L'eutanasia - è l'opinione di Giampiero Griffo - non è
solo la possibilità di scegliere di morire, in presenza di un'insostenibile
condizione di sofferenza, ma nasconde anche un'inquietante prospettiva
di trattamento
delle persone ritenute come "un peso sociale". Per questo e
altro ancora, come su ogni tema bioetico, ci si deve confrontare con il
movimento delle persone con disabilità: ora più che mai.
Il dibattito suscitato dalla lettera di Piergiorgio Welby al presidente
della Repubblica Giorgio Napoletano sull'eutanasia solleva argomenti spesso
relegati in campi oscuri e nascosti, proprio per la poca - presunta -
appetibilità mediatica di tali questioni.
L'interesse invece che immediatamente ha suscitato nei cittadini apre
uno squarcio incontrollabile al sistema di comunicazione e informativo
dei mass media (soprattutto televisivi e commerciali), basato sull'idea
che tutto ciò che non è bello debba essere espunto dai palinsesti
(o al massimo relegato in fasce d'ascolto assolutamente marginali), perché
può disturbare e allontanare gli ascoltatori.
Allo stesso tempo, però, la maniera spesso ambigua e semplificatoria
di affrontare questioni delicate che toccano la qualità della vita
di tutti rischia di indirizzare la discussione su un sentiero ideologico
(cattolici e
laici l'un l'altro contrapposti) o, peggio ancora, su un terreno scivoloso
che ripropone sottili discriminazioni e prefigura scenari inquietanti
per le persone con disabilità. Di questo vorrei parlare qui, senza
la presunzione di rispondere in maniera esaustiva a tutte le questioni
sul tappeto.
La richiesta di Welby di chiedere di interrompere la propria vita - tema
angosciante che nasconde l'ancor più angosciante situazione di
non potersi suicidare da solo - va inquadrato, a parer mio, in una dimensione
che superi la visione individualistica del problema per porlo su un orizzonte
più ampio.
L'eutanasia non è solo la possibilità di scegliere di morire,
in presenza di una condizione di sofferenza insostenibile, ma nasconde
un'inquietante prospettiva di trattamento delle persone ritenute un "peso
sociale".
Un primo dato da cui vorrei partire è la crescita esponenziale
negli ultimi anni - anche grazie ai progressi della medicina - di aspettative
di vita e di sopravvivenza, sia dal lato dei nati con gravi disabilità,
che prima non sopravvivevano alla nascita o ai primi giorni di vita, sia
dei trattamenti per malattie non ancora debellate, che vedono continui
miglioramenti (pensiamo alle malattie rare e a quelle progressive), sia
ancora di coloro i quali, attraverso appropriate assistenze mediche, possono
prolungare di anni e a volte di decenni la propria vita.
Queste nuove opportunità di trattamento stanno ponendo nuovi interrogativi
alla società: è utile spendere cifre ingenti per curare
pochi pazienti (una delle voci che fa lievitare i costi del Sistema Sanitario
Nazionale sono proprio i trattamenti per le malattie rare.)? Qual è
il peso degli anziani non autosufficienti (e degli anziani in generale)
sul sistema sociale italiano?
Negli Stati Uniti d'America, dove lo sviluppo della società individualistica
basato prioritariamente sul valore economico di qualsiasi cosa (e quindi
degli stessi esseri umani) è giunto al massimo livello di crescita,
filosofi morali famosi come Peter Singer (ospitato qualche anno fa al
Festival della Letteratura di Mantova come una star), hanno formulato
il tema in maniera brutale: in una società dove vi sono scarsità
di risorse, è morale spendere risorse ingenti per sostenere le
persone con disabilità? «Non sembra del tutto saggio - ha
scritto a tal proposito in un suo libro - aumentare ulteriormente il drenaggio
di già limitate risorse, incrementando il numero dei bambini con
disabilità».
Il primo interrogativo da porci è quindi una domanda semplice
e diretta: quale livello di accoglienza sociale e di sostegno ai diritti
delle persone con disabilità ci offre la società? Una persona
che ha una caratteristica
socialmente considerata indesiderabile è ben accolta nella nostra
società? Non credo che tali considerazioni "escano dal tema",
perché alla fine Piergiorgio Welby è una persona con disabilità.
Non è un caso, del resto,
che la tutela del diritto all'eutanasia, regolamentato da leggi in vari
Paesi europei, sia stata giustificata partendo proprio dalla condizione
delle persone con disabilità e dalla presunta inferiorità
della loro qualità
di vita.
Purtroppo la risposta è ancora negativa: è basso il livello
di accoglienza culturale e sociale garantito alle persone con disabilità;
sono limitati e insufficienti i sostegni economici, sociali e tecnologici,
del tutto
inadeguate le risposte al problema della loro autonomia. Basti pensare
come sia stata osteggiata dalla precedente Legislatura del nostro Paese
l'idea di una tassa di scopo per sostenere un Fondo per le Persone Non
Autosufficienti. In fondo si trattava di assicurare la propria vita, dal
momento che la disabilità - come sottolinea l'Organizzazione Mondiale
della Sanità (OMS) - è una condizione che nell'arco di una
vita vivranno tutti gli esseri umani...
Con la legalizzazione dell'eutanasia non rischiamo dunque di avvicinarci
all'idea che la società possa decidere della vita delle persone?
E di quali persone in particolare? E quale sarà il destino delle
persone con disabilità, le più discriminate ed escluse?
Abbiamo fatto tanto per uscire dal ruolo di cittadini invisibili e ora
ci riportano a quello di cittadini indesiderabili? Non si corre il rischio
ancora una volta che qualcuno decida della nostra vita al nostro posto?
Non c'è il timore di una selezione eugenetica facilitata dalla
possibilità di scegliere l'eutanasia?
Un secondo elemento che colpisce è il numero di esempi portati
dai mass media di persone che hanno deciso di continuare a vivere, anche
in presenza di limitazioni funzionali gravissime. Appare quasi incredibile,
in questo senso, quanto si siano impegnati i giornalisti, sempre estremamente
reticenti a parlare di questi argomenti in momenti ordinari, a trovare
casi di persone nelle più disparate condizioni che hanno scelto
di combattere per sopravvivere.
Cosa accomuna questi esempi? La ricchezza delle relazioni che stanno loro
attorno. La qualità della vita delle persone, infatti, non dipende
solamente da una condizione soggettiva e individuale, ma dal tessuto dei
rapporti e dei sostegni che la società offre loro.
Spesso la sofferenza fisica è sopraffatta da un vuoto di relazioni
e affetti che produce la perdita della motivazione a vivere. E non è
solo una questione che riguardi i malati terminali.
Una recente notizia di agenzia ci permette poi di inquadrare tutta la
questione in un ambito più vasto: «Ogni anno - secondo dati
dell'OMS e dell'Associazione Internazionale per la Prevenzione del Suicidio
(IASP) -
quasi 900 mila persone muoiono per suicidio; nel 2000 sono morte così
circa un milione di persone. [.] Negli ultimi 45 anni la percentuale dei
suicidi è aumentata del 60% nel mondo e, ad oggi, è tra
le tre cause principali di morte tra i 15 e i 44 anni. Infatti, anche
se tradizionalmente il suicidio è più frequente tra i maschi
anziani, secondo l'OMS, il fenomeno si sta allargando considerevolmente
fra i giovani [...]. Al suicidio sono associati nel 90% dei casi disturbi
mentali (in particolare depressione e abuso di droghe), ma secondo il
rapporto sono legati a questo gesto molti fattori socio-culturali; inoltre
è più probabile che il suicidio si verifichi durante periodi
di difficoltà economica, di crisi in famiglia o individuale, come
la perdita di una persona cara o del lavoro. Il fenomeno, secondo l'organizzazione,
ha bisogno di un approccio multisettoriale per essere combattuto: i dati
dimostrano che prevenire depressione, alcol e abuso di droghe può
ridurre il rischio, così come interventi scolastici che lavorino
sulla gestione di crisi, miglioramento dell'autostima e la capacità
di prendere decisioni positive. E tuttavia, secondo l'OMS, manca la consapevolezza
che il suicidio è un problema di grande impatto sociale, discuterne
è ancora un tabù e
solamente alcuni Paesi hanno incluso la prevenzione di suicidio fra le
loro priorità [grassetti nostri, N.d.R.]».
La società in cui viviamo, dunque, è indirizzata al benessere
delle persone? I valori che ne stanno alla base sono quelli della migliore
qualità della vita di tutti o invece una concorrenzialità
senza fine tra i suoi membri fa perdere di vista i diritti umani di tutti?
E del vuoto sociale e della solitudine che colpisce un numero sempre crescente
di persone chi se ne occupa? Pur tenendo conto delle condizioni estreme
di sopravvivenza della singola persona e rispettando le percezioni individuali
di chi le vive, credo sia importante continuare a mantenere una posizione
critica verso la società che considera le persone solo dal punto
di vista dei vincenti e dei perdenti, che si interroga sempre più
su chi abbia il diritto di vivere, che definisce la qualità della
vita delle persone sulla base di proiezioni illegittime delle proprie
paure.
Se il movimento delle persone con disabilità è un movimento
di emancipazione da una società che ci ha escluso e cancellato,
credo sia importante rivendicare prima di tutto il nostro diritto alla
vita in eguali condizioni di opportunità e senza discriminazioni,
come afferma la Convenzione dei Diritti delle Persone con Disabilità
recentemente approvata dall'ONU (articolo 10: «Gli Stati Parte riaffermano
che ogni essere umano ha l'inalienabile diritto alla vita e prenderanno
tutte le misure necessarie ad assicurare l'effettivo
godimento di tale diritto da parte delle persone con disabilità
su una base di eguaglianza con gli altri»).
Allo stesso tempo dobbiamo con maggiore impegno essere capaci di costruire
società inclusive, dove siano rispettate le diversità umane,
dove ognuno sia ben accolto e trovi gli appropriati sostegni al godimento
dei diritti fondamentali.
Il rischio, infatti, è che la società degli inclusi si arroghi
il diritto di decidere chi debba essere incluso e chi possa essere eliminato.
Per quanto riguarda il testamento biologico, ora in discussione in Parlamento,
che sembra una possibile alternativa all'eutanasia, mi colpisce l'idea
che io possa decidere per una vita futura sulla base delle percezioni
(astratte e pregiudiziali) che possiedo adesso.
Nessuno si augura di subire limitazioni funzionali o di essere colpito
da una grave malattia, però perché si è tanto sicuri
che in questo caso non saremo in grado di conviverci e di costruire una
vita di qualità, partendo
dall'accettazione di quelle limitazioni? Perché si pensa che una
condizione di probabile disabilità sia insostenibile? Anche qui
ritorna una visione artificiale dell'umanità, dove il dolore può
essere espunto e cancellato, senza conseguenze, e le persone con disabilità
sarebbero condannate sempre e comunque ad un'esistenza assolutamente di
bassa qualità.
Perché chiudersi alla semplice idea (e capacità) degli esseri
umani di adattarsi a diverse situazioni e di trovare soluzioni appropriate?
Queste riflessioni certo non esauriscono (né pretendono di risolvere)
le questioni sollevate dalla lettera di Piergiorgio Welby, vogliono unicamente
rivendicare il diritto di parlare di disabilità non solo dal punto
di vista degli ostacoli e delle barriere che la società ci ha creato,
dello stigma negativo che ci attribuisce, bensì anche da una prospettiva
di cambiamento di stereotipi e pregiudizi, sottolineando le capacità
e le potenzialità
delle persone e ribadendo la necessità di confrontarsi con il movimento
delle persone con disabilità, anche sulle tematiche bioetiche,
che quasi sempre parlano di noi: mai come in questo caso lo slogan "niente
su di noi senza di noi" rappresenta un diritto.