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| I NOSTRI CONTI CON BASAGLIA (torna all'indice informazioni) Nell’ultimo libro di Giovanni Jervis e di Gilberto Corbellini e 
        nelle interviste su alcuni quotidiani che promuovono l’uscita del 
        libro, si esprimono giudizi severi sul movimento antistituzionale italiano 
        e sulla riforma psichiatrica del 1978. Non ci sembra nemmeno il caso di contrastare le pesanti critiche personali 
        rivolte a Franco Basaglia da Jervis. Tali critiche vogliono comprovare 
        la povertà morale del personaggio e affermare di conseguenza il 
        discredito del suo operato. Ognuno ha naturalmente diritto a sostenere 
        le proprie idee e noi non pretendiamo di ”santificare” il 
        personaggio-Basaglia, né di reclamarne l’agiografia. Ma poiché 
        Jervis, da quarant’anni ormai, si è posto in modo ostile 
        verso Basaglia, polemizzando pubblicamente con le sue scelte, è 
        difficilmente credibile ogni suo tentativo di collocarsi in una sorta 
        di distaccata neutralità, specie se narra episodi privi di oggettivi 
        riscontri. Jervis usa la tecnica consumata del gossip: dichiara preliminarmente 
        rispetto per la controparte in modo che le successive velenose critiche, 
        formulate quasi controvoglia, siano avvalorate proprio dalla buona disposizione 
        dell’autore. In ogni caso ogni giudizio sulla vita privata di una 
        persona costituisce sempre una grave caduta di tono e diventa inqualificabile 
        se l’interessato è scomparso e non può più 
        controbattere. A un certo punto sorge anche il legittimo dubbio che le 
        interviste sui giornali o alla radio, i dibattiti su Basaglia, come quello 
        tenuto a Lodi da Jervis sul tema dell’”Invidia”, vogliano 
        dar lustro all’autore contrapponendolo a un personaggio celebre 
        e facciano parte di una tecnica pubblicitaria. Dare vita alle polemiche 
        rischia pertanto di fare il gioco di questa strategia… E tuttavia 
        non possiamo non intervenire contestando come falsa l’etichetta 
        di “antipsichiatra”, che Jervis attribuisce a Basaglia. Probabilmente 
        Basaglia non avrebbe speso nemmeno una parola per difendere la sua identità, 
        considerandolo un ozioso dibattito. Ma la questione, per noi, merita una 
        riflessione, perché non è forse del tutto accademica e si 
        inscrive nel tentativo più complesso di liquidare la riforma psichiatrica, 
        attribuendo ogni sua difficoltà non al modo con cui è stata 
        ed è governata, quanto piuttosto a una sorta di peccato originale 
        – l’antipsichiatria -, che finalmente potrà essere 
        corretta ed eliminata. Naturalmente per noi essere definiti antipsichiatri non costituisce un’offesa! 
        L’antipsichiatria nel panorama degli anni 60 ha costituito un pensiero 
        positivo, ricco di aspirazioni emancipatrici, ed è servito per 
        squarciare il mondo oppressivo della psichiatria tradizionale. Ma le differenze 
        tra il pensiero antipsichiatrico e il pensiero-azione antistituzionale 
        di Basaglia, la differenza fra la deospedalizzazione e la de istituzionalizzazione 
        sono state evidenti fin dall’inizio. Il rifiuto di Basaglia di essere 
        considerato un antipsichiatra è sempre stato categorico e inequivocabile. 
        Gorizia era nata nel ’61, molto prima del successo dell’antipsichiatria, 
        e i punti di riferimento scientifico-culturali dei due pensieri erano 
        profondamente diversi e soprattutto diversi sarebbero stati i loro sviluppi. 
        Jervis non nega tutto ciò, riconosce il valore di Gorizia (naturalmente 
        nel periodo in cui lui era presente) e afferma che l’involuzione 
        antipsichiatrica di Basaglia avviene successivamente, negli anni ’70, 
        quando Basaglia si appiattisce sul pensiero di un cattivo maestro – 
        Michel Foucault - e quando considera la malattia mentale solo come una 
        devianza sociale. Per Jervis Basaglia è sostanzialmente autoritario, 
        dominato dal massimalismo e dalla ideologia, anche se si mostra paradossalmente 
        plagiabile dai suoi collaboratori e asservito alle logiche del partito 
        comunista. Basaglia in quegli anni insegue giochi di potere, è 
        sempre più avulso dalla pratica, specie quella dei servizi territoriali, 
        dove si va affermando invece un sano ritorno alla clinica tradizionale. 
        L’emblema del fallimento di Basaglia è per Jervis la creazione 
        e la storia di Psichiatria Democratica…  Contrariamente a quanto asserisce Jervis, Basaglia ha applicato il metodo 
        della sospensione del giudizio- l’epoché di Edmund Husserl 
        – secondo cui il cambiamento diventa possibile solo nella interruzione 
        del tempo, nella possibilità che il pensiero pensi con la forza 
        del negativo e dell’impossibile. Basaglia, per liberare la voce 
        della follia, ha imposto il silenzio alla scienza. La malattia mentale 
        è stata messa tra parentesi per consentire, a chi era ritenuto 
        incapace, di poter esprimere i propri bisogni e la propria soggettività. 
        Basaglia non ha voluto giocare con le parole: ha cercato di dar voce al 
        “contenuto trasformato”, secondo il pensiero di Karl Marx. 
        Ha rifiutato di parlare al posto dei pazienti, di ergersi a paladino dei 
        loro bisogni, interpretandoli, dando loro nuovi contenuti. Mantenendo 
        la disponibilità all’ascolto ha consentito l’emergere 
        di un nuovo modo di relazionarsi e ha permesso di capire ciò che 
        prima era impedito. Erano i pazienti che dovevano esprimersi: loro dovevano 
        diventare i veri protagonisti della cura!  Distruggendo l’istituzione e sospendendo il discorso scientifico 
        sulla malattia mentale, i nodi del potere e del sapere, in verità, 
        non sono stati sciolti per sempre: sono solo stati allentati. “La 
        distruzione dell’OP, in sé stessa,- diceva infatti Basaglia 
        - non significa nulla. E’ tuttavia la condizione che può 
        far emergere, finalmente, la questione psichiatrica”. La psichiatria 
        tradizionale si è ritrovata spiazzata: una falla si è aperta 
        nella intersezione tra potere e sapere, tra le pratiche e le teorie. Le 
        conoscenze, i saperi tradizionali però non son stati rifiutati 
        o gettati via. Nel nuovo contesto liberato i saperi hanno assunto una 
        pregnanza diversa, anch’essi sono stati “liberati”, 
        sono diventati patrimonio di nuovi protagonisti. Le conoscenze tradizionali 
        si sono arricchite, quando si sono confrontate con quelle che scaturivano 
        dalle esperienze di de istituzionalizzazione. Caratteristiche fondanti 
        di tali esperienze sono state, sia la messa in crisi di due fondamentali 
        paradigmi clinici - quello fondato sugli antagonismi e quello basato sul 
        principio problema/soluzione - , che il passaggio dal percepirsi del paziente 
        al suo realizzarsi. Non è stato negato infatti il valore dell’inconscio, 
        né della presa di coscienza del soggetto; è stato valorizzato 
        l’esercizio del potere personale (bene primario della persona), 
        il riconoscimento della contrattualità sociale, la pratica dei 
        diritti di cittadinanza, la costruzione e l’invenzione di fattive 
        possibilità di fruire e di produrre. Prendersi cura del paziente 
        ha significato la progressiva modifica dello statuto sociale dell’utente 
        - da malato a cittadino portatore di sofferenza – e ha prospettato 
        un modo altro di fare terapia. Ha proposto una metodologia innovativa 
        basata sull’invenzione di strategie indirette, sulla messa in opera 
        progressiva della rinuncia a ogni soluzione ottimale, sulla convivenza 
        con contraddizioni logiche e pratiche, sulla capacità di mettere 
        a frutto la propria competenza del residuo, producendo un’esperienza 
        cognitiva sulla produttività della incertezza, delle contraddizioni, 
        del non equilibrio. * Basaglia avrà avuto certamente dei limiti, avrà commesso 
        degli errori, come ciascuno essere umano, ma ha avuto ragione in molte 
        occasioni. L’ha avuta quando ha ritenuto che l’unica strategia 
        possibile per il cambiamento fosse decostruire prima di tutto il manicomio, 
        arrivando alla sua effettiva chiusura, senza fughe in avanti; ha avuto 
        ragione quando con il successo della de istituzionalizzazione avrebbe 
        potuto proporre nuove teorie e invece ha rilanciato l’esigenza di 
        oltrepassare la proposta politica, andando alla socializzazione della 
        questione psichiatrica; ha avuto ragione non anteponendo la sua voce a 
        quella dei pazienti, consentendo la presa della parola da parte di chi 
        ne era sempre stato privato; ha avuto ragione quando nel pieno del successo 
        ha rifiutato di andare all’Università, preferendo con coerenza 
        di rimanere nella trincea del sistema sanitario per affrontare le contraddizioni 
        della pratica. Ma Basaglia ha soprattutto dimostrato che la trasformazione 
        è possibile, quando il pensiero pensa con la forza del negativo 
        e dell’impossibile e si accompagna al coraggio della determinazione 
        e della coerenza. Altri soggetti di fronte alle difficoltà, alle 
        contraddizioni della pratica si sono arresi al pessimismo della ragione; 
        lui invece è andato avanti sorretto dall’ottimismo della 
        volontà. Ernesto Venturini 
 
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