locale (che istituzionalmente rappresentano), evitando
"sovrapposizioni di competenze" e "settorializzazione delle risposte"
grazie ad una corretta pratica della "strategia delle connessioni".
Nella definizione dell'ambito d'azione degli "Enti gestori delle funzioni
socio-assistenziali" (oggi di servizio sociale) è dunque opportuno tener
conto delle considerazioni sin qui formulate e, conseguentemente, ritengo
che gli assi principali di intervento dei servizi sociali possano essere -
alla luce dell'art. 1, comma 1, della legge di riforma - , nell'ordine, così
individuati:
1) Assicurare "alle persone e alle famiglie un sistema integrato
di interventi e servizi sociali" nel rispetto dell'obbligo di consentire
l'accesso prioritario ai soggetti rientranti nelle condizioni previste
dall'art.2, c.3, della legge quadro.
2) L'esercizio di tale funzione di tutela del diritto all'assistenza,
sancito dall'art. 38 della Costituzione, comporta, in primo luogo, l'assunzione
di compiti di promozione degli interventi per garantire
la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti
di cittadinanza nell'ambito della comunità locale. E' dunque necessario
che si operi per la realizzazione di programmi intersettoriali ed integrati
finalizzati a far sì che i servizi fondamentali della sanità, dell'istruzione,
dei trasporti, della casa ecc., rivolti all'insieme della cittadinanza, siano
organizzati in modo da rispondere al meglio anche alle esigenze delle
fasce più deboli della popolazione (spesso escluse dai contesti di normalità
e verso i quali vanno accompagnate).
3) L'attività di promozione ("tecnica" da parte dei servizi e "politica" da
parte della amministrazioni locali) - che con la nuova legge assume una dimensione
strategica anche a causa della controversa questione dell'effettivo grado
di esigibilità di livelli adeguati di prestazioni e servizi - è connessa allo
sviluppo della concertazione, in ambito locale, per favorire il riordino
ed il potenziamento del sistema integrato di interventi e servizi sociali.
La legge di riforma individua infatti nel "Piano di zona" - di norma
adottato attraverso accordo di programma tra i comuni, le ASL, le ONLUS, gli
organismi locali della cooperazione, delle associazioni, degli enti di promozione
sociale ecc. - lo strumento per la realizzazione di programmi cordinati e
per la gestione integrata degli interventi sociali e sanitari anche con il
concorso delle risorse locali di solidarietà e di auto aiuto.
4) L'attività di concertazione in sede di programmazione - da sviluppare a
livello orizzontale, nell'ambito della comunità locale, ma anche "verticale"
nei confronti di provincia e regione - comporta l'adozione di una strategia
di connessione, degli interventi realizzati dai soggetti che
operano nel sistema delle politiche sociali, per favorire il continuum agio/disagio,
combinando la logica di protezione con quella di promozione, ricercando un
corretto equilibrio tra interventi di sostegno alle situazioni di disagio
ed interventi, più complessivi, di promozione del benessere.
5) Infine la gestione (diretta o indiretta nelle forme previste
dalla normativa) di quel complesso di attività che sino alla approvazione
della legge 328/2000 definivamo (senza troppi complessi di inferiorità) socio-assistenziali.
A fronte di una legge che si pone l'obiettivo generale di promuovere politiche
di aiuto alla normalità della vita delle persone va infatti ribadita - senza
temere ingiuste accuse di "conservatorismo compassionevole" o di promuovere
"sussidiarietà residuale" - la specificità dei servizi di assistenza
sociale che occupano un ben definito campo d'azione nell'ambito del sistema
locale dei "servizi alla persona e alla comunità" chiamati ad operare
per "rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che
la persona umana incontra nel corso della sua vita".
Risulta chiaro, dall'impostazione complessiva della legge n. 328/2000, che
il concetto di difficoltà assume una valenza più vasta rispetto
ai concetti di disagio ed emarginazione normalmente utilizzati
per definire lo specifico dell'attività assistenziale. Del resto è ampiamente
condivisibile la considerazione che la nostra vita quotidiana è caratterizzata
dal fatto che "le emergenze, intese come cambiamenti nel ciclo della vita
delle persone, non sono affatto eccezionali, le situazioni a rischio sono
diffuse su tutti i cittadini" e che "le crisi vengono superate con
una fatica sopportabile quando il soggetto possiede alcuni salvavita: reti
familiari in grado di fornire affetto e autostima, una riserva di denaro o
persone a cui chiedere un prestito amicale, la casa in proprietà o una persona
disposta a dare alloggio temporaneo. Chi può accedere a tutti questi dispositivi
difficilmente cade in povertà e spesso basta un solo dispositivo per risalire
la china. Le reti familiari sono la riserva di aiuto determinante." (Paola
Toniolo Piva, Animazione Sociale, n.12/2000).
Occorre dunque attivare e potenziare specifici e sistematici interventi di
servizio sociale finalizzati a promuovere politiche di ampio spettro
(mirate al sostegno delle reti primarie) rivolte a tutti i cittadini, continuando,
nel contempo, a concentrare particolare attenzione sulle situazioni più esposte
(solitamente non in grado di auto promuoversi) alle quali vanno assicurati
i servizi assistenziali necessari.
Fra gli interventi di sostegno hanno particolare importanza quelli volti ad
alleviare il lavoro di cura svolto in modo gratuito da familiari, vicini,
volontari. Il sistema famiglia si provvede infatti degli aiuti necessari sia
dall'economia informale che dall'economia di mercato. La scelta (sempre più
spesso indotta dai sistemi di vita attuali) di sostituire in misura maggiore
o minore i servizi autoprodotti con servizi acquistati dipende, in ogni caso,
da cosa offre il territorio.
Da questo punto di vista l'estensione delle esperienze innovative in materia
di servizi alla persona secondo le direttrici indicate dalla legge di riforma,
consentirebbe di affrontare, in modo più "globale", il tema del lavoro
di cura come settore economico che offre reali possibilità di occupazione
a condizione che l'ente locale sappia promuovere un "mercato amministrato"
dei servizi, garantendo varietà di offerta, standard di qualità accettabili,
prezzi amministrati ed agevolazioni a tutti i cittadini in difficoltà e prioritariamente
a quelli appartenenti alle fasce socialmente deboli.
Con riferimento a questo tema, ritengo che i Comuni - supportati dai soggetti
gestori dei servizi sociali - possano svolgere un ruolo importante nel "coordinamento
del segmento di servizi acquistati con denaro pubblico e del segmento di servizi
acquistati direttamente dai cittadini" (Paola Toniolo Piva, Animazione
Sociale, n.12/2000).
Strumenti di programmazione e Piano di zona
La produzione legislativa degli ultimi anni ha messo in moto una serie
di importanti innovazioni: la centralità del comune e della comunità locale;
il cittadino al centro del sistema dei servizi; un ruolo crescente per cooperative
sociali, volontariato, ONLUS, associazioni di pubblica utilità; un nuovo ruolo
per le fondazioni bancarie; l'affermarsi del principio della sussidiarietà
verticale dei servizi. Più in generale sono state poste le premesse per un
passaggio dal welfare state al welfare community secondo il
principio della stretta correlazione tra risorse e servizi.
Alla necessità di dare puntuale risposta a vecchi e nuovi bisogni si accompagna,
infatti, la limitatezza delle risorse disponibili e la conseguente necessità
di far sì che la comunità locale sia coinvolta appieno nel community care,
che si attrezzi cioè a "prendersi cura" di se stessa.
Nella fase di transizione al welfare plurale viene richiesto, a tutti
i soggetti tenuti a fornire servizi alla comunità locale - e conseguentemente
anche ai soggetti gestori dei servizi di assistenza sociale - di operare in
coerenza con il principio della stretta correlazione tra risorse e servizi.
Assume dunque importanza strategica la funzione di programmazione svolta
a livello locale e, in particolare, l'art. 19 della nuova legge chiama in
causa i comuni associati che a tutela dei diritti della popolazione,
d'intesa con aziende unità sanitarie locali, provvedono, nell'ambito
delle risorse disponibili, per gli interventi sociali e socio-sanitari,
secondo le indicazioni del piano regionale, a definire il "piano di zona".
Il piano - individuato come strumento strategico dei comuni associati per
il governo locale dei servizi - è finalizzato a programmare la rete di interventi
e servizi che devono dare risposta alle problematiche espresse dalle comunità
locali. Al "piano di zona" si richiede di individuare i bisogni prioritari
delle persone; le strategie di prevenzione; le risorse a disposizione; i soggetti
(istituzionali e non) coinvolti; i risultati attesi; gli standard operativi
e di efficacia; le responsabilità di governo e di gestione, le forme di controllo;
le modalità di verifica ed i criteri di valutazione degli interventi.
Non mi dilungo sul "piano di zona" se non per rimarcare l'elemento di novità
introdotto dall'articolo 19 della legge che - modificando implicitamente l'art.
34 del D.Lgs. 267/2000: "Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali" - introduce la possibilità di stipulare "accordi di programma" con
soggetti privati.
Inoltre ritengo assolutamente condivisibile la considerazione formulata da
Franco Dalla Mura (Seminario della "Bottega del possibile" su "La nuova legge
328/2000" - Torre Pellice (To) 24.03.2001) secondo il quale il testo dell'accordo
sul "Piano di zona" è il documento che sancisce di fatto (ben più della "Carta
dei servizi sociali" di cui all'art.13 della L.n.328/2000) il livello di
esigibilità dei diritti dei cittadini agli interventi sociali
e socio-sanitari erogati in ambito locale.
Le conseguenze operative più evidenti derivanti da questa lettura dell'art.
19 della legge sono almeno due:
1) aumenta il numero dei soggetti che hanno titolo ad intervenire al tavolo
della programmazione finalizzata alla definizione della rete degli interventi
sociali e socio-sanitari. L'intervento pubblico - demandato alle molteplici
istituzioni che hanno competenze rispetto alle problematiche espresse a livello
zonale - si intreccia infatti con l'operatività dei differenti gruppi "privati"
che intervengono sui bisogni e sulla domanda sociale di una determinata comunità
locale. "L'accordo di programma in questo contesto diventa il momento di sintesi
giuridica delle scelte condivise e le rende operanti sul territorio" (U. De
Ambrogio, M. Lo Schiavo in "Prospettive Sociali e sanitarie n.20/22 dicembre
2000);
2) la centralità che il Piano viene ad assumere - in termini di effettiva
possibilità di esercizio del diritto "alle prestazioni ed ai servizi sociali
del sistema integrato" da parte dei cittadini a livello locale - costituisce
una grossa sfida per le pubbliche amministrazioni chiamate a progettare con
un'ottica incrementale, strategica e flessibile di fronte alla complessità.
Ai comuni (ed agli enti strumentali che gestiscono le funzioni di servizio
sociale) è richiesta non solo una rilevante capacità di indirizzo e di orientamento
ma anche di costruzione del consenso nei confronti dei diversi attori che
operano nel sistema locale.
Mettere in rete interventi e servizi
Come insegnano le recenti esperienze dei "Patti territoriali" per lo sviluppo
economico ed occupazionale locale ed i "tavoli" per la realizzazione - mediante
definizione di accordi di programma - dei piani di intervento previsti dalla
legge 285/1997 non è facile costruire quello strumento fondamentale di programmazione
locale che Franco Vernò chiama il "Piano regolatore dei servizi".
Eppure - se si condivide il concetto che proprio nella comunità locale si
esprimono, accanto ad una pluralità di bisogni, anche molteplici risorse umane,
progettuali e finanziarie per la predisposizione delle risposte - appare necessaria
la creazione di reti che favoriscano l'azione coordinata e regolata
di una pluralità di attori, di sistemi in grado di far interagire le
risorse locali e regionali di tipo economico, sociale e culturale con le opportunità
offerte in sede nazionale ed europea.
Fare sistema, partnership, rete negli ambiti territoriali non è però, di per
sé, garanzia di sviluppo regolato e sostenibile, di coesione sociale e promozione
delle opportunità. E' necessario che i comuni operino con intenzionalità
politica (ed i servizi sociali con intenzionalità tecnico professionale)
attraverso l'adozione di una metodologia di concertazione locale che
consenta di negoziare e di attivare un sistema di regole e convenienze
per tutti i soggetti in gioco, puntando alla realizzazione di ogni possibile
sinergia.
Il compito richiesto alle Amministrazioni ed ai servizi è di produrre, a livello
locale, legami e relazioni che promuovano processi di identificazione
e contrastino la dissoluzione delle appartenenze tradizionali. Politiche di
comunità, dunque, che attraverso la partecipazione favoriscano il "sentirsi
parte di un insieme", di una società civile con regole comuni, da tutti
rispettate e condivise, atte a consentire una vita quotidiana più controllabile
e gestibile.
Nelle relazioni di comunità è infatti la fiducia l'elemento cardine
per costruire reti di umanità che consentano il passaggio dalle solidarietà
corte alle solidarietà lunghe. La fiducia è il bene relazionale
che pone il sociale e le sue risposte alla portata delle persone e costituisce
un orizzonte di senso per percorsi di vita significativi (Sergio Dugone, "Dallo
stato assistenziale alla comunità solidale" in "Politiche sociali" n.6/99).
Al comune in quanto governo locale spetta il compito di indicare, alla propria
comunità, la missione da compiere, promuovendo azioni globali
di sviluppo dell'impegno civile ed allargando a nuove forme di partecipazione
i tradizionali processi di consultazione, informazione e gestione. Ciò richiede
la capacità di produrre progetti di miglioramento della "qualità del vivere
quotidiano" sui temi della forma della città, dell'uso del territorio; della
difesa dai rischi e dal degrado; dei servizi formativi ed educativi; della
sicurezza di vita in generale.
Ai comuni è richiesto, in sintesi, di trasformare le politiche di settore
in politiche di comunità ed ai soggetti gestori, in quanto strutture specializzate,
di operare all'interno di tale orizzonte promuovendo e realizzando servizi
sociali di comunità, community care, lavoro di rete, progetti contro il disagio
e l'esclusione.
Una operatività, quella della strutture di gestione dei servizi sociali, che
deve evitare il rischio derivante dall'aziendalizzazione della risposta
sociale - che pone al centro l'organizzazione e non i destinatari; che
standardizza le risposte invece di personalizzarle, che fa perdere la cultura
dell'accoglienza e dell'ascolto - e fondarsi su alcuni principi fondamentali:
1) i servizi di assistenza sociale hanno al centro le persone, e fra queste
in primo luogo quelle con maggiori difficoltà;
2) la risposta ai bisogni è "personale";
3) l'intervento sociale è rispettoso e dialogante, cerca le risorse da mobilitare
e non i "mali" da curare;
4) la funzione pubblica nei servizi alle persone in difficoltà si concretizza
nella promozione, nel controllo, nella garanzia della risposta, salva ogni
forma di autogestione da parte della società;
5) il coinvolgimento della comunità locale è garanzia della non estraneità
ambientale della risposta;
6) non si possono affidare al mercato e quindi alla logica "del più forte"
le categorie deboli.
Vorrei concludere tornando al tema iniziale dei diritti. Una funzione fondamentale
dello Stato sociale è di agire come regolatore nel rapporto tra diritti
sociali e doveri di solidarietà (che l'art. 2 della Costituzione
definisce inderogabili). Il nuovo quadro normativo fa coincidere con
l'ambito regionale e con quello locale, amministrato dai comuni, un'ampia
parte della politica sociale volta alla tutela di tali diritti. Lo Stato,
come si è visto, riserva a sé solamente la "determinazione dei livelli
essenziali concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti
su tutto il territorio nazionale".
Le leggi più recenti assumono inequivocabilmente la scelta della sussidiarietà.
E' dunque il comune che viene direttamente chiamato a promuovere l'adozione,
da parte delle regioni, degli "strumenti e procedure di raccordo e di concertazione,
anche permanenti, per dare luogo a forme di cooperazione"
previsti dall'art.8, comma 2, della legge 328/2000. Ed è sempre il comune
che ha il compito di regolamentare, nell'ambito della comunità locale, il
rapporto tra diritti e doveri.
A tal fine è indispensabile che la comunità amministrata trovi una sua identità
forte, sia coesa e solidale e tutti i suoi membri concorrano a produrre le
risorse necessarie ad assicurare, a livello locale, la necessaria giustizia
sociale.
Lo sviluppo di un'etica della responsabilità è condizione necessaria
perché i diritti siano esigibili per tutti ma ognuno fruisca di ciò che
è disponibile tenendo conto dei suoi reali bisogni e delle sue personali risorse.
In buona sostanza: non si inventano i bisogni né si nascondono le risorse
proprie per appropriarsi di quelle pubbliche.
La legge di riforma delinea un "Welfare di comunità" plurale, con poteri
e responsabilità condivise. La comunità ha, in genere, molte risorse che non
vengono raccolte e valorizzate, ma a volte addirittura avvilite da interventi
che tendono ad accrescere la dipendenza dai servizi.
Bisogna favorire la crescita della comunità locale aiutandola a riconoscere
e selezionare le proprie necessità e bisogni, stimolando la partecipazione
e facendo crescere le risorse locali e la "responsabilizzazione dei cittadini
nella programmazione e verifica dei servizi". Bisogna rivitalizzare ed
incoraggiare la responsabilità delle persone singole o aggregate affinché
queste si possano esprimere autonomamente, nella convinzione che quello che
accade è responsabilità di tutti.
L'applicazione della legge di riforma richiede un sistema di governo allargato,
nel quale accanto alla promozione ed alla regolazione pubblica convive la
co-progettazione che coinvolge soggetti pubblici, privati e del privato sociale
con un esercizio di responsabilità comuni. La qualità dei servizi alle
persone e alle famiglie non può infatti compiutamente realizzarsi se non si
coniugano i saperi professionali con i saperi sociali promuovendo una
"cittadinanza attiva e competente".
Ma attenzione! Il coerente perseguimento della finalità di costruire una
"cittadinanza attiva e competente" comporta l'accettazione del rischio
di una sfida alle regole consolidate della partecipazione locale; implica,
nei fatti, l'avvio di una prassi di democrazia "diffusa", "dal basso", esercitata
al di fuori dei "luoghi deputati, "diretta" si sarebbe detto una volta. Il
"cittadino competente", il "cittadino attivo" - se fanno davvero il loro nuovo
mestiere nell'ambito della comunità locale - possono entrare in conflitto
con le amministrazioni ed i servizi locali.
Non so dire se e quanto gli amministratori locali siano convinti e pronti
ad assolvere ai compiti che il nuovo scenario impone. Da operatore posso offrire
una riflessione su cosa dovrebbero fare i servizi.
Alla fine degli anni '70 (ed ancora nei primissimi anni '80) era facile incontrare
operatori sociali e sanitari che agivano ispirati dalla convinzione che, nel
campo dell'assistenza e della salute, la politica (intesa come dovere
di ogni cittadino ad occuparsi della cosa pubblica) e la tecnica (intesa
come complesso dei saperi professionali) erano in egual modo importanti. Purtroppo
però con la sola tecnica (per quanto buona) risultava impossibile
risolvere per davvero i problemi, che venivano solamente controllati
e contenuti.
Di questi operatori oggi si direbbe che facevano politica. In
realtà erano semplicemente convinti che l'agire per il cambiamento
fosse parte integrante del proprio compito tecnico. Pensavano cioè
all'utente in primo luogo come ad una persona con dei diritti (e relativi
doveri) e poi come ad un soggetto portatore di bisogni, più o meno complessi,
da "decodificare". Ritenevano, in buona sostanza, che non è dato operare efficacemente
per impostare percorsi di uscita dalle condizioni personali di disagio ed
emarginazione se non si interviene, nel contempo, in senso promozionale sul
contesto di vita e di relazione al fine di rimuovere le cause
dei problemi adeguando il sistema.
Credo che, nella fase attuale, si debba opportunamente recuperare la "filosofia
della prassi" di quegli anni caratterizzati (non a caso) dall'approvazione
di fondamentali leggi di riforma. Non sarà sicuramente facile anche perché,
a ben vedere, il contributo che "la base" dei servizi ha dato, in questi anni,
alla costruzione del nuovo quadro normativo non è certo paragonabile a quello
fornito dagli operatori (e dalle loro organizzazioni sindacali) negli anni
precedenti ed immediatamente successivi alla approvazione del DPR 616/1977
e della L. 833/1978.
Con linguaggio sportivo potremmo dire che si tratta di gareggiare sulle lunghe
distanze, ritrovando non solo il fiato ma anche lo spirito del fondista. Oppure,
parafrasando Gramsci, che nei prossimi anni dovremo opporre al "pessimismo
della ragione, l'ottimismo della volontà".
Comunità per disabili: modelli
di riferimento
Giancarlo Sanavio - Cooperativa sociale, “L’Iride”, Selvazzano, Padova
(indice)
Si ripercorrono alcuni momenti storici degli ultimi cinquant’anni relativi
alla cultura residenziale dell’area dell’handicap per dimostrare che la carenza
di dibattito ha fermato le problematiche al “Dopo di Noi” mentre i bisogni
e le esigenze manifestate dai disabili e dalle loro famiglie si sono evolute
e necessitano di risposte nuove e innovative.
Dall'Istituto alla Comunità
Il primo modello che vorrei descrivere è quello così detto della deistituzionalizzazione
che ha dato avvio ad un processo di presa in carico e di sensibilizzazione
dell'opinione pubblica rispetto alla non vita negli istituti dove erano (e
in molti casi ancora lo sono) centinaia di persone con problematiche diverse.
Possiamo far risalire questo periodo storico tra gli anni '70 e '90. Il modello
di riferimento è quello dell'istituto che si caratterizza per:
· l'entrata coatta, la persona non è considerata nella scelta della propria
vita, altri decidono al suo posto per il suo bene;
· la depersonalizzazione, ognuno deve adattarsi ai ritmi di vita dell'istituto,
i suoi bisogni sono secondari alle regole, agli orari, alle esigenze organizzative,
derivandone l'impotenza acquisita;
· l'organizzazione dell'istituto è piramidale, la volontà è esterna al gruppo
sia di operatori che di ospiti che si adeguano a regole stabilite da altri
per il bene della struttura e dell'organizzazione, i giorni sono tutti uguali,
non c'è futuro;
· i costi di struttura sono alti, mentre quelli assistenziali sono bassi,
i rapporti operatori utenti possono permettere la custodia, l'assistenza primaria
non certo aspetti educativi o di sviluppo della personalità degli ospiti,
manca una programmazione individualizzata.
Il secondo modello è quello che si prefiggono le prime comunità che inizialmente
si pongono come alternativa all'istituto, tralasciando tutto l'aspetto ideologico
post anni sessanta, queste comunità si caratterizzano:
· per il piccolo gruppo, solitamente 6 - 8 persone,
· l'organizzazione basata sul modello della famiglia, con figure di riferimento
dove l'organizzazione stessa, accogliente ed attenta ai singoli bisogni, assume
un ruolo terapeutico ed educativo,
· le dinamiche interne del piccolo gruppo sono caratterizzate da forti relazioni
interpersonali, da vita di gruppo, da decisioni prese assieme magari dopo
lunghe riunioni, la persona è protagonista, elabora un suo futuro,
· i costi di gestione e di struttura sono bassi, aumentano quelli relativi
al personale e conseguentemente i rapporti operatori utenti sono tendenti
all'uno a uno (nelle ventiquattro ore) permettendo l'elaborazione di aspetti
educativi e la centralità della persona;
· la comunità si inserisce in una rete di servizi, non è risposta esclusiva,
le persone disabili frequentano durante la giornata altri servizi o sviluppano
loro interessi;
· la comunità diventa la casa delle persone che scelgono di abitarvi, diventa
piano piano una scelta di vita.
Analizzando questi due modelli, anche se in modo frettoloso e superficiale,
non possiamo evidenziare l'assenza totale della famiglia, nel primo caso perché
alternativa all'istituto, nel secondo perché spesso è una risposta al "Dopo
di Noi", l'intervento è centrato sul disabile, sui suoi bisogni, spesso la
famiglia è estromessa perché ritenuta non capace di gestire il famigliare
disabile o peggio, in alcune situazioni addirittura patologica, fonte essa
stessa di disaggio.
Se ci soffermiamo sui dati numerici relativi al secondo modello e li leggiamo
in considerazione degli obiettivi dichiarati (alternativa all'istituto) possiamo
tranquillamente parlare di fallimento: l'esperienza veneta che conosco meglio
parla di 100 posti attivati rispetto ai 2500 potenziali (=0.04%), dato pressoché
insignificante. Se i dati li leggiamo dal punto di vista culturale e qualitativo,
assumono invece un grande significato: dimostrano la possibilità di una alternativa,
pongono e indicano la soluzione del Dopo di Noi.
La svolta degli anni '90
Io considero gli inizi degli anni '90 come una svolta storica, almeno
concettuale, dei servizi all'handicap dove sono stati espressi bisogni diversi:
· fino agli anni '60-'70 l'inserimento in istituto era consigliato, quasi
obbligato, certo culturalmente approvato;
· la scelta coraggiosa delle famiglie di gestirsi a casa il figlio disabile,
ha portato una serie di conversioni culturali: l'integrazione scolastica,
la riabilitazione funzionale territoriale, i centri educativi occupazionali
diurni, i centri flessibili e/o prolungati, l'assistenza domiciliare, i progetti
di domiciliarità e di vita indipendente, che hanno iniziato a mettere al Centro
non il disabile ma la sua famiglia e conseguentemente le comunità residenziali
non centrate sul "Dopo di Noi", ma sul "Durante Noi".
Si è cominciato a capire l'importanza della famiglia, delle sue fatiche, delle
sue elaborazioni culturali, del bisogno di essere supportata e qualche volta
sollevata. La traduzione di questi aspetti nell'organizzazione dei servizi
residenziali porta alla conseguenza non più di una Comunità Alloggio rispondente
a quando la famiglia non c'è più o non ce la fa più e quindi sparisce o espelle
la persona disabile, spesso contrapponendosi ai servizi nell'ultimo grido
di aiuto, ma una Comunità Alloggio per la famiglia che dia delle prospettive
e sicurezze per il futuro, che possa essere fruita da subito con l'attivazione
dei servizi di pronta Accoglienza o di Comunità Programmata nei quali la famiglia
assume un ruolo, è presente, co-progetta, lavora sulla sua resilienza, controlla
la qualità del servizio, elabora le sue ansie sul dopo di noi, si fida.
Questa nuova prospettiva, di conseguenza, porta a pensare ad un'organizzazione
del servizio residenziale diversa, completamente differente dal modello istituzionale,
non in alternativa alla famiglia, ai centri diurni, ma un nuovo punto e nodo
della Rete dei Servizi.
La fatica e lo sforzo fatto da alcuni servizi che hanno imboccato questa strada
sta a dimostrare che è possibile mettere al centro la famiglia che ha al suo
interno una persona disabile che richiede un grosso carico assistenziale e
che ha la volontà di accudirlo con le sue forze, di non istituzionalizzarlo,
di amarlo per quello che è. Una famiglia che deve essere aiutata, sostenuta,
avere punti precisi di riferimento; in questa prospettiva assume, a mio avviso,
un ruolo importante l'associazionismo familiare, i gruppi di auto mutuo aiuto
che devono essere ben distinti dalla gestione dei servizi, devono crescere
insieme ma distinguendo i ruoli.
Credo, nella mia esperienza, che si possano raggiungere buoni risultati quando
vengono distinti nettamente: la gestione del patrimonio, la gestione del servizio,
l'advocacy delle famiglie e la presenza del volontariato, collegamento con
la Comunità Locale, tutto inserito in un Piano di Zona per i servizi all'handicap
coordinato da un Ente Locale con ruolo di programmazione.
L'impressione è che siamo in mezzo al guado.
E' ancora culturalmente presente e dominante il modello istituzionale
(risposta completa) ma viene richiesto sempre di più il modello flessibile,
e attualmente questo porta ad una serie di confusioni e di incongruenze:
· non è la struttura che determina l'organizzazione o le prestazioni, ma è
la persona che a seguito della valutazione dell'Unità Operativa Distrettuale
determina il carico assistenziale e le possibili risposte;
· l'organizzazione non può essere piramidale, rigida, basata sulle procedure,
ma deve essere orizzontale, elastica, orientata ai risultati, garantire la
centralità della persona.
Queste considerazioni portano ad un modello organizzativo delle comunità residenziali
basate su alcune peculiarità tipiche: la casa, la media dei posti letto che
oscilla da sei a dodici.
Non è vero che "piccolo è bello, ma costa di più". Se analizziamo attentamente
i costi vediamo che a parità di retta c'è un'incidenza completamente diversa
delle voci assistenziali, educative e di struttura. Nella piccola comunità
l'80% dei costi è relativo al personale assistenziale ed educativo, quindi
l'efficacia e l'efficienza dell'intervento è molto alta mentre nelle comunità
(vedi l'esperienza lombarda dove gli ospiti sono mediamente 30) i costi di
struttura incidono in maniera più rilevante.
Altro aspetto da considerare è che i piccoli gruppi si specializzano su un
segmento specifico dell'utenza, quindi danno risposte più appropriate a carichi
assistenziali diversi; quindi sono diverse, quindi costano diversamente.
Alcuni sostengono che è solo questione formale sui nomi (Comunità Alloggio,
Gruppo Famiglia, Gruppo Appartamento, ecc. ) io credo che invece siano una
questione sostanziale che richiede più elasticità anche da parte di chi tenta
di regolamentare il sistema o fa le delibere d'indirizzo.
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