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Appunti n.148
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Collocamento al lavoro dei disabili. Le discriminanti norme della riforma del mercato del lavoro

Gianni Selleri, Presidente nazionale ANIEP

La nuova normativa corrisponde a una concezione esclusivamente neoliberista del mercato del lavoro, inteso come ambito di competitività e di dinamiche selettive dal quale sono esclusi tutti gli attori (lavoratori svantaggiati o disabili) che possono rallentare o rendere problematici i ritmi produttivi e la loro razionalità formale.

In quasi tutti i Paesi della Comunità Europea gli handicappati con riferimento alla scuola, al lavoro e all'assistenza sono considerati "persone con bisogni speciali" e si prevedono e organizzano per loro "scuole speciali", "istituti speciali", "laboratori protetti", "residenze e villaggi speciali", "vacanze speciali". Non si tratta, probabilmente, di soluzioni intenzionalmente discriminanti, ma di un approccio pragmatistico secondo il quale a bisogni specifici devono corrispondere interventi specifici: vi è insomma l'adozione prevalente del "modello assistenziale".
In Italia, a partire dagli anni '70, a seguito delle lotte contro le istituzioni totali e all'azione dei movimenti di liberazione, si è affermato, dal punto di vista culturale e legislativo, che nei confronti dei disabili occorre intervenire contestualmente sia sui bisogni specifici che derivano dalle menomazioni, sia sui rischi e le dinamiche di emarginazione ed esclusione sociale.

L'integrazione lavorativa in Italia

Quindi oltre al diritto all'assistenza sociale si dovevano affermare tutti i diritti previsti dalla Costituzione (uguaglianza di opportunità e di dignità, istruzione, salute, lavoro) nei medesimi contesti in cui si realizzano per la generalità dei cittadini: si tratta del "modello dell'integrazione sociale". La tappa conclusiva di questo processo di riabilitazione e di partecipazione è costituito dall'inserimento lavorativo, come condizione di autonomia personale ed economica e come acquisizione di un ruolo esistenziale e sociale: lavoratori disabili nelle fabbriche, negli uffici, nelle istituzioni pubbliche, nelle professioni come e insieme a tutti gli altri lavoratori.
Per molti anni il collocamento al lavoro per gli handicappati è stato per le imprese una obbligazione legale; i datori di lavoro dovevano assumere un'alta percentuale di invalidi spesso senza qualifica e senza nessun meccanismo di raccordo tra domanda e offerta di lavoro, cioè tra le capacità dei disabili e le mansioni disponibili (trovavano lavoro soprattutto i "falsi invalidi").
Nel 1999 è stata approvata una nuova legge sul "Diritto al lavoro dei disabili" che ha contemperato le esigenze dell'economia di mercato con il diritto al lavoro: è stata abbassata l'aliquota d'obbligo, è stato istituito il "collocamento mirato", è stata prevista la fiscalizzazione degli oneri sociali e una serie di incentivi (convenzioni) per favorire l'occupazione dei disabili "con maggiori difficoltà".
In occasione della discussione della legge fu richiesta dalla Confindustria la creazione di contesti di lavoro specificamente destinati alle persone handicappate: le aziende sarebbero state esonerate dall'assunzione e in cambio avrebbero attribuito alle cooperative sociali commesse di lavoro tali da coprire le corrispondenti retribuzioni e oneri previdenziali. Il dibattito culturale e politico fu molto intenso e alla fine si raggiunse un compromesso secondo il quale, fermo restando l'obbligo di assunzione da parte delle imprese, era previsto un inserimento temporaneo (massimo tre anni) dei disabili con maggiori difficoltà nelle cooperative sociali al fine di effettuare un percorso formativo personalizzato.
Le cooperative sociali alle quali si fa riferimento, sono quelle del gruppo B della legge 381/91, cioè costituite da almeno il 30% da "persone svantaggiate" (invalidi fisici, psichici e sensoriali, tossicodipendenti, ex detenuti, malati psichiatrici ecc.); si tratta comunque di contesti in cui, al di là di ogni altra valutazione, si concentrano una molteplicità di menomazioni funzionali e comportamentali e nei quali i fattori di integrazione e di socializzazione sono fortemente limitati, ambiti lavorativi o formativi adatti soprattutto agli handicappati in situazione di gravità permanente.

La riforma del mercato del lavoro

Il Consiglio dei Ministri il 6 giugno 2003 ha approvato lo schema di decreto legislativo in attuazione della delega della legge sul mercato del lavoro ("riforma Biagi"). L'articolo 14 del DL. contiene una disposizione che compromette gravemente l'inserimento lavorativo ordinario dei disabili e istituisce formalmente il sistema del lavoro protetto permanente. La nuova norma prevede che al fine di favorire l'inserimento occupazionale dei "lavoratori svantaggiati" e dei "lavoratori disabili che presentino particolari caratteristiche e difficoltà di inserimento nel ciclo lavorativo ordinario", i servizi del collocamento stipulano con gli imprenditori, convenzioni quadro su base territoriale per il conferimento di commesse di lavoro alle cooperative sociali.

La convenzione quadro disciplina i seguenti aspetti:
a) i criteri di individuazione dei lavoratori svantaggiati (l'individuazione dei lavoratori disabili resta competenza del comitato tecnico di cui alla legge 68/99);
b) la definizione del valore complessivo delle commesse che le imprese conferiscono per i lavoratori svantaggiati inseriti al lavoro nelle cooperative;
c) il valore unitario delle commesse ai fini del computo delle assunzioni dei lavoratori disabili;
d) i limiti percentuali massimi della quota d'obbligo consentita per la convenzione quadro.
Infine e più chiaramente si precisa che quando l'inserimento lavorativo nelle cooperative riguarda persone disabili, le imprese che conferiscono commesse di lavoro sono esentate "dalla copertura della quota di riserva" (cioè non devono assumere persone handicappate), l'esenzione è proporzionale al valore delle commesse; per le imprese che occupano da 15 a 35 dipendenti non si applicano limiti di esenzione dall'obbligo di assumere disabili. Viene così vanificata una delle principali conquiste della legge vigente: l'estensione dell'obbligo di assunzione alle piccole imprese.

Le principali modifiche all'attuale legge sul diritto al lavoro dei disabili riguardano:
a) l'istituzione di un mercato del lavoro "protetto" che non è transitoria e che non comunica più con il mercato del lavoro "ordinario" (fine del collocamento temporaneo per scopi di formazioni e di orientamento);
b) per una quota definita le aziende con più di 35 dipendenti che aderiscono alla convenzione avranno un obbligo di assunzione fortemente ridotto (le piccole imprese sono completamente esonerate);
c) si realizza un abbassamento complessivo dell'obbligo di assunzione che potrà essere a somma zero, compromettendo così l'inserimento lavorativo ordinario non solo dei disabili gravi ma di tutti.
Si afferma insomma una prospettiva di smantellamento progressivo del collocamento delle persone con disabilità, che potranno trovare lavoro soltanto negli enti e nelle amministrazioni pubbliche.

L'articolo 14 del decreto di attuazione della "legge Biagi" corrisponde a una concezione esclusivamente neoliberista del mercato del lavoro, inteso come ambito di competitività e di dinamiche selettive dal quale sono esclusi tutti gli attori (lavoratori svantaggiati o disabili) che possono rallentare o rendere problematici i ritmi produttivi e la loro razionalità formale.
Dal punto di vista culturale e politico si afferma una oggettiva discriminazione dei disabili dai normali contesti di lavoro e di impiego (in contrasto con la Costituzione e con recenti direttive CEE), si acconsente, in modo inquietante e arrogante, alle richieste del mondo imprenditoriale più reazionario, provinciale e incolto ("fateci pagare più tasse ma non mandateci invalidi nelle fabbriche"), si costituisce una logica di scambio di equivalenti fra il mondo delle imprese e il sistema delle cooperative sociali la cui merce sono tutti i lavoratori "disabili o svantaggiati". La nuova norma (che probabilmente è un eccesso di delega) è stata costruita dal punto di vista giuridico in modo che non è modificabile o emendabile: o verrà abrogata (ma con quali forze ?) o verrà integralmente approvata. Questa vicenda richiama alla mente molte affermazioni del darvinismo sociale e una frase: "Un uomo che è nato in un mondo già occupato, se la società non ha bisogno del suo lavoro, non ha diritto di reclamare la più piccola parte di nutrimento perché è in soprannumero. Al grande banchetto della natura non c'è un posto libero per lui. La natura gli comanda di andarsene se egli non può contare sulla compassione di qualcuno dei commensali" (Malthus, 1798).

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Sulla compatibilità tra autorizzazione e funzione di una struttura residenziale per persone con malattia mentale

Gruppo Solidarietà

Le note che riportiamo, se pur datate (2001) rimangono del tutto attuali e vogliono documentare situazioni di estrema confusione riguardanti strutture rivolte a soggetti in particolare situazione di debolezza. Situazioni che hanno come conseguenza un forte affievolimento dei diritti dei residenti.

Lettera del 6 febbraio 2001
In diverse occasioni abbiamo posto il problema della classificazione della struttura in oggetto, in particolare sul mandato della stessa che a nostro avviso si presenta contraddittorio, anche in riferimento alle indicazioni regionali in tema di salute mentale (P.O. e successive modifiche). Le principali contraddizioni riguardano:
- l'essere struttura di tipo sanitaria (accoglie persone con malattia psichica su indicazione del Dipartimento di salute mentale) e dall'altro avere come riferimento normativo il settore dell'assistenza sociale;
- la tipologia di utenza della struttura.

L'Atto di convenzione (19.5.1999)
- Si stabilisce che la struttura è "destinata a malati psichici che hanno superato la fase acuta e sub acuta della malattia"; dunque persone malate! nonostante ciò essa è stata autorizzata con decreto del Servizio servizi sociali e si fa riferimento ai requisiti della D.R. 54/96, attuativa dell'art. 9 della legge 43/1988 (tale delibera in realtà non fa riferimento a strutture destinate a soggetti con malattia mentale e non potrebbe farlo essendo queste di competenza del settore sanità, ma riguarda "strutture residenziali e semiresidenziali socio educative e assistenziali per i minori e per gli adulti in difficoltà, anche portatori di handicap")
- Sempre nello stesso Atto la struttura residenziale viene individuata come "presidio residenziale del privato sociale a supporto dell'attività riabilitativa psichiatrica del DSM dell'AUSL 5"
- Viene stabilito inoltre che il DSM: - elabora per ciascun soggetto un programma terapeutico; - definisce anche il periodo di permanenza nella struttura; - verifica periodicamente l'andamento del programma terapeutico; insieme al responsabile della struttura verifica i risultati ottenuti ("Al fine di evitare ogni possibile forma di cronicizzazione")
- è previsto il pagamento di una quota alberghiera a carico dell'utente pari a L. 32.500 giornaliere.

Dalla stessa Convenzione emerge una palese contraddizione tra tipologia di utenza e tipologia di struttura. Si è in presenza infatti di una comunità che accoglie soggetti malati mentali, con un chiaro iter definito dal DSM e contestualmente la struttura deputata a compiere l'intervento terapeutico riabilitativo è una struttura del settore socio assistenziale tanto che nell'Atto di convenzione, nonostante le funzioni assegnate, nessun riferimento viene fatto alle normative regionali attuative del P.O.S.M.. Viene inoltre previsto a carico dell'utente il pagamento di una quota alberghiera, indebita se riferita a soggetti malati che affrontano un percorso terapeutico riabilitativo.
Quanto invece alla tipologia di struttura, nonostante che in premessa si chiarisca che essa è destinata a malati psichici che hanno superato la fase acuta e sub acuta della malattia, nei fatti essa ospiti anche soggetti che terminata la fase acuta accedono ad un programma terapeutico riabilitativo.
Emerge dunque una situazione alquanto confusa (tipologia di struttura, tipologia di utenza, autorizzazione al funzionamento).

Nel richiedere chiarimenti al riguardo, tenendo conto di quanto sopra si ritiene, infine, del tutto ingiustificato:
- l'accesso presso la struttura di utenti in post-acuzie necessitanti di un intervento terapeutico riabilitativo assimilabile a quello dell'SRR e la richiesta, per questi stessi soggetti, del pagamento di una quota alberghiera;
- prevedere nel caso di reddito insufficiente da parte dell'utente l'estensione ai tenuti agli alimenti della partecipazione alla spesa; ciò per un duplice motivo: a) gli utenti della struttura sono soggetti malati e per essi devono valere le regole del settore sanitario; b) eventualmente è solo il destinatario (e non l'ente) della prestazione che può rivalersi sui tenuti agli alimenti. Si ricorda inoltre che la DGR 2569/97 "Linee di indirizzo per l'assistenza integrata sociale e sanitaria in soggetti malati mentali", prevede a carico dell'utente con malattia mentale, ricoverato presso una struttura assistenziale un partecipazione al costo pari al 30% della spesa, che commisurata al costo retta delle strutture assistenziali è pari alla quota dell'indennità di accompagnamento e di una piccola parte della pensione. Pertanto la partecipazione alla spesa dovrebbe essere eventualmente, nelle situazioni di cronicità, commisurata al reddito del solo richiedente la prestazione; è evidente che la quota di circa un milione al mese prevista a carico dell'utente nell'Atto di convenzione è accettabile solo nel caso in cui lo stesso percepisca l'indennità di accompagnamento e la struttura garantisca per ogni esigenza del ricoverato (ovvero non sia necessario per alcun motivo il ricorso ad assistenza privata).
- la previsione di dimissione verso altre strutture sempre del settore assistenziale (nello specifico: Case di Riposo) per persone malate non curabili a domicilio già ricoverate presso la stessa struttura.


Lettera del 9 aprile 2001
In data 6 febbraio questa associazione ha richiesto chiarimenti alla AUSL 5 (la nota era stata inviata per conoscenza) circa la classificazione e il mandato della struttura in oggetto. Non avendo ricevuto a tutt'oggi risposta veniamo a chiedere se l'utilizzo di tale struttura è compatibile con l'autorizzazione ricevuta.

- La struttura è stata autorizzata con decreto del Servizio servizi sociali e si fa riferimento ai requisiti della D.R. 54/96, attuativa dell'art. 9 della legge 43/88 (tale delibera in realtà non fa riferimento a strutture destinate a soggetti con malattia mentale) che riguarda "strutture residenziali e semiresidenziali socio educative e assistenziali per i minori e per gli adulti in difficoltà, anche portatori di handicap"
- L'Atto di convenzione (19.5.1999) tra l'Azienda sanitaria 5 e la Cooperativa Cooss Marche - ente gestore - stabilisce che la struttura è "destinata a malati psichici che hanno superato la fase acuta e sub acuta della malattia";
- Sempre nello stesso Atto la struttura residenziale viene individuata come "presidio residenziale del privato sociale a supporto dell'attività riabilitativa psichiatrica del DSM dell'AUSL 5"
- Viene stabilito inoltre che il DSM: - elabora per ciascun soggetto un programma terapeutico; - definisce anche il periodo di permanenza nella struttura; - verifica periodicamente l'andamento del programma terapeutico; insieme al responsabile della struttura verifica i risultati ottenuti ("Al fine di evitare ogni possibile forma di cronicizzazione")
- è previsto il pagamento di una quota alberghiera a carico dell'utente pari a L. 32.500 giornaliere.

Dalla stessa Convenzione emerge una palese contraddizione tra tipologia di utenza e tipologia di struttura. Si è in presenza infatti di una comunità che accoglie soggetti malati mentali, con un chiaro iter definito dal DSM e contestualmente la struttura deputata a compiere l'intervento terapeutico riabilitativo è una struttura del settore socio assistenziale tanto che nell'Atto di convenzione, nonostante le funzioni assegnate, nessun riferimento viene fatto alle normative regionali attuative del P.O.S.M.. Viene inoltre previsto a carico dell'utente il pagamento di una quota alberghiera, indebita se riferita a soggetti malati che affrontano un percorso terapeutico riabilitativo.
Quanto invece alla tipologia di struttura, nonostante che in premessa si chiarisca che essa è destinata a malati psichici che hanno superato la fase acuta e sub acuta della malattia, nei fatti essa ospiti anche soggetti che terminata la fase acuta accedono ad un programma terapeutico riabilitativo.

Nel richiedere chiarimenti al riguardo, tenendo conto di quanto sopra si ritiene, infine, del tutto ingiustificato:
- l'accesso presso la struttura di utenti in post-acuzie necessitanti di un intervento terapeutico riabilitativo assimilabile a quello dell'SRR e la richiesta, per questi stessi soggetti, del pagamento di una quota alberghiera;
- prevedere nel caso di reddito insufficiente da parte dell'utente l'estensione ai tenuti agli alimenti della partecipazione alla spesa; ciò per un duplice motivo: a) gli utenti della struttura sono soggetti malati e per essi devono valere le regole del settore sanitario; b) eventualmente è solo il destinatario (e non l'ente) della prestazione che può rivalersi sui tenuti agli alimenti. Si ricorda inoltre che la DGR 2569/97 "Linee di indirizzo per l'assistenza integrata sociale e sanitaria in soggetti malati mentali", prevede a carico dell'utente con malattia mentale, ricoverato presso una struttura assistenziale un partecipazione al costo pari al 30% della spesa, che commisurata al costo retta delle strutture assistenziali è pari alla quota dell'indennità di accompagnamento e di una piccola parte della pensione. Pertanto la partecipazione alla spesa dovrebbe essere eventualmente, nelle situazioni di cronicità, commisurata al reddito del solo richiedente la prestazione; è evidente che la quota di circa un milione al mese prevista a carico dell'utente nell'Atto di convenzione è accettabile solo nel caso in cui lo stesso percepisca l'indennità di accompagnamento e la struttura garantisca per ogni esigenza del ricoverato (ovvero non sia necessario per alcun motivo il ricorso ad assistenza privata).



Lettera del 30 luglio 2001
Successivamente al nostro comunicato stampa del 18.7. u.s., riguardante il funzionamento della struttura in oggetto, ripreso da alcuni giornali nei giorni scorsi giorni, abbiamo ricevuto (il 27.7.) dalla ASL 5 la nota inviata dalla stessa in data 27.6 all'assessorato regionale alla sanità che aveva richiesto chiarimenti a riguardo.
E' ben strano che a distanza di oltre cinque mesi dalla richiesta inviata alla AUSL 5 e a più di tre da quelle inviate agli assessorati regionali alla sanità e ai servizi sociali, le istituzioni invece di rispondere all'associazione che richiede chiarimenti si scambino tra loro lettere ignorando, incredibilmente, il soggetto interpellante che, dunque, non avrebbe alcun diritto di ricevere una risposta. Grazie.

In merito alla nota della AUSL 5 si fa presente quanto segue:
- la struttura è stata autorizzata con decreto del Servizio servizi sociali il quale fa riferimento ai requisiti della D.R. 54/96, attuativa dell'art. 9 della legge 43/88 (tale delibera riguarda "strutture residenziali e semiresidenziali socio educative e assistenziali per i minori e per gli adulti in difficoltà, anche portatori di handicap"). A nostro avviso è molto grave che l'assessorato ai servizi sociali della regione Marche (dal quale continuiamo ad attendere un riscontro) utilizzi tali norme per autorizzare una struttura residenziale destinata a "malati psichici che hanno superato la fase acuta e sub acuta della malattia", ingenerando così un quadro di grande confusione e determinando situazioni come quella della struttura in oggetto; strutture che ospitano soggetti con malattia mentale regolate dalle regole del settore dell'assistenza sociale;
- In considerazione del più volte richiamato POSM 1998-2000, vogliamo ricordare che la Convenzione tra AUSL 5 e Cooperativa Cooss Marche è dell'11 maggio 1999, il POSM è stato pubblicato in G.U. in data 22 novembre 1999 e dunque alla data della stipula della convenzione le previsioni del piano non potevano essere attuate dato che l'Atto è stato emanato successivamente; il richiamo comunque, ci pare, strumentale e finalizzato a giustificare una funzione diversa da quella assegnata.
- Pur ritenendo che l'assessorato regionale ai servizi sociali non sia competente per autorizzare alcuna struttura destinata a soggetti malati mentali, siano essi in acuzie, post acuzie o cronici, e dunque sia necessario un intervento normativo regionale (qui si concorda con l'analisi della nota della ASL 5), la struttura in oggetto si distanzia dall'autorizzazione ricevuta quando ospita anche soggetti che accedono ad un programma terapeutico riabilitativo (terminata la fase acuta). In questa situazione (data, ripetiamo, l'autorizzazione ricevuta), posto che tali soggetti non dovrebbero accedere alla struttura riteniamo del tutto inaccettabile il pagamento della quota alberghiera (il recente DPCM 14.2.2001, prevede - anzi conferma - per le strutture previste dal POSM l'intero onere della retta a carico del Sfondo sanitario). D'altra parte a noi pare del tutto logico che a fronte di una autorizzazione ricevuta non sia possibile stravolgere la funzione assegnata. Funzione che per certi versi ci pare in molte situazioni assimilabile al SSR.
- Sulla partecipazione al costo del Servizio da parte dell'utente, non possiamo che ribadire quanto già indicato nella nostra lettera dello scorso 6 febbraio. E comunque risottolineare che l'estrema contraddizione tra classificazione e utilizzazione trova pratica applicazione nelle regole riguardanti la contribuzione (per le quali in ogni caso deve valere - nelle situazioni di cronicità - il criterio del reddito del solo richiedente la prestazione).
- Pare infine opportuno ricordare - è il motivo per cui, non va dimenticato, vi abbiamo interpellato seppur "reiteratamente ignorati" - che la struttura - proprio in ragione della impropria, a nostro avviso, funzione assegnata, dimette malati (che rimangono tali), che vengono scaricati (perché di questo si tratta), presso strutture assistenziali (ospizi) che non hanno assegnata alcuna funzione di cura neanche quando il soggetto malato (in questo caso mentale) è stabilizzato. Le "strutture con funzioni di residenza permanente" sono anche le "strutture del privato sociale", ed i malati che vi transitano che hanno un nome e un cognome, così come i loro familiari, crediamo abbiano il diritto di vivere in un luogo che non sia permanentemente transitorio (e ogni volta di dimensioni maggiori e con standard assistenziali ridotti) e rispondente alle loro esigenze ai loro bisogni e ci pare di poter dire ai loro diritti. Per questi motivi, come più volte ricordato, sosterremo le famiglie che si troveranno nella condizione di subire dimissioni forzate.
Naturalmente restiamo in attesa delle risposte, che a tutt'oggi non abbiamo ricevuto.

Sul funzionamento delle Residenze Sanitarie Assistenziali nella ASL 5 di Jesi

Gruppo Solidarietà

Riportiamo la lettera inviata lo scorso 23 giugno alla direzione della ASL 5 di Jesi e all’assessorato alla sanità della regione Marche sulla situazione delle RSA. Il Gruppo Solidarietà resta ancora in attesa di una risposta.

Lo scorso 28 gennaio (1) questa associazione si era rivolta alla Azienda sanitaria n. 5, riproponendo, temi non nuovi (ma mai affrontati e tanto meno risolti) quali, in particolare, quello dell'utilizzo delle 3 residenze sanitarie assistenziali presenti nel territorio dal 1992. La presente è per ribadire quanto più volte denunciato circa l'illegittimo utilizzo delle stesse in palese contrasto con l'autorizzazione ricevuta. In questi anni l'Azienda sanitaria nulla ha fatto per cercare di risolvere tale problema, continuando ad utilizzare le strutture per la fase di stabilizzazione o di riabilitazione post acuzie, dimettendo, con il solo criterio cronologico e ciò appare di una gravità estrema, i malati in qualsiasi condizione di non autosufficienza possano trovarsi.

L'informazione fornita dagli operatori agli ignari malati e familiari è che il ricovero in queste strutture è comunque temporaneo; che gli stessi debbono pensare a trovare situazioni idonee di accoglienza terminata la fase di stabilizzazione; nel foglio fatto firmare agli utenti e ai loro parenti il messaggio è chiaro "Il ricovero in RSA è limitato al periodo necessario alla stabilizzazione clinica del paziente ovvero al completamento del ciclo riabilitativo previsto (…)". L'azienda sa benissimo che si tratta di una interpretazione del tutto scorretta della normativa, volta esclusivamente ad utilizzare le strutture con una funzione lungodegenziale, ovvero con un ricovero comunque a termine.

Così scrivevamo lo scorso gennaio "Un primo aspetto riguarda l'informazione. (..) Ad esempio: - si informano i malati ed i loro familiari che il periodo di stabilizzazione deve essere fatto in strutture ospedaliere di lungodegenza (che hanno standard assistenziali ben diversi da quelli delle Rsa) e che dunque la funzione delle Rsa è ben diversa da quella della riabilitazione e lungodegenza post acuzie? - Che nelle RSA non è scritto da nessuna parte che la degenza è limitata a 3 mesi, ma solo che alla scadenza del terzo mese, dopo valutazione, scatta il pagamento della quota alberghiera e che comunque la degenza può anche essere permanente? - Che su indicazione del medico di reparto date condizioni assimilabili a quelle di un ricovero ospedaliero (che poi sono la maggior parte di quelli che superano i 90 giorni di ricovero), come indicato dalle note del direttore sanitario, la degenza può continuare ad essere a completo carico sanitario? - Le UVD informano gli utenti che le nostre Case di Riposo (tranne che per qualche decina di posti letto autorizzati che comunque rimangono sempre strutture del settore sociale) non hanno l'autorizzazione per accogliere soggetti non autosufficienti, compresi i malati con patologia psichiatrica? Che nelle stesse ci sono standard assistenziali di fatto incompatibili con la gestione di gran parte dei malati ricoverati molti dei quali in condizione di estrema gravità?". E' possibile che tutti gli utenti siano dimissibili?

L'Azienda, continua così - benedetta dalla regione Marche che in modo del tutto pilatesco fa finta di non sapere, sostenuta dal silenzio delle amministrazioni comunali del territorio (2) che in questo modo ritengono di adempiere alla verifica del raggiungimento dei risultati di salute - a negare alle persone ammalate gli interventi di cui hanno bisogno, informando in modo del tutto scorretto utenti e familiari circa il funzionamento delle strutture, rendendosi peraltro responsabile di dimissioni verso regimi (domiciliare o residenziale) del tutto incompatibili con le condizioni dei malati. Ma informare correttamente mette in crisi il sistema e allora meglio non dire; così il sistema è salvo; se poi questo confligge con le esigenze e i diritti di alcuni utenti ciò non può rappresentare un problema anche per chi ha il compito istituzionale di provvedere alla tutela della salute della popolazione residente.

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